L’agitazione della polizia

Il binomio polizia-sciopero suscita immediatamente un determinato immaginario repressivo: cariche, denunce ed arresti della repressione poliziesca nei confronti delle lotte e delle diverse forme di sciopero. Recentemente in Francia abbiamo assistito a un fenomeno di certo non inedito, ma allo stesso tempo non usuale e politicamente interessante che tradisce questa associazione diretta: pezzi di Police Nationale e Gendarmerie sono protagoniste di uno sciopero dai caratteri forti e preoccupanti. Una mobilitazione variegata ed eterogenea che gradualmente ed a velocità differenti è partita da una semplice critica, passando una contestazione burocratica arrivando a strutturarsi come mobilitazione e sfociando addirittura negli ultimi giorni in manifs sauvages.

Andiamo con ordine e partiamo dai fatti per poi azzardare alcune ipotesi circa la fase attraversata attraverso l’esperimento di una lettura delle contraddizioni della controparte, in particolar modo delle sue propaggini repressive,come ritorno e contraccolpo allucinato di una fase di conflitto sociale intenso come quello francese.

Viry-Chatillon non è Pandora

Lo scorso otto ottobre a Viry-Chatillon, comune di circa 40000 abitanti situato nell’estrema periferia sud di Paris, due auto della polizia, a presidio di una videocamera più volte danneggiata, vengono attaccate da circa 40 persone che lanciano diversi oggetti contro le forze dell’ordine tra cui alcune molotov, i poliziotti all’interno delle auto rimangono gravemente feriti.

Fin da subito scatta la protesta dei poliziotti che non accettano le promesse del Ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve riguardo nuovi investimenti e, passando gradualmente da forme più tradizionali di agitazione, come il minuto di silenzio o l’appello al governo da parte dei sindacati, arrivano nella notte di lunedì 17 ottobre ad animare una protesta non autorizzata a Paris. La manif sauvage, con caroselli di auto di servizio a sirene spiegate, perturbano pesantemente la circolazione sugli Champs-Elysees e bloccano il traffico presso l’Arc de Triomphe; i “manifestanti” hanno dato solidarietà ai loro colleghi ed allo stesso tempo posto subito la questione in termini rivendicativi. La manif sauvage degli agenti della repressione, con numeri di matricola coperti, volti travisati da passamontagna e armati di catene e tirapugni oltre che delle pistole d’ordinanza, ha subito degli effetti di una qualche natura all’interno delle sfere repressive e governative, tanto da annunciare immediatamente, per voce del capo della Police Nationale, Jean-Marc Falcone, l’apertura di un’inchiesta delegata all’Inspection générale de la Police Nationale (IGPN) in cui si vagliano “severi provvedimenti” per coloro che hanno partecipato alla manif sauvage definita come «comportement inacceptable»

[1] ed aggiungendo che «ces modalités de l’expression publique des policiers étaient contraires à leurs obligations statutaires. Par ce comportement, ils fragilisent la police nationale et fragilisent aussi chaque policier»[2]. L’annuncio di una sanzione invece che soffocare il malcontento poliziesco lo ha rinfocolato portando ad un’altra manif sauvage la notte successiva, questa volta ad Evry, comune a sud di Viry-Chatillon, dove i poliziotti, più numerosi, hanno circondato l’auto di Jean-Marc Falcone (giunto sul posto con il fine di far rientrare la protesta), bloccandolo e chiedendone le dimissioni. I piani alti governativi e polizieschi hanno bloccato l’indagine e temporeggiato circa le sanzioni. Non finisce qui.

La mobilitazione di chi nel quotidiano è protagonista della repressione brutale delle lotte e del dissenso, non solo non si è fermata di fronte alle (innocue) minacce ma si è estesa in numerose città (Lille, Marseille, Toulouse, Grenoble, Orléans, Montpellier, ecc…) ed a Lyon dove la protesta si è allargata e radicalizzata in seguito ad un ennesimo attacco a Vénissieux (periferia sud di Lyon) contro auto della polizia e dove più di 300 poliziotti hanno marciato  indisturbati il centro cittadino bloccando la circolazione. La mobilitazione sta proseguendo e viene rilanciata per le prossime settimane attorno al “piano di rivendicazioni” che emerge dalle proteste dei poliziotti.

