Voi state introducendo un concetto nuovo nella discussione che si sta sviluppando sempre più attorno alla questione ecologica: etno-ecologia. Prima di parlarne però vorrei chiedere a Gianluca cosa intende con “ecologia” e a Paulo del perché del suffisso “etno”.

Gianluca: Ecologia è oggi una parola molto usata, forse anche abusata. La troviamo impiegata in vari ambiti e da molteplici soggettività: esiste, ad esempio, una narrazione che il capitalismo fa di se stesso, il così detto green-capitalism; vi è poi un uso del termine come sinonimo di ambientalismo, e tante altre accezioni. Per quanto riguarda il lavoro che stiamo portando avanti con il gruppo ubi minor, ecologia significa pensare all’attualità in termini profondamente relazionali. Ecco, ecologia significa prendere sul serio l’idea che quel che si è, lo si è in virtù di una serie (molteplice) di relazioni. Ecologico, dunque, è un pensiero che si rapporta costantemente con il suo fuori. In quest’ottica, mi pare, va da sé la dimensione profondamente politica dell’ecologia: sta ad indicare un modo di abitare degli spazi-ambienti, riguarda la distribuzione delle forze in uno spazio multistratificato. In una parola, potremmo dire che una ecologia non può che interessarsi al ‘conflitto’. Se ci pensiamo un attimo, in fondo, non è molto distante questa concezione da quella ‘scientifica’: l’ecologia naturalistica non è altro che lo studio dell’interazione tra gli individui in un certo ambiente e tendenzialmente questa relazione è conflittuale, non tanto nei termini della vittoria del più forte, ma anche in termini di alleanze, mutui appoggi, collaborazioni inter e intra specifiche. Ma l’ecologia non è solo ‘naturale’. Félix Guattari, ad esempio, ci ha insegnato che esiste una ecologia “storica”, “sociale”, politica tout court. Se vogliamo, ecologia potrebbe essere sinonimo di uno studio dei conflitti, tutt’altro che un ritorno a una natura edenica. C’è una nota storica importante, se vogliamo simbolica: Guattari pubblica Le tre ecologie nel 1989, anno della caduta del Muro.

Paulo: Il prefisso ETNO davanti al nome dell’ecologia sicuramente è un gesto provocatorio. Esso rimanda nello specifico a due questioni rese invisibili nei resoconti storici della Modernità: una è la questione dell’etnografia come genere letterario che svolse una striatura preliminare dello sconfinato spazio aperto dalle esplorazioni geografiche dell’âge classique; un’altra questione è quella dell’etnocentrismo con cui la riflessione filosofica si è posta nei confronti della partizione natura-cultura, e tutta la problematica che ne deriva. In fondo, diciamo solo che non può esserci ecologia senza prima portare alla superficie i dispositivi che inquinano in senso vero e proprio, quelli che pongono il naturale come il radicalmente Altro e il sociale come artificio puramente intellettivo. L’ambiente non è la natura e la cultura non è un valore universale, perciò ad ogni forma della questione ambientale corrispondono determinate istituzioni economiche: questo è il motivo per cui ogni definizione di natura è profondamente culturale, mentre ogni sviluppo del pensiero rinvia ad un percorso naturale. L’etno-ecologia traccia cartografie di questa separazione.

Paulo, nel libro “Ecosofia. Percorsi contemporanei nel pensiero ecologico” che avete pubblicato l’anno scorso, dite che la semiotica e la psichiatria possono essere delle armi per evitare le derive antropocentriche. Come? Tutto questo può davvero ribaltare il modo di vedere/vivere il mondo tipico del maschio bianco, occidentale, europeo?

Paulo: L’opportuna aggiunta del prefisso ETNO davanti a SEMIOTICA e PSICHIATRIA suggerisce però la necessità di fare una precisazione: le derive da evitare (anche se ormai è troppo tardi) sono quelle etnocentriche. Etnosemiotica ed etnopsichiatria, dopo tutto, non sono “branche” e il prefisso ETNO non punta alla specificità ma alla processualità: non esistono processi puri. In questo senso, il nostro arsenale non può avere come bersaglio un modo di vedere il mondo poiché l’ecosofia non è una “filosofia di vita”; anzi, la sfida è problematizzare il fatto stesso che vi possano essere ‘cosmovisioni’ e cosmologie, Weltanschauungen o Weltauffassungen a seconda della moda. Si tratta comunque di una sfida importante che pone in evidenza la necessità del dialogo fra filosofia e antropologia, qualora si voglia davvero tenere il pensiero filosofico rivolto verso la terra. Presentare lo schema soggetto-oggetto come emergenza ambientale e contestarne le derive psico-universalistiche sembra un buon punto di partenza, ma per ora l’unico maschio bianco che interessa all’ecosofia è quello che avvia un percorso di studi filosofici.

