Keller editore ha pubblicato quest’anno la traduzione italiana di Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, dell’antropologa Anna Lowenhaupt Tsing (2021, pp.414). L’opera, pubblicata in inglese per la prima volta nel 2015, si è da subito guadagnata un posto importante nel dibattito sull’ecologia, e l’ecologia politica, per lo sguardo originale che offre sul rapporto umano-non umano e sulla vita in tempi di crisi. Giulio Pennacchioni ce ne offre una esaustiva recensione.

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Il fungo alla fine del mondo è l’ultima opera di Anna Lowenhaupt Tsing, attualmente docente di antropologia presso la University of California, a Santa Cruz e presso la Aarhus University in Danimarca, dove è anche codirettrice di AURA (Aarhus University Research on the Antropocene). Già autrice di Friction e In the Realm of the Diamond Queen, entrambi pubblicati da Princeton University Press rispettivamente nel 2004 e nel 1993, Il fungo alla fine del mondo è prima di tutto un’incursione tra gli Stati Uniti e il Giappone nella raccolta e nella vendita del fungo matsutake.  L’obiettivo principale di quest’ultimo libro di Anna Tsing, pubblicato la prima volta nel 2015 dopo sette anni di ricerche (2004-2011) e che, citando le parole del biologo Josef Reichholf, “è già un classico dell’ecologia”, è quello di rispondere a una domanda: cosa riuscirà a vivere e sopravvivere nel disastro ambientale in cui viviamo? Attraverso lo studio e l’esplorazione del commercio del matsutake, uno dei funghi più preziosi e ricercati dell’Asia, guarda caso la prima forma di vita comparsa dopo la bomba atomica su Hiroshima del 1945, Anna Tsing ci offre l’esempio di un modo di vita alternativo a quello finora più diffuso: una forma di vita collaborativa, esempio di convivenza pacifica tra specie in un’epoca di massiccia devastazione umana. Di difficile quanto stimolante lettura, questo libro riesce a restituire perfettamente il ventaglio di possibilità teoriche aperte da una ricerca di tipo antropologico.

Fin dal prologo (“Aroma d’autunno”) Anna Tsing, ponendosi peraltro in linea diretta con la riflessione dei due francofortesi Horkheimer e Adorno[1], comincia col definire l’obiettivo polemico dell’intero saggio: quella forma di razionalità moderna iniziata con l’Illuminismo e dominante ancora oggi. In effetti, all’idea di una convivenza dell’uomo con una natura passiva e controllabile, ben descritta nelle sue conseguenze da Bruno Latour[2], corrispondono attualmente fenomeni come il buco dell’ozono, l’estinzione di alcune specie e gli ormai inevitabili cambiamenti climatici. Se infatti nessun luogo al mondo è rimasto indenne da quell’economia politica globale costruita sull’impianto dello sviluppo postbellico, ovvero il capitalismo nelle sue varie forme, al tempo stesso, nonostante i molti paradossi della società attuale, le proposte fondate sul progresso sembrano attualmente ancora un’attrattiva. In altri termini: all’enorme entusiasmo per la comprensione dell’atomo, per ora, secondo Tsing, sembra essere corrisposta soprattutto la distruzione di Hiroshima. Eppure, malgrado la devastazione provocata dalla modernizzazione occidentale, di tipo sia comunista che capitalista, sembra che la natura ci offra un’alternativa: i matsutake, che oltre a sopravvivere, proprio nel farlo, ci propongono un’altra possibilità. Nel corso del libro si scoprirà in che cosa consiste quest’alternativa. Ironico e forse emblematico il fatto che dopo il crollo dell’Unione Sovietica, nel 1991, i siberiani, di colpo privati di garanzie statali, corsero nei boschi a raccogliere funghi. Erano i matsutake[3].

Il fungo alla fine del mondo è organizzato secondo una struttura fissa: alla ricerca sul campo di Anna Tsing si accompagnano le sue considerazioni teoriche, che mantengono continuo il riferimento alla causa ambientale, che è il centro di tutta la ricerca, tuttavia analizzata attraverso le dinamiche dei funghi matsutake.