Composizione politica dell’agitazione poliziesca

Al di là della mera cronaca, le dichiarazioni dei servi dello stato francese donano numerose tracce circa la composizione politica di questa mobilitazione, e dell’autorappresentazione che ne danno i suoi protagonisti.

Innanzitutto c’è l’annunciato superamento di un piano sindacale, vissuto dai poliziotti come tradimento ed inefficacia permanente od anche come collusione con il governo o con i gauchistes antiflics[3], e che definiscono così la loro protesta: ‹‹c‘est un mouvement asyndical, une réaction face à l’absence de réponse réelle de l’État (après les attaques). On en a marre que ça n’aille pas vite››[4] e rimarcando la presunta autonomia (che vedremo di natura ben diversa e più vicina alla convergenza verso determinati rappresentanti piuttosto che verso la semplice de-sindacalizzazione) ‹‹face à une hiérarchie carriériste, des élites syndicales enlisées dans leurs conflits, et une justice complètement désintéressée par notre sort, nous devons nous souder››[5].

Le dichiarazioni dei poliziotti riguardo lo strappo ed il tradimento dei sindacati (Alliance police nationale che insieme a Unité SGP Police-FO è rappresentativa del circa 39% e l’Unsa police 11%) sono abbastanza nette: ‹‹Ils ont des carrières fulgurantes sans jamais mettre les pieds sur le terrain. Ils ne nous représentent pas››[6], ma ciò nonostante i sindacati di polizia in questi giorni dovrebbero incontrare il governo per cercare di appianare il disagio degli agenti della repressione.

Per quanto riguarda il piano politico vi sono due fenomeni evidenti, il primo più prettamente di speculazione politica da parte dello scacchiere partitico francese, mentre il secondo di intervento diretto nell’agitazione poliziesca.

Per quanto riguarda il primo fenomeno, quello di speculazione politica, si percepisce più per un per una captazione tattica e direttamente elettorale del disagio poliziesco, che per la costituzione di un progetto strategico di rappresentatività ed inglobazione a lungo raggio; ciò ci permette di definire questo tipo di approccio politico verso le manifs sauvages di poliziotti e gendarmi come dislocazione delle scaramucce istituzionali rispetto una data come quella delle presidenziali francesi del 2017, fondamentale per tutti i soggetti in campo, Noi (intesi come soggetto politico rivoluzionario transnazionali) compresi. In questo il Parti socialiste(i piddini d’oltralpe) ha cercato di ricondurre la dialettica con Police Nationale e Gendarmerie in un canale istituzionale delegittimando le manifs sauvages come pilotate dall’estrema destra, ad esempio Jean-Christophe Cambadélis ha definito la protesta come ‹‹patte du Front National››[7] (poi contraddetto da Jean-Marc Falcone), ed allo stesso tempo verso l’apertura di un tavolo con i sindacati per una concessione, vedremo in termini di irrobustimento repressivo, verso le rivendicazioni dei poliziotti. Mentre i Republicains (Centro destra, ex Ump), presi dalle primarie in vista del 2017 e Front National (il noto ed odioso progetto lepenista) hanno immediatamente recepito, ampliato e speculato politicamente su queste contraddizioni interne alla propaggine repressiva delle controparte per rovesciarle contro Hollande, Valls e Cazeneuve e dicendosi comprensivi, Alain Juppè in testa, verso[8] le richieste delle forze dell’ordine. Ancora più esemplificativo e forte è il legame e l’operazione rappresentata dal Front National di Marine Le Pen, che attraverso un endorsement, concluso sobriamente con ‹‹Vive la Police Française, vive la République Française, vive la France››[9] verso le proteste, ha paragonato la situazione dei poliziotti ad una guerra dove il Front National appoggia incondizionatamente la rabbia “sana” e le rivendicazioni dei poliziotti che più tardi andremo ad analizzare.

