La discussione in corso sia nelle aule parlamentari che nel paese sull’art. 18 non coglie la vera portata dello stravolgimento in atto in materia di (de)regolazione del mercato del lavoro. Come già sostenuto altrove, la querelle sull’art. 18 nasconde altri provvedimenti che sono ancor più pericolosi, archiviato il reintegro, si aprono le autostrade del demansionamento e dalle forme di controllo del lavoro. Gianni Giovannelli, ci offre una lucidissima analisi di ciò che è in discussione: il decollamento dell’intero corpo sociale. E il sindacato? Anche volendo (e spesso non vuole), non è più in grado di fare alcunché. Non può stupirsi che il governo delle larghe intese gli rinfacci anni di complicità
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Il verbo spagnolo degollar può essere tradotto, in lingua italiana, con decapitare, ma sgozzare rende meglio l’idea. Le cronache recenti dei conflitti in Medio Oriente hanno riportato alla ribalta un modo di eliminare l’avversario che era molto in voga, un tempo, sia nel vecchio che nel nuovo mondo. Ma il nostro titolo nasce da un altro ricordo: 1836, Texas, Fort Alamo, il generale Santa Ana e Davy Crockett. Prima dell’assalto finale, all’ultimo sangue, i trombettieri dell’esercito messicano suonavano El Deguello (prima persona, singolare, presente: ti sgozzo) e si comunicava in questo modo al nemico che nessuno, e per nessuna ragione, poteva più scampare, che sarebbero stati passati tutti per le armi, senza eccezione, senza pietà.
I moderni trombettieri (giornalisti, economisti, deputati, senatori, lacchè, cortigiane) dell’esercito nazionalsocialista (guidato da re Giorgio Napolitano e dal caporale Matteo Renzi) stanno suonando il Deguello per annunciare l’attacco alle ultime postazioni del movimento operaio. Nessuno sarà risparmiato, questa volta è la resa dei conti. I nuovi barbari del partito democratico hanno sete di sangue e desiderio di esercitare con violenza (il sostantivo è quello usato dal primo ministro) il potere, avvalendosi degli attuali rapporti di forza. I nuovi barbari si sentono invincibili, vogliono sbarazzarsi rapidamente dell’ostacolo rappresentato dai vecchi diritti, si sentono estranei ai principi di solidarietà e di mutuo soccorso, sono indifferenti al disastro ambientale, sono attratti dalla criminalità organizzata, il loro orizzonte si limita al bottino (ovvero al profitto del prossimo semestre). E sono maledettamente forti. Par di sentire, nell’aria, le note struggenti suonate da Dimitri Tiomkin o dal nostro indimenticabile Nini Rosso; entrambi ci hanno fatto dono di esecuzioni semplicemente meravigliose.
Veniamo a noi. Il testo della legge delega approvato nella commissione presieduta dal senatore Sacconi (un ex sindacalista della Fiom Cgil, ognuno ha la sua pecora nera, caro Landini) non lascia molto spazio ad interpretazioni riduttive della nuova normativa che il governo si prepara a rendere operativa. Sono sei articoli soltanto. Il meccanismo della legge delega consente di procedere alla pubblicazione di decreti immediatamente in vigore, senza ulteriori passaggi parlamentari (a differenza del decreto legge che necessita di una esplicita conferma da parte dell’aula, in tempi stretti). Ed i sei articoli hanno ottenuto una maggioranza bulgara in direzione del partito democratico.
Viene archiviata la reintegrazione nel posto di lavoro. L’emendamento approvato non limita l’introduzione del licenziamento immotivato ai soli nuovi assunti (che già comportava l’istituzionalizzazione del precariato, non solo nella sostanza ma anche nella forma); lo estende a tutte le nuove assunzioni (anche di un cinquantenne) e con qualsiasi turn over ora cade la tutela. Non solo. Il risarcimento del danno in ipotesi di licenziamento illegittimo verrà ad essere pesantemente tagliato rispetto alle regole attuali (gli addetti ai lavori intravedono una forbice fra 3 e 12 mensilità, salvo qualche eccezione legata ad anzianità ultraventennali).
