Iniziamo a pubblicare alcune considerazioni all’indomani del convegno organizzato da Effimera “Sovvertire l’infelicità – Subverting Unhappiness”. Qui gli audio del convegno
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Quando, qualche mese fa, dopo la firma del governo greco al memorandum, abbiamo cominciato a pensare alla necessità di organizzare una discussione franca su quello che ritenevamo essere il naufragio attuale di un’Europa sempre più determinata a generalizzare la povertà e a erigere muri, non sapevamo bene dove saremmo approdati. Franco Berardi ha azzardato che, sgravati dall’ansia di dover per forza dare “la linea”, avremmo potuto osservare alcuni lati nascosti del problema, oppure scoprire elementi che in altre occasioni ci erano sfuggiti. Il nostro cruccio a non era quello di riparare a qualche eccesso di ingenuità di cui eravamo stati vittime, per quanto avessimo oggettivamente considerato l’Oxi greco e la possibile rottura della trattativa tra Tsipras e la troika come essenziali per il fronte dell’opposizione al direttorio tedesco e ai suoi lacché – e lo rivendichiamo. Il punto era riuscire a mettere a fuoco, con l’aiuto di coloro che sarebbero intervenuti nel dibattito, una mappa per uscire da una condizione di stallo, evidente nella difficoltà di talune categorie teorico-pratiche, nella prova degli anni, riattivando una relazione con il nostro stesso contesto di azione e possibilmente fuori da esso. In tutto questo, forse non c’era una vera e propria regia, tuttavia sapevamo dove andare a cercare e soprattutto avevamo la disponibilità a metterci in ascolto.
Evidentemente, Effimera muove da una radice operaista che rende determinante il porre attenzione alle soggettività del/nel lavoro, dunque muove oggi dalla consapevolezza delle immense questioni teorico-pratiche aperte dai nuovi paradigmi produttivi e da processi di valorizzazione che interessano anche sessualità e corpi, sensibilità e inclinazioni emotive. D’altro lato, Effimera non è un collettivo politico ma una lista di discussione che nel tempo si è allargata e arricchita, comprendendo anime diverse tra loro, il che ha accentuato, nel tempo, la natura antiautoritaria dell’ispirazione della ricerca.
A lavori conclusi, dopo due giorni molto intensi che hanno visto una ampissima partecipazione nella sala della Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, non sappiamo dire se siamo riusciti a disegnare una mappa precisa. Tuttavia, alcuni punti importanti, almeno per noi, sono emersi. Proviamo a elencarli sommariamente, in ordine sparso:
1) La “sovversione dell’infelicità” appare un progetto inclusivo, al momento, e rivoluzionario. A bene guardare si tratta di visualizzare, nella crisi del presente, gli effetti materiali, cognitivi, emotivi del farsi struttura della precarietà esistenziale, venti anni dopo gli esordi: la potenza fatica a esprimersi poiché le persone sono impegnate a sopravvivere all’interno di un processo istituzionalizzato di individualizzazione mentre la crisi sferra i suoi colpi; l’orizzonte dell’autonomia economica è posto come antinomico a ogni forma di coesione sociale; le politiche di “sinistra” hanno avallato quando non aggravato tali sintomi e forme di dissociazione e controllo, peggiorando il senso di isolamento, di defaillance personale, consegnando alla “destra”o a movimenti manifestamente anti-politici orizzonti strategici e rivendicativi. Al momento, i soggetti maggiormente colpiti da questi effetti congiunti non sono nelle condizioni di attuare un processo di ricomposizione e di lotta, non lo sono, almeno, nelle forme classiche, quelle alle quali ci ha abituati il passato. Non si tratta di strizzare l’occhio a disposizioni populiste ma di politicizzare profondamente lo spaesamento espresso dalla soggettività precaria e la frustrazione di non riuscire a creare “alterità”. È necessario far emergere questi aspetti, non neutralizzarli, non isolarli, riconoscendo gli elementi patogeni del contesto. Senza abbandonarci a speculazioni sulla morale, sul bene e sul male, senza arrampicarci su piani ontologici e idealistici, va inquadrato il portato sentimentale che si dispiega all’interno di un sistema che, allargando sfrenatamente le diseguaglianze sociali, la sopraffazione e l’oppressione, allunga nuove ombre