Oltre all’appoggio ed alla legittimazione politica arriviamo al secondo dei due aspetti che annunciavamo precedentemente. L’altro fenomeno riscontrabile è quello di un protagonismo diretto dell’estrema destra, sul piano di presenza ed intervento diretto nelle mobilitazioni poliziesche, oltre che in termini di rappresentanza[10]. La sintesi di questo melange sta nell’autorappresentazione poliziesca che registra una colonizzazione dei corpi di polizia, palesata e rivendicata, da parte del Front National: secondo diversi sondaggi ed interviste un poliziotto su due sarebbe pronto a votare Front National[11] perchè unica forza politica rappresentativa delle loro esigenze: ‹‹les seuls à nous defendre››[12] dice un agente; dunque una piattaforma perfetta per il progetto lepenista. E possiamo vedere inoltre l’emergere diretto di questa alleanza: i cortei dei poliziotti non solo erano abbelliti da catene e passamontagna ma pure di bandiere francesi e totenkopf (il teschio simbolo delle SS), ma l’alone dell’estrema destra francese non si ferma all’estetica: la mobilitazione poliziesca ha avuto come unici “solidali” i militanti dell’estrema destra francese, sebbene senza nessuna bandiera nè presa di parola, gruppi anche a destra dello stesso Front National hanno rimpolpato i ranghi delle manifs sauvages della polizia.

A chiudere il nesso che congiunge spinte fasciste dell’agitazione polizesca ed il recupero lepenista della stessa e ad approfondire il tema del rapporto tra agenti e sindacato è l’autorappresentato portavoce della protesta polizesca: Rodolphe Schwartz, guardia giurata ed ex-poliziotto, non solo vicino al FN, ma direttamente riconducibile al partito della Le Pen essendo stato candidato nelle sue liste a Paris. Ecco che il cerchio si chiude e identifica in questa mobilitazione un aspetto preciso di emersione del progetto lepenista come elemento che stava dietro alla presunta autonomia dai sindacati che sottolineavamo precedentemente, a cui dobbiamo aggiungere un altro dato ossia l’inconsistenza in termini di rappresentanza del sindacato lepenista (France Police è rappresentativa dello 0,90%) nei corpi di polizia. Piuttosto che di autonomia siamo di fronte all’egemonia sostanziale del neofascismo dentro ai corpi, ed alle mobilitazioni, della polizia attraverso l’oltrepassamento dello strumento pseudo-sindacale per il tentativo di un inglobazione politica.

Sembrerebbero esserci tutti gli elementi per congiungere le spinte che poliziotti e Front National fanno verso una congiunzione tattica e forse un massivo orientamento elettorale verso il 2017, ma fatta quest’analisi della situazione ciò che interessa non è la quasi banale determinazione fascista della mobilitazione poliziesca, ma una lettura che vada oltre le tinte fasciste ed il rigetto per forme di mobilitazione di chi in prima fila, e nelle forme più brutali ed odiose, si spende per il mantenimento della pace sociale. Quello che interessa è sviluppare un’ipotesi, probabilmente frutto di una sovrainterpretazione volontaristica, che legga politicamente la mobilitazione dei tutori dell’ordine.

Rivendicazioni che puzzano di resa di conti

Dobbiamo innanzitutto fare qualche passo indietro arrivando a giustificare la negazione di Viry-Chatillon come vaso di pandora dell’attuale protesta poliziesca, dobbiamo farlo non solo per analizzare politicamente la fase, ma per approfondire in questa il rapporto tra Fn e Polizia nella prospettiva di un tentativo ben più ampio, esteso e strategico di riassetto istituzionale.