E’ vero che rimane in vigore la reintegrazione per le ipotesi di discriminazione accertata; ma quel che non viene resa nota è una caratteristica della legge italiana, particolarmente zeppa di ostacoli in danno dei discriminati. Mentre nel diritto del lavoro anglosassone è in buona sostanza l’impresa a dover dimostrare l’inesistenza del motivo discriminatorio, nella nostra attuale struttura giuridica è invece la vittima a dover provare per intero il comportamento illecito di cui si lamenta (e la valutazione del fatto è improntata a particolare rigidità). Dunque il lavoratore è tenuto a dimostrare nel processo che l’unico vero motivo del provvedimento sta nella volontà di emarginarlo, punirlo, appunto discriminarlo. In pratica (salvo casi clamorosi) è quasi sempre impossibile riuscire a fornire una simile prova, e se ne ha conferma laddove si consultino le decisioni della magistratura sul tema (in gran parte di rigetto delle domande). Oltretutto il danno connesso alla discriminazione rimane limitato alla soglia massima indicata dalla legge (mentre in USA, ad esempio, è spesso una giuria popolare a determinare, senza limiti di partenza, il costo della discriminazione a carico della corporation, con il fine di punire chi si comporta male ed esercitare così una sorta di dissuasione).
Viene a saldarsi, nel mercato delle braccia, la già avvenuta liberalizzazione del contratto a termine (legge Poletti) con l’introduzione del licenziamento senza motivo (senza neppure risarcimento nel primo triennio, con risarcimento ridotto dopo il triennio, comunque senza possibilità di rientrare in servizio).
L’intera legge delega si fonda su una filosofia di restaurazione del potere e del controllo sociale. Cade infatti il tradizionale divieto di assegnare i lavoratori a mansioni dequalificate (espressamente, con l’articolo 4, durante i processi di riorganizzazione aziendale, che ormai sono una costante) mentre si affaccia la legittimazione del cosiddetto controllo a distanza (non solo le ormai invecchiate telecamere nei reparti di produzione, ma, soprattutto, l’uso dell’informatica e delle banche dati per una verifica costante della produttività individuale). Non è questa una novità di poco conto. Con il GPS è possibile tracciare i percorsi automobilistici del lavoratore 24 ore su 24 così come i tabulati telefonici dei portatili consentono di comprendere appieno la rete dei rapporti (umani e lavorativi) di ciascun addetto, specie se coordinati al server aziendale e alla posta elettronica. Oggi (pur se di fatto diffuso) l’utilizzo della banca dati è proibito se diretto al controllo dell’attività lavorativa (c’è anche una sanzione penale); il Jobs Act porta (legalmente) l’occhio del padrone sull’intera vita dei suoi sottoposti, abbatte i tempi morti, ottimizza i risultati. L’unico effetto collaterale è che al tempo stesso non esiste più (non solo il vecchio tempo libero ma) la dimensione della libertà.
Un altro punto di notevole importanza contenuto della legge delega è quello che prevede l’innalzamento della soglia di reddito all’interno della quale è permesso il lavoro a chiamata mediante voucher (il buono lavoro per intenderci) e l’estensione del meccanismo a qualunque attività, in qualunque settore. Oggi il limite (neppure troppo basso) è di 5.050,00 euro netti (6.740,00 lordi) e deve esistere in qualche modo una ragione che giustifichi l’uso di un istituto comunque un po’ anomalo. La riforma (cancellando gli ostacoli) ci riporta agli albori della manifattura, quando gli operai attendevano ansiosi nel piazzale la chiamata, sempre a disposizione, umili. Il voucher contiene le imposte e le preleva subito, alla fonte, dall’impresa che lo acquista; ma non ha alcun rapporto formale (contrattuale, intendo) con il tempo della prestazione (non di quella effettiva e neppure di quella connessa all’attesa). Il voucher si pone in contrasto evidente con l’articolo 36 della Costituzione vigente (il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro) laddove recide il nesso fra la durata e il corrispettivo, sostituendolo con un principio esteso del concetto di occasionalità e con l’ingresso a pieno titolo nell’ordinamento giuridico della frammentazione (atomi di lavoro precario reso da chi è costretto ad una costante attesa) come elemento istituzionale dell’economia, come forma ordinaria ammessa del contratto di lavoro.
Non è neppure vero che a fronte della liberalizzazione dei licenziamenti ci sarà una estensione delle tutele a carico dello stato, durante i periodi di disoccupazione; e neanche appare attendibile la promessa di una più efficiente attività di ricollocazione mediante le agenzie del lavoro. Sono promesse di cui non compare traccia nella legge delega e che il governo delle larghe intese (senza neppure farle proprie) lascia confinate nell’ambito dei seminari o dei dibattiti televisivi.