sugli universi passionali degli esseri umani. L’infelicità non va allora digerita in silenzio, come condizione singolare, ma condivisa come condizione plurale e come condizione di classe (i felici non hanno un vero interessa a sovvertire nulla o, come ha detto Paula Cobo-Guevara da Barcellona, “la felicità è attualmente una narrazione delle classi medie, una narrazione che fa parte della ideologia borghese”). Ogni analisi eccessivamente entusiastica ed enfatica finisce oggi, suo malgrado, per essere funzionale alla macchina assoggettante neoliberista, paradossalmente emarginando il desiderio di sovversione poiché marginalizza gli scontenti, coloro che non si adattano, i rabbiosi, i non inclusi perché hanno fallito gli obiettivi loro imposti. D’altra parte, la depressione può essere letta come il rifiuto di soggiacere all’omologazione e all’appiattimento esistenziale indicato dalla “riuscita” individuale di un modello imprenditoriale massificato. Il fatto che tante e tanti abbiamo accolto la call del convegno ci conferma che si è compreso il nucleo della proposta, per nulla ripiegato, per nulla marginale. Piuttosto, capace di rimettersi in discussione, aperto, desiderante, liberatorio.
2) Di fronte a un fallimento come quello tracciato dalla parabola greca, troviamo poco consolatorio il riconoscere la generosità del tentativo, così come l’avvio di un potenziale processo politico democratico che potrebbe dare i suoi frutti in un più felice contesto futuro (“In the long run we are all dead”). Certo, lo spazio pubblico, comune e di partecipazione democratica che la vittoria di Syriza ha aperto in Grecia e che la reazione “popolare” alla crisi infinita ha ancor più evidenziato (dalle forme di autogestione dei servizi sociali smantellati sino alla solidarietà attiva nei confronti dei rifugiati e dei migranti), rappresenta un dato di fatto imprescindibile e assume ai nostri occhi una potenzialità da raccogliere e probabilmente foriera di prossimi sviluppi. Ma ciò non può farci dimenticare che l’obiettivo di incrinare le politiche europee d’austerity, con la firma del memorandum, è fallito. Il senso di questo esito, la lezione che è venuta dalle stanze delle istituzioni europee, non può essere aggirato o peggio edulcorato.
3) Il no future punk può offrire allora suggestioni, così come anche l’orizzonte dell'”arte del fallimento” declinata dal pensiero queer inteso come forma di disinvestimento rispetto al piano proposto/imposto dal neoliberismo e dai suoi apparati. Si tratta, prendendo spunto, di rifiutare gli obiettivi di integrazione disegnati dalla società neoliberale che si accompagnano all’individualizzazione, tenendo conto che non vanno chiesti atti d’eroismo ma piuttosto vanno costruite le condizioni alternative per la vivibilità e per la possibilità. Si tratta anche di ammettere ed elaborare i nostri stessi lutti, i fallimenti politici, i fallimenti del comune a cui abbiamo assistito. Non per regolare conti, ma per andare avanti. Per di più, poiché tutto cambia non è strano che cambiamo anche noi.
4) Il femminismo, soprattutto ai suoi esordi, ha re-inventato il “politico”, ha prodotto un modello alternativo di politica, politicizzando il privato e operando uno spostamento rispetto alle costruzioni disciplinanti del capitalismo paternalista fallogocentrico, attivando in proprio le modalità del divenire donna (processi di soggettivazione) attraverso pratiche di autocoscienza (oggi potremmo parlare di posizionamento), di sovversione del linguaggio, di sovversione del piano simbolico e immaginativo, di sovversione del piano analitico – anche e proprio dal punto di vista dell’analisi dei rapporti sociali e di produzione. Un portato di teorie e di pratiche forse non compreso e valorizzato fino in fondo, spesso considerato un’aggiunta, un’integrazione quando non un “ornamento”. Lo spaesamento del soggetto precario contemporaneo rispetto agli orizzonti normanti neoliberali ci ricorda l’importanza di questa storia e del “soggetto imprevisto”, vale a dire la possibilità di agire per sé a partire da un punto di vista autonomo che costruisce discorso e percorsi immaginativi. L’ammissione dell’infelicità rispetto ai dettami di ogni supposto universalismo appare, ancora una volta, propedeutico a una diversa invenzione del mondo.