Abbiamo dunque per ora osservato i posizionamenti delle diverse componenti del dispositivo di dominio rispetto all’emergere del “protagonismo poliziesco”,  ma dobbiamo innanzitutto analizzare i passaggi che hanno portato a questa piega ed inflessione nel dispositivo repressivo; lo facciamo espandendo le rivendicazioni dei poliziotti che chiedono: le dimissioni di Bernard Cazeneuve, Jean-Marc Falcone e François Hollande subordinate ad una serie di problematiche attribuite alla catena di comando del dispositivo governativo-repressivo e soprattutto si spingono per una ristrutturazione in senso ultra-repressivo ed ultra-autoritario del sistema giuridico francese. La sintesi tra sindacato e poliziotti autorappresentati (ossia il Fn) arriva a strutturare un piano di rivendicazione che va da una serie di investimenti per assunzioni e acquisto materiali fino a contestare la lunghezza dei turni e richiedere una revisione delle regole sulla legittima difesa (ovviamente nella direzione di un allargamento della legittimità della violenza poliziesca) per arrivare ad una riforma della custodia cautelare e degli aspetti detentivi (sempre in termini di irrobustimento autoritario).

Per ora non ci interessa l’aspetto forse più drammatico, ossia l’intervento diretto del corpo repressivo in termini di legislazione, ma ci limitiamo ad osservarne la natura e gli obbiettivi e con essi i passaggi che si è dato; la sostanza delle rivendicazioni, unite alle parole stesse dei poliziotti arrivano ad identificare in Viry-Chatillon più un supporto fantasmatico che una vera e propria fonte del disagio dei servi dello stato, e con questo a delineare uno spettro che incombe sulla tenuta dell’ordine, e sui corpi che sono preposti alla sua difesa e mantenimento: questi mesi di conflitto sociale generato dall’opposizione alla Loi Travail. I poliziotti in armi ed i loro cortei appaiono così per la controparte come ritorno allucinato del conflitto sociale,  come ‹‹il ritorno di ciò che non è stato elaborato a livello simbolico ma che è stato forcluso, ovvero dissociato dalla coscienza››[13] e represso.

Troviamo così un legame diretto ed un rapporto causa/effetto tra protesta poliziesca e lotta di classe. Già nei mesi scorsi la polizia aveva cercato di mobilitarsi con il diretto obbiettivo di legittimare un irrobustimento ed un innalzamento dei margini di intervento diretti espressamente contro mesi di manifs sauvages, nuit debout, ed opposizione radicale al progetto di legge El Khomri, sostanzializzati lo scorso 18 maggio nella manif contre l’haine antiflics la quale non aveva un impatto paragonabile alla forza ed alla violenza con cui  oggi il corpo poliziesco reclama più potere, impunità e strumenti repressivi. In sostanza i poliziotti chiedono, al dispositivo di dominio, il conto del sangue fatto versare e la repressione distribuita in nome della pace sociale.

Questo ci porta in due direzioni: una in termini di prospettive ed una in termini di bilanci.

Le rivendicazioni dei poliziotti illustrano ulteriormente Viry-Chatillon non come vaso di Pandora ma come valvola di sfogo di un’insofferenza verso le forme radicali di insubordinazione che hanno dovuto reprimere da marzo ad oggi. Superficialmente il protagonismo poliziesco è, nelle narrazioni mediatiche e nella sua stessa autodefinizione, come causa e risposta a Viry-Chatillon in quanto singolo ed isolato evento ma scavando, neanche troppo profondamente, e conducendo una lettura comparata di rivendicazioni e obbiettivi polemici identifichiamo tutta questa mobilitazione come l’emergere improvviso ed irruento delle scorie e dei detriti sedimentati dopo mesi di conflitto sociale radicale e da ancora più tempo di irrobustimento repressivo dove lo stato ha speso la sua governance in termini direttamente e brutalmente repressivo-polizieschi perchè attaccato da un radicale, differenziale, esteso e continuo conflitto contro la Loi Travail ed il laboratorio repressivo che è diventata la Francia del post-Charlie Hebdo. Aggregando così la natura delle rivendicazioni, la loro gradualità ed i passaggi che la fase ha determinato riusciamo a delineare il conflitto sociale come fonte della piega nel dispositivo di disciplinamento sociale. Siamo arrivati a fissare alcune immagini precise: la mobilitazione dei poliziotti come monetizzazione, economica e politica, della brutalità a loro delegata per fare fronte all’attacco espresso e praticato da tanti e tante verso le manovre del biocapitale, la questione della sottrazione di rappresentanza alle compagini sindacali legata al protagonismo diretto ed alla speculazione politica del progetto lepenista come articolazione politica della componente repressiva. Non possiamo fermarci a questo, occorre scavare ancora.