Innanzitutto dal 1 gennaio 2015 diventano operativi i consistenti tagli introdotti dalla legge Fornero alle indennità (ad esempio l’ASPI nei licenziamenti collettivi di chi ha superato 50 anni calerà da 36 a 24 mesi, altro che aiuto alla fascia debole!). Inoltre la legge sui contratti a termine (3 anni e 5 proroghe) applicata alle donne giovani (ovvio che a loro si rivolge il contratto flessibile) cancella la possibilità di utilizzare l’assenza facoltativa dopo aver consumato l’obbligatoria (mentre a scadenza contratto l’obbligatoria è a carico di Inps, la facoltativa non spetta, e le giovani madri ringrazino la premiata ditta Renzi & Poletti facendosene una ragione). Soprattutto non è dato rinvenire alcuna copertura di bilancio e nessuna previsione di spesa con riferimento agli ammortizzatori sociali di sostegno a chi ha perso il lavoro. Ma se la liberalizzazione dei licenziamenti, la cancellazione della reintegrazione e la rimozione del limite al voucher non sono accompagnati da alcun investimento vuol dire che il costo dell’operazione è pari a zero (tradotto: neanche un euro ai licenziati, nessuna reintegrazione, risarcimenti dimezzati, risparmio a puro beneficio delle imprese).
Non credo di poter essere sospettato di alcuna simpatia politica nei confronti dell’apparato dirigente della CGIL; ad evitare equivoci confermo il mio convinto dissenso. Tuttavia a Genova, in occasione dell’annuale convegno nazionale di AGI (l’Associazione Giuslavoristi Italiani, che raccoglie sia gli avvocati pro labour che quelli datoriali) debbo confessare che mi ha lasciato assai perplesso assistere ad un sostanziale linciaggio (principalmente da parte degli esponenti di governo, che ad arte eccitavano una platea disponibile ad eccitarsi) del povero Claudio Treves, segretario nazionale del Nidil-Cgil, un uomo pacato e dall’aria mite, quasi fosse lui il colpevole della crisi economica. Eppure (ma senza avere risposta puntuale) Treves poneva una questione di sicuro interesse; ovvero che sono circa mille gli addetti italiani alle attività di ricollocazione della manodopera disoccupata contro undicimila in Germania, e, ancora, che il mini job tedesco è integrato dal sussidio statale oltre ad avere una base ben superiore al nostro voucher.
Il sindacato è arrivato alla resa dei conti completamente indifeso, senza strumenti da utilizzare in una congiuntura assai insidiosa, senza alleati, con pochi iscritti e con troppi delegati compromessi in una ragnatela di cedimenti e di favori personali. Si illudeva il buon Landini di poter domare un uomo come Matteo Renzi (di modesto respiro culturale, arido, ma anche furbo, spregiudicato, ambizioso, capace di cogliere al volo l’occasione non appena gli si presenta davanti e dunque privo di timori). Non vi è dubbio che il presidente Napolitano abbia ben spiegato al capo del governo i punti deboli della Fiom, della Cgil e della costellazione sindacale in genere; la conosce bene, quando era giovane la considerava (lo ricordiamo ai più giovani perché il termine usato negli atti di partito da questi vecchi stalinisti rende bene l’idea) una cinghia di trasmissione. I nuovi barbari al governo hanno capito subito (liberi come sono dalle suggestioni del passato) che il sindacato, anche volendo (e spesso non vuole), non è oggi in grado di colpire, di nuocere. Il messaggio inviato è chiaro come il sole. O salgono a bordo del carro vincente o li cancellano (magari togliendo loro i proventi dei CAF su cui si regge la struttura). L’idea che esista un margine di trattativa è prima di tutto patetica; la minaccia dello sciopero generale (e qui spero proprio di sbagliarmi ma temo che non sia così) lascia il tempo che trova, non modifica gli equilibri, non viene percepita dalle vittime della macelleria sociale come una soluzione credibile o come una prospettiva vincente.
I nuovi barbari hanno fretta ed è per questo che i trombettieri stanno suonando, senza sosta, il Deguello. Non vogliono perdere l’occasione di un attacco radicale, di spostare gli equilibri in favore del modo di produzione (prevalentemente immateriale, comunque finanziarizzato) e di governo (sostanzialmente dispotico, o almeno autoritario) che rappresentano.