5) Notiamo una volta di più che il lavoro cognitivo è aperto a forme di disagio patologico che vengono dalla difficoltà a ricomprendersi dentro una dimensione che abbia solo a che vedere con il “lavoro” (come è oggi è validato) e tuttavia sembra incapace di rivendicare la propria autonomia rispetto al comando. Come uscire da tale contraddizione? Forse riconoscendo che il lavoro cognitivo è sempre più costretto a forme di taylorizzazione e di prescrizione? Altre domande: la chimera del riconoscimento “autoriale” nasconde invece la soggezione agli stilemi di un riconoscimento del “potere” che nega lo stesso general intellect e cerca di ricondurci a un “ordine” (sociale, economico, di ruolo, di genere)? La figura dell’intellettuale esiste solo nel momento in cui è disposta a negare se stessa?
6) Abbiamo visto che alcune forme di micro-rivoluzioni sono possibili, negli spazi sociali, nelle reti solidali, con scuole autorganizzate, mense popolari, orti comunitari, ospedali, autoproduzioni culturali – solo per citare alcuni esempi. Possiamo dire che se per rivoluzione intendiamo modalità di dominio del possibile e di autonomia di pratiche, ebbene essa appartengono, al momento, a questo genere di micro-azioni. Tutte e tutti ci siamo domandati come continuare a vivere in un mondo di guerra totale come quello in cui viviamo. Ci sembra di poter dire che alla fine ci siamo risposti che abbiamo bisogno di una nuova politica della sperimentazione e non solamente di quella della rappresentazione. La macro-politica ci sembra, al momento, sclerotizzata e pietrificata, incapace di raccordarsi alla ricchezza sociale prodotta e di valorizzarla.
7) Da questo punto di vista pensiamo sia necessario agire sempre più su crinali di ricerca-azione di forme cooperative, autorganizzate, comuni, mutualistiche. Siamo perfettamente d’accodo sul fatto di avere di fronte il problema della forza e il problema del potere, tuttavia pensiamo che i modi in cui il sociale e il politico possono riannodarsi, oggi più di ieri, passi dal riconoscimento della crisi, che al momento ci appare irreversibile, delle forme in cui il potere “istituito” si esplica, dunque dal riconoscimento della sua impotenza. Metterci, ancora una volta, nella dimensione di un rapporto con un potere impotente non amplificherebbe che quella infelicità che abbiamo riconosciuto e che dunque vogliamo sovvertire.
8) Certo, non vogliamo eludere un punto importante: fino a quando questa capacità “resiliente” è in grado di rimanere confliggente e prefigurare relazioni sociali ed economiche alternative alla logica del profitto e dell’austerity imposta dalla governance neo-liberale? Per questo diventa imprescindibile dotarsi di tutti quegli strumenti (finanziari, monetari, di competenze, di relazioni, di comunicazione e linguaggio) che consentano la sedimentazione e lo sviluppo di pratiche sia esistenziali che sociali che siano in grado di esprimere “autonomia” di vita. Da questo punto di vista l’intuizione che ci ha regalato il convegno è che le soggettività possono determinare ancora una volta uno spostamento, sovvertendo i piani del capitale e le forme della sua rappresentanza/rappresentazione, percorrendo i principi della propria autorganizzazione. La lotta non si dà più nelle forme consuete, non parte dalle fabbriche smantellate o trasformate. Occupare le piazze, organizzare marce non pare sufficiente, dunque è necessario agire oltre, non inseguendo il capitale sul suo terreno ma costringendolo a rintracciarci. Non è un caso che la riflessione conclusiva dell’incontro di Effimera, nella mattinata di domenica, si sia soffermata ad approfondire proprio questi nodi. Qui sta la sfida che abbiamo di fronte.