Se concludessimo così la nostra analisi ne risulterebbe un’immagine distorta e politicamente pericolosa, dei cortei dei poliziotti come primo passo del pericolo autoriario caratterizzato dal progetto lepenista verso un arco istituzionale (Parti Socialiste in testa) posto invece a difesa della Repubblica e della democrazia francese, ma evidentemente non è così.

Il Partito dell’Ordine

Se abbiamo constatato come dietro l’agitazione poliziesca aleggi lo spettro del comunismo, delle comuni che battagliano ingovernabilità e spingono contropoteri, allora dobbiamo necessariamente riarticolare la nostra lettura della composizione politica delle manifs sauvages armate dei poliziotti; non tanto per modificarne la natura della composizione, che rimane incentrata sul lepenismo come alveo di riconduzione e rappresentanza, ma piuttosto la portata ed i tratti della contraddizione espressa dentro il dispositivo di dominio e controllo.

Se ricacciamo, come controrivoluzionaria oltre che politicamente errata, l’immagine di una democrazia (quale democrazia?) sotto attacco e di un arco istituzionale a difesa della suddetta , rappresentato dal Parti Socialiste e della cricca Valls-Cazeneuve-Hollande, riprendiamo la lotta di classe delle soggettività differenziali come motore degli smottamenti che non vanno a delineare una rassicurante dicotomia tra difesa democratica e spinta autoritaria, quanto verso un forte movimento di ritorno all’Ordine nella fase calante della lotta contro la Loi Travail. Un’aspirazione, quella della controparte, che lontana dall’omogeneità e dalla coordinazione, farraginosamente si muove, raccoglie ed affronta le scorie del conflitto sociale per riorganizzarsi e riaffermare margini decisivi di comando: ‹‹on doit le respect à la police››[14] ed all’ordine che essa difende.

La convulsione della controparte, per breve ed effimera che sìa, apre come detto differenti ipotesi di lettura e scenari, quello che identificavamo come ponte tra lepenismo e polizia, rappresentato dalla marcia comune di fascisti e poliziotti armati, è una frattura interna alla costituzione-riaffermazione di un Partito dell’Ordine piuttosto che l’apparizione di una dicotomìa politica (socialdemocrazia/fascismo), è l’affermarsi di una costola estremista, l’opzione ultra-autoritaria dentro la battaglia attorno l’ontologia, la disposizione e l’intensità della coagulazione dei grumi padronali e nemici attorno all’asse dell’ordine, alla pace sociale come sopravvivenza politica che è leitmotiv di questa fase e sostrato delle presidenziali 2017, questa faticosa simmetria si gioca anche attorno ai cortei selvaggi della polizia. E’ l’intera controparte a strutturarsi attorno a quest’asse e a dover contrattare ed ipotizzare la strategia migliore per ristabilire un rapporto di forza attaccato e vacillante da marzo a questi ultimi mesi di lotta contro la Loi Travail, così come la triade Hollande, Cazeneuve e Valls rappresenta l’operazione di riassorbimento morbida della contraddizione poliziesca al fine di evitare strappi ed implementare il margine di comando, a tal proposito Cazeneuve ha dichiarato in questi giorni “Il faut éviter les emportements et les amalgames et toutes propositions qui affaiblissent la relation entre la police et la justice, je ne peux accepter que des policiers et des gendarmes puissent être atteints par des personnes qui devaient être en prison”[15], il lepenismo spinge per un irrobustimento autoritario senza precedenti e dritto verso il superamento degli ultimi elementi di formalità democratica; questo movimento non può che rappresentare un punto delicato per la controparte ed un obbiettivo vitale per un Noi che da marzo aleggia in Francia.

Nell’inflessione del dispositivo di comando leggiamo la nostra potenza sociale.

Benvenute contraddizioni!