Che cosa resta?” è la prima delle quattro parti che costituiscono Il fungo alla fine del mondo. A partire dall’incontro di Anna Tsing con il giovano Kao del popolo mien[4] e con suo zio, inizia l’avventura di questo libro in una foresta industriale dell’Oregon alla ricerca di funghi provenienti dal Giappone. L’Oregon, già nel 1930, era la regione dove gli imprenditori producevano più legname di tutti gli Stati Uniti, ma oltre a ciò, a partire dal 1989 circa, in mezzo alle sue foreste disboscate, cominciava un commercio di funghi selvatici: i matsutake. Ma qual è il significato di tutto questo? Anna Tsing comincia col raccontare questa breve storia dell’Oregon perché è emblematica della nostra condizione attuale. Questo disboscamento iniziato nel 1930 in Oregon è una delle tante manifestazioni di ciò che Anna Tsing chiama progresso. Quest’ultimo è anche una delle chiavi interpretative del sempre più diffuso concetto di Antropocene, la nostra epoca, che se letta in senso progressista sarebbe l’era geologica del totale dominio dell’uomo sulla natura, ma è proprio in ciò che rivela la sua inattualità, che è la stessa degli imprenditori dell’Oregon, convinti di aver disboscato delle foreste e incapaci di cogliere le altre possibilità di questa distruzione, come i matsutake.  Per meglio spiegare questa dinamica, Anna Tsing propone il concetto di assemblaggio, ovvero «modi di vivere e modi di non vivere che si incontrano»[5]. Quando i primi imprenditori dell’Oregon, fra il 1908 e nel 1909, si incontravano per la prima volta ed entravano in competizione per la costruzione di una linea ferroviaria lungo il fiume Deschutes, nessuno avrebbe pensato che quei posti sarebbero stati frequentati da cercatori di funghi: veterani disabili, rifugiati asiatici, nativi americani e sudamericani clandestini. Nessuno si aspettava che l’Oregon avrebbe ospitato dei cercatori di funghi, né che i terreni disboscati o la ferrovia avrebbero creato le condizioni per i matsutake. Gli spazi di possibilità del progresso non sembrano riuscire a contenere tutta la realtà, che sembra sfuggirgli, a differenza degli assemblaggi, che «non riuniscono soltanto modi di vivere; li creano»[6].

Anna Tsing, nel secondo paragrafo (“La contaminazione come forma di collaborazione), prendendo esplicitamente come bersaglio polemico Richard Dawkins e il suo Gene egoista[7], suggerisce l’alternativa della collaborazione: un modo di vita da lei sperimentato in certi luoghi legati ai matsutake. Partendo quindi dai boschi della Catena delle Cascate, fino alle aste di Tokyo, passando per la Lapponia finlandese e per un buffet di scienziati, Anna Tsing racconta di una vita alternativa a quella del progresso.

Nel terzo (“Qualche problema di scala”), attraverso il concetto di scala, oltre a evidenziare come il progressismo abbia costretto a pensare la realtà in modo statico, ovvero senza mai mettere in discussione i suoi assunti fondativi, ci mostra che è possibile una non-scalabilità, quindi un’interruzione della linearità scalabile. A conferma di ciò, Anna Tsing ci riporta l’esempio dell’atomo quantistico di Niels Bohr, la cui scoperta, appunto, non era un «progetto che imponeva scalabilità»[8], perché quest’ultima «non è una caratteristica ordinaria della natura»[9]. Come sostiene l’antropologo Sidney Mintz, è un certo modello produttivo di scala industriale che si fonda sulla scalabilità, ad esempio quello delle piantagioni di canna da zucchero, mentre la foresta di matsutake, non fondandosi su cloni (le varie piante di canna da zucchero, tutte uguali), ha bisogno di una non-scalabilità. Peraltro, com’è evidente, i cercatori di matsutake hanno ben poco in comune con i lavoratori controllati e intercambiabili delle piantagioni da zucchero.

Prima di passare alla seconda parte del libro, Anna Tsing si concentra sulla parte non-negativa degli assemblaggi. Se fino ad ora, infatti, ha descritto gli assemblaggi come contaminati, come l’unione di parti diverse fra loro (a partire proprio della stessa convivenza fra i matsutake con le foreste disboscate dell’Oregon); adesso vuole descrivere tutto ciò che viene disperso dagli stessi, il loro positivo. Quest’ultimo passaggio della prima parte del libro viene fatta nell’interludio (“L’odore”) in cui viene spiegato che come l’odore sgradevole (ad avviso di Anna Tsing) dei matsutake nasce dalla loro unione con l’albero ospite (l’abete), allo stesso modo la vita umana, dopo la scoperta del principio di indeterminazione di Heisenberg[10], dovrebbe essere quanto meno regolata dalla routine, e quanto più possibile disposta all’incontro (anche non-umano) proprio per essere capace di emanare a partire dalla ricchezza della stessa.