Gli errori si pagano. Nel pubblico impiego chi aveva ottenuto la stabilità ha lasciato senza dare battaglia che dilagasse lo sfruttamento legato al lavoro precario sottopagato, ha ignorato che una porzione sempre crescente di lavoro passava ormai attraverso le cooperative, il moderno caporalato, perfino le cosche criminali. Nel settore privato la quota senza tutela è rimasta costantemente esclusa da ogni beneficio durante le trattative (e quando esplodevano le vertenze come Atesia o Telecom, questo avveniva contro gli accordi sindacali e contro le rappresentanze territoriali delle tre confederazioni). Si è così aperto un fossato fra due generazioni, fra due mondi. Il sindacato è diventato l’organizzazione dei pensionati e delle grandi fabbriche dimesse (in quelle funzionanti ma nocive come ILVA di Taranto ha perso anche le elezioni interne). Non possono oggi stupirsi che il governo delle larghe intese rinfacci loro anni di complicità e non li prenda sul serio quando annunciano improbabili sfracelli. Fra l’altro manca anche ricambio, i quadri sindacali sono piuttosto anziani, Landini, che è il più giovane, ha 53 anni; mentre i nuovi barbari si presentano giovani, esuberanti, baldanzosi. E con le note del Deguello diventano anche crudeli.
La cancellazione del reintegro nel posto di lavoro riporta l’orologio della storia al 10 giugno 1970, ovvero al giorno prima dell’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori (Gazzetta Ufficiale del 27 maggio, 15 giorni di vacatio legis). Fino al 10 giugno 1970 i licenziati rimanevano a casa (salvo che per i licenziamenti politici, ma solo dal 1966) anche se vincevano in Tribunale (e il risarcimento era da 2,5 a 6 mensilità; il massimo toccava 14 mensilità oltre i 20 anni di servizio, nelle fabbriche più grandi). Dunque fino al 10 giugno 1970 il padrone poteva liberarsi con poca spesa di chi non gradiva. Eppure era lo stesso un padrone inquieto, ansioso, un po’ infelice. Percepiva l’ostilità dei lavoratori, l’aria era frizzante.
Già. Stava arrivando l’autunno caldo. Anche senza l’aiuto delle leggi gli operai in corteo imponevano la riassunzione dei loro compagni che la Fiat aveva cacciato, e con la forza di una ritrovata unità obbligarono un sindacato recalcitrante e una confindustria reazionaria a stipulare il miglior accordo nazionale del dopoguerra.
Non bisogna nascondere la realtà. Questa è una sconfitta, senza ombra di dubbio. Ed avrà conseguenze non lievi, specie nel breve periodo. La forbice di reddito che separa ricchi e poveri, potenti e asserviti, precari e apparato finanziario con le nuove norme si allargherà. Le riforme imposte da BCE e FMI servono proprio a questo, ad espropriare le moltitudini sottraendo loro il comune. La legge delega chiamata Jobs Act rappresenta il funerale della socialdemocrazia italiana, la fine di un periodo storico, il consolidamento dell’opzione autoritaria mediante il governo nazionalsocialista delle larghe intese. Prendiamone atto. La nostra opzione, qui e oggi, altro non può essere che quella di una minoranza ribelle, refrattaria alle regole, non omologabile, alternativa. Abbiamo sentito suonare il Deguello ma non staremo chiusi dentro Fort Alamo per farci distruggere insieme a ciò che resta del sindacato. Siamo già dentro la moltitudine, nel territorio. Dobbiamo iniziare subito la fase di elaborazione di questo tracollo, di questa disfatta. Come avviene per qualsiasi dolore.
In psicologia la resilienza è la capacità di far fronte agli eventi traumatici, di riorganizzare positivamente l’esistenza davanti alle difficoltà. Nell’informatica indica invece la capacità del sistema di resistere all’usura; in biologia-ecologia rappresenta la capacità di autoriparazione da parte di un materiale o anche di una comunità, dopo una perturbazione.
Dobbiamo diventare soggetti resilienti ovvero dimostrare, nonostante tutto e contro ogni previsione, una capacità di inventare nuove mete da raggiungere, con il necessario slancio.
Noi non facciamo finta di nulla. Ma lasciateci dire allo Stato e al governo nazionalsocialista delle larghe intese di fare attenzione. Il Deguello per noi suona invano. Cave resilientes.
si sta diffondendo una nuova forma di ribellione passiva fra i precari : lavorare male , è una forma di “resilienza” da strutturare
Interessante….. da approfondire….
Quanto lontano nel tempo e nello stesso quanto vicino il 1976 quando con la “politica dei sacrifici” il PCI faceva ingoiare alla classe operaia, attraverso la sua “cinghia di trasmissione” come dici bene tu Giovannelli “la politica dei due tempi”. Ovviamen