L’approfondimento del valore politico della mobilitazione poliziesca come contrazione interna ad un riassetto intorno al nodo ed alla parola chiave della pace sociale non è ancora terminato. Non è terminato perchè non abbiamo tenuto conto di una cosa fondamentale: il contesto e la fase in cui questo riassetto va determinandosi; le contraddizioni che si stanno evidenziando interne alle diverse componenti della controparte, del Partito dell’Ordine, e del suo dispositivo diventano un segnale decisivo quando prendiamo coscienza della situazione e della fase in cui si riproducono.

Quando la polizia scende armata in piazza dando vita a cortei selvaggi e pretendendo dal governo la monetizzazione (economica) della difesa della pace sociale e con esso una riforma immediata della giustizia (monetizzazione politica) a cui chiede di costruire e legittimare margini decisivi di intervento e repressione che lambiscono l’idea di uno strappo decisivo con una democrazia formale in via di decomposizione dentro allo squilibrio post-imperiale evidentemente assistiamo ad un fenomeno di una certa consistenza; se poi tutto ciò si riproduce all’interno di uno dei punti più avanzati di riarticolazione delle forme di governance e dentro uno dei più grandi laboratori repressivi del biocapitale europeo è questo a rendere assolutamente necessaria e prioritaria la questione di leggere la portata di tali contraddizioni.

Ad un anno dall’adozione dell’état d’urgence come esperimento di riarticolazione istituzionale e garanzia della tenuta padronale (oltre che per la Loi Travail già nelle contestazioni verso la Cop21 che emerse il vero volto e scopo dell’état d’urgence) assistiamo all’incrinarsi del paradigma dell’eccezionalità ed a questo modello ultrarepressivo? Ciò determina l’approfondimento totale della tendenza autoritaria od un rimodellamento in senso socialdemocratico? La tendenza sembrerebbe giocarsi attorno all’irrobustimento autoritario ed alle sue gradazioni, ma quello che appesantisce la posta in gioco è la tecnica e la direzione in cui condurre questo grande progetto di riarticolazione istituzionale ed i passaggi all’orizzonte che tutte le anime del Partito dell’Ordine devono porsi nell’obbiettivo di egemonizzare l’asse da determinare.

La protesta dei poliziotti arriva dopo mesi di intensa attività repressiva e alla vigilia di altre indegne operazioni di stroncamento brutale di forme di vita differenti e discordanti, come gli sgomberi della ZAD di Notre-Dame-des-Landes e della jungle di Calais, ed è sulla tenuta delle armi repressive e sulle possibilità del loro potenziamento che si gioca la legittimità e la governabilità della controparte, sempre nell’ottica di un evento determinante come le presidenziali 2017, evento dopo il quale potremo mettere a verifica questa ipotesi di lettura.

Alla stessa maniera il riassorbimento della contraddizione repressiva non potrà che puntare verso l’unanime assestamento su una stretta dell’état d’urgence come esperimento di governance post-democratica, e dunque l’accrescimento dei poteri polizieschi dentro a questa forma istituzionale che scommette sull’approfondimento autoritario come ristabilimento dell’Ordine ed insieme implementamento strategico delle funzioni di biodominio dentro ad un piano di ristrutturazione economico ed istituzionale ad ampio raggio.

Se il conflitto ha saputo portare la controparte ad un relativo squilibrio ed una sorta di resa dei conti e ad imporre in un certo qual modo un’accelerazione del ripensamento istituzionale ed una riarticolazione della governance biopolitica allora inchiestarne le forme diventa necessario per decifrare bloccare le mosse di questo progetto. Paraticare ed estendere il conflitto, con la differenzialità delle pratiche e delle soggettività che lo animano e dunque contro l’ideologia della simmetria e dell’uguaglianza per anticipare e battere il progetto e la ristrutturazione della controparte che cerca di radicalizzare l‘état d’urgence come unica forma di salvataggio dello stesso ed insieme di tenuta dell’ordine, di pace sociale e dominio.