Nella seconda parte de I funghi alla fine del mondo (“Dopo il progresso: accumulo di recupero”), Anna Tsing rintraccia l’interazione tra scalabile e non-scalabile proprio all’interno del capitalismo, mostrando come la contabilità scalabile abbia bisogno di manodopera e gestione delle risorse naturali non scalabili.

Nel primo paragrafo (“Lavorare ai margini”), Anna Tsing si concentra sulle forme economiche pericapitaliste. Con quest’ultimo termine, si intende il fatto che, seppur integrato nel sistema economico capitalista, il mercato del matsutake si svolge in ambiti leggermente diversi. Ed è a partire da questo assunto che J.K. Gibson-Graham considera possibile una politica postcapitalista, o la geografa Susanne Freidberg, parlando delle filiere produttive dei fagiolini verdi francese, crede che queste possano incoraggiare forme economiche differenti. Sulla scia di Hardt e Negri[11], in questa parte Anna Tsing evidenzia la forte carica politica e critica rappresentata dal pericapitalismo, al fine di negare l’onnipotenza, anche solo per provocazione, del realismo capitalista di TINA[12], di thacheriana memoria. I matsutake offrono un esempio di contrasto a quell’operazione che Tsing definisce accumulo di recupero. Con quest’ultima espressione, Anna Tsing intende il processo di sussunzione che il capitale fa nei confronti dei saperi popolari, nel tempo sempre più convertiti a profitto.

I paragrafi successivi (“Open Ticket”, “Oregon” e “Storie di guerra”), sull’onda di quello appena descritto, raccontano proprio del contesto intorno a Open Ticket, il mercato primo da cui parte la vendita di matsutake, frequentato da popolazione come i mien, gli hmong, i lao, gli khmer e che, a differenza che a Tokio e Kobe (in cui i funghi arrivano), è al di fuori del capitalismo, seppur totalmente determinato dal profitto e dagli interessi. È la libertà che sta al centro di Open Ticket e, come messo in evidenza, è sempre la ricerca della libertà ciò che muove i cercatori di matsutake:

«I veterani bianchi mettono in atto il loro trauma; gli khmer guariscono le ferite di guerra; gli hmnong ricordano paesaggi di lotta; i lao si spingono oltre i limiti. Ciascuna di queste tensioni storiche mobilita la raccolta dei funghi come pratica di libertà. Così, senza alcun reclutamento da parte di aziende, senza alcun addestramento o disciplina, montagne di funghi vengono radunate e spedite in Giappone»[13]

La libertà fa da protagonista anche al paragrafo seguente (“Che cosa è accaduto allo stato?”), dove Anna Tsing riflette sul fatto che le comunità come quelle di Open Ticket, di libertà, non sono altro che conseguenze di uno spazio dove lo stato non solo non è arrivato, ma è anche rifiutato: uno spazio di esclusi. «Come conseguenza del welfare statale, questa concorrenza di programmi di libertà ha colto l’attimo[14]». Pur non essendo esclusi da delle dinamiche capitaliste di interesse economico, stipendi e assistenza non sono necessari. Ed è questa un’altra manifestazione della libertà.

Il commercio dei funghi matsutake, quindi, si inserisce tra le rovine del capitalismo; tra le parti non assorbite dentro al sistema capitalistico. Se nel ventesimo secolo la Nike aveva contratti con più di novecento fabbriche, la filiera produttiva di matsutake è una Nike al contrario, «è una catena che si estende al Nord America e che recluta gli americani come fornitori, invece che come direttori della catena»[15]

I funghi vivono così una fase tipica di organizzazioni sociali pre-capitaliste. Sono doni e, in questa veste, creano relazioni: un tipo di valore che non è né d’uso, né di scambio, ma che è, al limite, di scambio di simboli, proprio come il Kula[16] delle isole Trobriand. «Il kula ci ricorda che nel capitalismo sono alienati gli oggetti oltre che le persone»[17]. A partire da questa considerazione, si sviluppa il capitolo “Ritmi di recupero: fare affari in mondi perturbati”, in cui, proprio sulla base di quanto emerso fino ad ora, Anna Tsing mostra che, proprio in quanto appartenenti a dei luoghi e a delle storie, a dei patch, i funghi matsutake e tutto ciò che ruota attorno al loro commercio possono essere l’inizio di un’altra possibilità, che oltre a rimanere fuori dal capitalismo, potrà anche portare a un ripensamento dello stesso. E con questo proposito si chiude la seconda parte del libro.

