Troppe cose sono state già dette e scritte riguardo la figura di Greta Thunberg, sulla sua età, sulle sue trecce, sulla sua presunta “stranezza”. Strano, se non insopportabile, è apparso il modo in cui è stata accolta da Barack Obama e alle Nazioni unite. Per la destra e i suoi mezzi di comunicazione, strillati e grossolani ma che raccolgono il consenso di un Paese sempre disponibile allo sghignazzo sulle donne o sui soggetti “non conformi” (stranieri, omosessuali, trans, persone di colore) è  “Gretina”, piccola e poco intelligente come coloro che le danno credito. Anche secondo alcuni maturi leader maschi della sinistra Thunberg è solo una “bambina” che si intromette in argomenti complessi invece di starsene al proprio posto, nel suo banco, a scuola. Altri ancora si sono addentrati in un confronto tra l’inverosimile credibilità accordata alla giovane donna e le parole della scienza e degli scienziati, discettando su verità e predizioni ingiustamente inascoltate degli “esperti”.

Non intendo aggiungere l’ennesimo parere in difesa di Greta ma allargare l’analisi su come il linguaggio e i comportamenti sociali, sedimentati nella storia, segnino fortemente lo spazio pubblico, continuando, decennio dopo decennio, a marchiare le differenze per tenerle a debita distanza oppure, viceversa, a colonizzarle per procedere alla loro neutralizzazione e cancellazione.

Ho ripreso in mano un libro rivoluzionario di Nirmal Puwar, sociologa della Goldsmith Univerity, pubblicato in Gran Bretagna qualche anno fa e che mantiene inalterata la sua efficacia nel mettere a fuoco tali processi. Si tratta di Space Invaders: Race Gender and Bodies Out of Place (Bloomsbury, 2004). Puwar descrive lo smarrimento provato da Winston Churchill quando si trovò di fronte la prima donna eletta deputato alla Camera dei Comuni (Nancy Astor, 1919): un sentimento di disorientamento, uno stato di ansietà che sconvolge ogni certezza ontologica, quasi ci si trovasse di fronte a un’incombente minaccia. “Il senso di sé e la profonda intimità che si ha con lo spazio pubblico in cui ci si trova vengono, per un momento, dissestati. Questo incontro individuale è incorporato in una serie di incontri sociopolitici più ampi, centrali per la creazione di posizioni privilegiate nella sfera pubblica e in particolare centrali per definire il corpo politico come territorio privilegiato del dominio del maschio bianco”.

Questo tipo di percezione codificata si riflette intorno a noi nel linguaggio, nelle leggi, nella strutturazione medesima degli spazi, nelle emozioni. Così, insomma, i corpi dissonanti rispetto agli elitari canoni prestabiliti dal maschio bianco continuano a essere considerati veri e propri alieni, fuori posto, vengono invisibilizzati, inferiorizzati, le loro parole infantilizzate, messe in dubbio, sorvegliate, il loro aspetto è sottoposto al vaglio delle prescrizioni del sessismo e della razzializzazione.

In tutto questo, il linguaggio e la comunicazione occupano un ruolo centrale nella creazione di senso comune. Da questo punto di vista anche i movimenti debbono prestare attenzione ai messaggi poiché il sesso, la sessualità, nel linguaggio, è qualcosa che stabilisce rapporti di dominazione e di sottomissione: è di questi fantasmi di trofei maschili – che certi meme involontariamente rimbalzano – che si nutre da secoli l’immaginario definito dalla cultura maschile, ancora una volta stratificando e gerarchizzando il potere. Come nota Graziella Priulla in Parole tossiche. Cronache di ordinario sessismo (Settenove, 2014), “se alla lingua è riconosciuto un ruolo fondamentale nella costruzione sociale della realtà, è necessario che diventi rispettosa di entrambi i generi”. Dunque va riconosciuta anch’essa come luogo in cui il patriarcato si è arroccato, supportato da tutta una serie di categorie verbali, di immagini mediatiche, di abitudini sociali, che favoriscono l’esclusione dei corpi diversamente sessuati nonché dei loro desideri e piaceri.

Insomma, se Maria Luisa Boccia nel suo testo Le parole e i corpi (Ediesse, 2018) avverte che “non è facile pensare da donne in una istituzione costruita solo da e per uomini”, bel hooks, in Tutto sull’amore (Feltrinelli, 2003), ricorda come il movimento femminista abbia aiutato le donne a capire il potere personale che una concreta affermazione di sé (cura di sé) consente di conquistare. Le critiche a Greta Thunberg paiono riprodurre soprattutto l’eterno ordine del discorso patriarcale, ma le sue lacrime di rabbia sono un liberatorio “atto di incredulità nei confronti dei saperi codificati” e indicano che in un mondo che richiede la costante finzione della felicità, dobbiamo “imparare di nuovo a ribellarci, a esplodere di fronte a una cultura della docilità, della amenità, della cancellazione del conflitto, poiché viviamo in uno stato di guerra permanente” (Catherine Malabou).

 

Immagine in apertura: Greta Thunberg vs Anne Clark. Special thanks to fb page don’t touch my Greta or her superpowers will instantly annihilate you ø Ø º