Ecco che in quest’ottica e con la necessità di gettarticisi a capofitto per torcerne il senso ed approfondirne la portata diciamo: Benvenute contraddizioni. Perchè se le lotte si sono imposte dentro una delle fasi di più alto sviluppo di un dispositivo repressivo portando a galla delle piccole ma decisive contraddizioni, questo ci obbliga a pensare come portare avanti questo conflitto e come insisterne, estenderne ed aggravarne le contraddizioni.

Scioperare la repressione: disarticolare l’état d’urgence

Affermare benvenute contraddizioni quando queste contraddizioni si palesano in cortei di poliziotti armati che marciano per le strade delle città sembrerebbe provocatorio o quantomeno nichilista, ma non è questo il caso.

Vista l’irruenza dei fatti bruti occorre lanciarsi a capofitto nel lavoro politico di trasformazione per rovesciare il nichilismo in progetto e la provocazione in rivoluzione. Se siamo arrivati a dettare ed indurre il nemico ad un accelerazione /deviazione della sua ristrutturazione istituzionale questo è perchè la controparte si è sentita toccare in nervi scoperti e su corde importanti; se in un laboratorio repressivo all’avanguardia come quello francese le forze della repressione stessa arrivano ad irrompere nel dibattito politico pretendendo ulteriori garanzie, è perchè quealcosa non sta funzionando, perchè le scorie e la sedimentazione dell’odio sociale sono riuscite, fosse solo per un istante, a disarmonizzare gli organi del dominio, è perchè in un certo qual modo le soggettività rivoluzionarie non sono state annientate dallo stato d’eccezione ed ora, lo spingono a doversi potenziare ulteriormente, obbligando l’estrazione forzata di plusvalore dalla cooperazione sociale a scoprire la propria brutalità ed a far cadere ogni velo di formalità democratica. In questo il 49.3 della Loi Travail doveva già far riflettere circa la difficoltà dei padroni circa il mantenimento di una funzionalità democratica in una fase di attacco radicale allo sfruttamento ed alla rendita.

Se le contraddizioni e le inflessioni prodotte nel dispositivo di dominio porta la traccia e lo spettro del comunismo, e nei poliziotti in armi leggiamo un ritorno allucinato del conflitto fino ad oggi praticato, allora dobbiamo riconoscere alle lotte sociali ed alle soggettività differenziali una potenza sociale considerevole e dirci “ben scavato vecchia talpa!”. Allo stesso tempo però questo ci porta a dover rapportarci ad un piano, non solo più affinato e repressivo di dominio, ma direttamente al tentativo di strutturare una governance post-imperiale nello spazio europeo e quindi ad un capitale che è costretto a ridurre i margini minimi di espressione, movimento e pratica del dissenso e ad approfondire ulteriormente ed irreversibilmente la violenza del comando sulla cooperazione sociale al solo fine di ritagliare un margine di dominio rispetto una rendita sempre più battagliata.

L’inesistente solidarietà popolare agli assembramenti selvaggi di poliziotti armati è un dato imprescindibile che sembra essere il frutto del lavoro quotidiano degli agenti di polizia, e del bollettino di guerra (sociale) lasciato sulle strade di Francia dalle forze dell’ordine durante questi mesi di opposizione, e dalla morte (più che sospetta) di Adama Traoré avvenuta circa 4 mesi fa; in questo senso la fase che attraversiamo si prospetta sempre più come un valico fondamentale per le vite di tutti e tutte. Questo significa in primis per i quartieri popolari, i precari, i sans-papiers, gli operai, gli studenti ed in generale le soggettività differenziali ed incompatibili con il modello di vita del capitale, l’estendere e praticare il conflitto non solo nei confronti di una dinamica di sfruttamento che intende rafforzarsi ma opporsi in maniera radicale ad ogni progetto di approfondimento dell’état d’urgence, ossia al tentativo di forzare e radicalizzare in termini militari e bellici il conflitto sociale e la sua repressione. All’indomani della contrattazione sui preamboli di questa riarticolazione post-democratica osserviamo già piccoli ma decisivi sintomi di un état d’urgence che non riuscendo a legittimarsi si sclero