La terza parte (“Inizi perturbati: progetti non intenzionali”) è pensata attorno a un’altra nozione, forse la più importante di tutto il libro: la perturbazione. Attraverso il racconto dell’incontro con Kato-san, giapponese al servizio della guardia forestale, Anna Tsing scopre la possibilità positiva delle perturbazioni: «Alcuni tipi di ecosistema sostengono i fautori, traggono vantaggio dalle attività dell’uomo»[18]. Malgrado la non-intenzionalità l’attività umana rende più probabile la presenza di matsutake e sono proprio i progetti non intenzionali i protagonisti di questa parte del libro. Le foreste giapponesi di matsutake, i satoyama: anti-piantagioni dove incontri trasformativi creano possibilità di vita:

«Come scenari di attività non solo umane, i paesaggi sono strumenti radicali per relativizzare l’hybris umana. I paesaggi non fanno da sfondo all’azione della storia: sono essi stessi attivi. […]. I matsutake e i pini non si limitano a crescere nelle foreste; le creano»[19]

Ed è già a partire dal primo paragrafo (“La vita nella foresta”) che Anna Tsing, dopo aver esplorato le foreste di matsutke in quattro luoghi: il Giappone centrale, l’Oregon, lo Yunnan (Cina sudoccidentale) e la Lapponia (Finlandia), mostra come in questi luoghi gli assemblaggi non sono creati (prometeicamente) dall’uomo, ma questi sono parte della vita nella foresta. Le successive quattro parti (“Storia”, “Rinascita”, “Serendipità” e “Rovina”) sono proprio il racconto di differenti realtà sviluppate attraverso la coordinazione e la collaborazione con l’uomo.

La scienza con la traduzione” è il paragrafo successivo a questi quattro ed è, forse, uno dei più importanti dell’intero libro. La traduzione, riprendendo il lessico di Bruno Latour, sarebbe quell’operazione attraverso cui si supera la separazione fra i due ambiti, quello della natura, ovvero il mondo delle cose e la cultura, il mondo degli uomini. Una scienza di traduzione sarà quindi una scienza in cui la natura non verrà studiata come mero oggetto, ma in cui si prenderanno in considerazione anche le interazioni tra questa e l’uomo, come nel caso delle già citate satoyama: comunità del Giappone rurale che, a causa della distruzione provocata dall’industrializzazione, per sopravvivere hanno dovuto mediare con una presenza umana.

La quarta ed ultima parte del libro (“Nel bel mezzo delle cose”) è infine dedicata al ruolo politico che può avere questo discorso iniziato seguendo il percorso (commerciale, ma non solo) di un fungo: il matsutake. L’ultima parte del libro è un invito ad accogliere questi terreni comuni inter-specie, pur consapevoli che non sarà abbandonandosi a un’utopia che si colmeranno i vuoti lasciati da certo progresso. Si deve dunque accogliere un’indeterminazione strutturale, ma che va a costituire, proprio nei suoi stessi vuoti, uno spazio politico. È questa l’intuizione avuta da Beverly Brown, l’organizzatrice di una riunione a cui partecipa Tsing fra cercatori e servizio forestale a Open Ticket. Per usare le sue parole, in riferimento a questa iniziativa da Brown, che già in anni precedenti aveva dato voce agli esclusi:

«La sua difesa di un ascolto politico mi ha aiutata a guardare oltre l’interferenza delle nostre aspirazioni. Senza il progresso, che cos’è la lotta? Chi era stato privato dei diritti aveva un programma comune che rifletteva quello che dovremmo tutti condividere nel progresso»[20]

Ed è proprio a partire da questi potenziali alleati che va ripensato il progresso, consapevoli dell’esistenza di terreni comuni anche fra realtà normalmente considerate così distanti.                     Sforzi di questo tipo sono alla base di gruppi come i Matsutake Crusaders di Kyoto, descritti nel primo capitolo di questa parte, che traggono vantaggio dal fascino che rivestono i funghi per farli assurgere a simbolo del loro impegno nel rinnovamento delle relazioni tra persone e foreste.              La lotta politica è presente anche nel capitolo “Beni ordinari” in cui Anna Tsing racconta della campagna dello Yunnan, in cui si sta consumando ancora una volta lo schema capitalistico di recupero delle risorse di un terreno sotterraneo, potenzialmente comune, ma che sta venendo sempre più sottratto dalla potenza economica cinese.