9) Non partiamo da zero. Nello spazio europeo, sono numerose le istanze dal basso che si muovono in questa direzione. Esperienze che ci possono insegnare molto, tanto più quanto più sono concrete. E sono esperienze in grado di creare rapporti di forza e capacità contrattuali, di sviluppare un confronto con le istituzione di potere sino a condizionarle e a sviluppare capacità autonoma di “fare”. Barcellona en Comù, Madrid, sperimentazioni di monete alternative, luoghi in Italia di produzione anti-sistemica, di fabbriche recuperate, di sapere alternativo, di cultura e arte, di innovazione di costumi e socialità: nodi di un tessuto reticolare ancora da connettere, stretti tra necessità di sopravvivenza e repressione (ad esempio, Atlantide a Bologna, sotto attacco proprio nei giorni in cui il convegno si svolgeva e da lì a poco sgomberato). Sono questi i luoghi della “sovversione dell’infelicità”, luoghi di autonomia, di creazione di forze, ognuno con la sua specificità, ognuno con la sua carica, ognuno con la sua potenzialità.
10) E a proposito di luoghi di sovversione e di autonomia, nella giornata di domenica, si è discusso, nella prima parte, della possibilità di costruire spazi di autonomia finanziaria. La parabola greca ci dovrebbe insegnare che la liquidità monetaria (ovvero, più prosaicamente, il cash, le banconote), controllata dai diktat della dittatura finanziaria (Bce, speculazione e società di rating), sono oggi le vere armi di distruzione di massa, in grado di condizionare e di limitare qualsiasi esercizio di potere nazionale, anche democraticamente eletto. Di fronte alla minaccia di non poter garantire la circolazione monetaria, di pagare pensioni, stipendi e i minimi servizi sociali, non c’è alternativa alla capitolazione, e, conseguentemente, alla subalternità all’austerity. È soprattutto a questo livello che si gioca la partita. L’oligarchia finanziaria oggi è il prius della struttura del comando e della valorizzazione del capitalismo bio-cognitivo, ambito discrezionale dell’autonomia del potere economico, perno centrale dell’accumulazione, snodo della distribuzione del reddito e della gerarchizzazione sociale. È a questo livello che occorre agire per pensare forme di contropotere. Contropotere finanziario. Per questo abbiamo proposto la possibilità di attivare un circuito finanziario alternativo che, basandosi su una istituzione autonoma (a democrazia partecipativa) di emissione monetaria, separata e non assimilabile a quello oggi vigente (euro), sia in grado di creare i mezzi di pagamento (paralleli, non sostitutivi all’euro) finalizzati a finanziare e a rendere sostenibile un sistema economico “altro”, in grado di remunerare il lavoro volontario dell’autorganizzazione sociale, i progetti e l’offerta di servizi sociali, di garantire sostegno al reddito, forme di produzione alternative ed ecocompatibili, dell’essere umano per l’essere umano, soddisfare i bisogni e, soprattutto, i sogni, senza dover sottostare ai vincoli di bilancio imposti dai patti di stabilità.
Se il nostro problema è quello dell’autonomia e dell’autodeterminazione, è da qui che dobbiamo cominciare. Creare strumenti di sostenibilità economico-finanziaria è condizione necessaria (anche se, ancora, non sufficiente) per aprire spazi di liberazione individuale e collettiva, per “sovvertire l’infelicità”. Questa è una parte fondamentale della nuova “cassetta degli attrezzi” di cui ci dobbiamo dotare.
L’indicazione per il “futuro” che proviene dall’incontro di Effimera (a cominciare dall’“essere poeti”) è quella di sviluppare competenze e semplici strumenti di servizio perché ciascuna esperienza autorganizzata, di azione e di pensiero, possa concretamente realizzarsi e autodeterminarsi, secondo le modalità più necessarie e più opportune.
Se son rose, fioriranno.
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