Il capitolo successivo (“Un’antifine: persone che ho conosciuto lungo la strada”) è, insieme all’ultimo, il capitolo che restituisce ciò su cui si fonda questo libro: gli incontri. Anna Tsing saluta e racconta di alcuni dei personaggi qui citati, ma che nel libro sono molti di più a aprono a mondi molto più vasti, ma soprattutto inaspettati.

In conclusione, Il fungo alla fine del mondo non è soltanto un libro: è un incontro. È un ricco, variegato e confuso incontro, scritto a partire da altri incontri. Il fungo alla fine del mondo non è un libro che va compreso, né si può dire esprima un’idea, o, se lo fa, non pretende di farlo in maniera definitiva. Un libro che parte dalle ricerche della Haraway e di Ursula K. Le Guin per arrivare al Matsutake Worlds Reserach Group. È proprio questo, forse, il significato di questo libro: il fatto di non averne uno completamente definito. È questo un limite? Pensarlo sarebbe ricadere in quella stessa ragione che il libro rifiuta. In effetti, chi se lo sarebbe mai aspettato che da una ricerca su un fungo sarebbe nato tutto ciò? Il matsutake è quindi una possibilità: una possibilità di relazione; viva come vivo è questo libro, di cui si qui è restituita solo una piccola parte.

 

Note

[1] Per un approndimento sul concetto di Illuminismo nella riflessione di Adorno, si vd Max Horkheimer Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, trad. it. di Renato Solmi, Einaudi, Torino, 2010 (prima ed. it. 1966).

[2] Per fare chiarezza sull’origine e sulle implicazioni della separazione fra uomo e natura, si vd. Bruno Latour, Nous n’avons jamais été modernes. Essai d’anthropologie symétrique, Éditions La Découverte, Paris, 2006. Esiste nell’edizione italiana, Non siamo mai stati moderni, elèuthera, Milano, 2018.

[3] Sveta Yamin- Pasternak, How the Devils Went Deaf: Ethnomycology, Cuisine, and Perception of Landscape in the Russian Far North, tesi PHD, University of Alaska, Fairbanks 2007.

[4] Gli yao, chiamati anche mien o dao, sono un gruppo etnico che vive principalmente in Cina e in Vietnam.

[5] Anna Lowenhaupt Tsing, Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo; traduzione Gabriella Tonoli, Rovereto, 2021, p. 52

[6] Ibidem.

[7] Il Gene egoista è un saggio scientifico del biologo inglese Richard Dawkins pubblicato nel 1976. Si basa sulla teoria dell’evoluzione, che è la tesi principale del libro, ma analizzata dal punto di vista del gene, anziché da quello dell’individuo.

[8] A. L. Tsing, Il fungo…, op. cit., p. 71.

[9] Ibidem

[10] Il principio di indeterminazione di Heisenberg è stato un elemento chiave nello sviluppo della meccanica quantistica e del pensiero filosofico moderno. L’indeterminismo è appunto quell’atteggiamento filosofico che si oppone al determinismo, negando la cogenza assoluta della necessità posta da questo e con l’ammissione della realtà ontologica della contingenza.

[11] Per un approfondimento del pensiero dei due, si vd. Elia Zaru, “Impero” e “imperialismo”. Michel Hardt e Antonio Negri in «Scienza e politica». Vol. XXVIII, no. 54, 2016, pp. 147.161.

[12] Si tratta di uno slogan (There is no alternative), che veniva spesso usato dal primo ministro conservatore inglese Margaret Thatcher e che serviva e legittimare il neoliberismo come la sola ideologia restante valida.

[13] Ivi, cit. p. 147

[14] Ivi, cit. p. 163

[15] Ivi, cit. p. 183

[16] Il kula è uno scambio simbolico di doni effettuato nelle isole Trobriand.

[17] Ivi, cit. p. 186

[18] Ivi, cit. p. 224

[19] Ibidem

[20] Ivi, cit. p. 368

 

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