“Ecosofia” è la parola chiave del vostro ebook. Una parola che ha attraversato un lungo e complicato dibattito politico, che ha che fare con un preciso modo di intendere il rapporto natura-cultura, e che viene interpretata in modi diversi. Gianluca, puoi riassumere la storia di questa parola e dirci come la interpretate?

Gianluca: Come ‘ecologia’, il termine Ecosofia presenta profonde ambiguità, e spesso richiama alla mente posizioni contrapposte, apparentemente inconciliabili. Per quanto riguarda il nostro lavoro, facciamo principalmente riferimento a due personaggi che rispecchiano tutta questa ambiguità: da un lato, il filosofo, alpinista e attivista Arne Naess, dall’altro il già citato Guattari. Il termine viene coniato da Naess, e sta ad indicare un preciso orientamento politico: fare entrare nel dibattito politico ciò che per i moderni, da Hobbes in poi, è la dimensione ‘impolitica’ per eccellenza: la Natura. Questo è un tema che tengo caro, ma è molto complesso: la Natura non è soltanto l’oggetto di studio delle scienze della natura. Non riguarda solo la deforestazione, gli oceani inquinati e gli animali in via d’estinzione. Esiste una Natura molto più ampia e variegata della quale il pensiero del Novecento ha mostrato la profonda politicità: la natura di un discorso (Foucault), la natura di un pratica, la natura di un comportamento… Tutte queste nature non sono politicamente neutre, come non è politicamente neutro il disastro ambientale. Vi è qualcuno che si accaparra di boschi, foreste, beni primari e spesso lo fa sfruttando, distruggendo, inquinando. Vi è inquinamento delle acque e dei suoli, ma vi sono anche inquinamenti psichici, sociali, culturali e finanche scientifici. Ecco, questa è l’ottica che ci offre l’ecosofia di Guattari. Per riconoscere la politicità della Natura, è importante evitare due derive: da un lato identificarla con l’ambiente, dall’altro pensare ad una dicotomia natura-cultura, natura-storia. Ambiente e individui sono coesistenti, la distruzione di un ambiente è una forma di violenza perpetrata ai danni della comunità. Ogni attacco ad uno spazio sociale, diventa attacco ad un ambiente. L’ambiente, non più Natura, ma chiasma socio-naturale, è costituito dalle soggettività (umane e non umane) che lo attraversano, lo abitano lo vivificano (o lo uccidono… ecologia non indica sempre qualcosa di buono. L’ecologia non è fatta per le anime belle).

A questo punto però mi verrebbe da chiedervi se sia possibile fare un collegamento tra l’etnoecologia di cui parlate e il lavoro di Pierre Clastres. Soprattutto in riferimento alla questione del potere.

Paulo: Clastres ha già fatto un breve cameo nel secondo ciclo dei seminari ubi minor, quelli sulla “macchina da guerra”. Io suggerirei di partire dalla caratterizzazione che Deleuze e Guattari ne fanno in Mille piani: qualora il desiderio venga concepito macchinicamente come qualcosa di produttivo, la mancanza del desideratum smetterà di essere l’istanza originaria e diventerà il ritornello con cui gli individui all’interno di un ecosistema si riconoscono. Bisognerebbe rendere geomorfico il discorso di Clastres, riterritorializzare l’interdetto della disuguaglianza ed evitare di congelare il suo brillante lavoro etnologico all’interno di una spinta anti-moderna: per non inquadrarlo in un discorso sull’a priori storico, per farti un esempio. Magari, togliendogli pure un po’ di quel gusto anarchico per le origini, giacché una storia ambientale etno-ecologica rimanda per forza di cose ai processi psico-sociali di individuazione, all’interno dei quali l’origine è un’istanza metastabile a cui far risalire le nostre ideologie economiche ed ecologiche. Bisogna ammettere però che alla sua epoca Clastres offrì un’alternativa alle correnti dominanti di pensiero: era un intellettuale dei suoi tempi e quei tempi ormai sono tramontati.

Gianluca: Certamente il legame c’è, ed anche molto profondo, a mio avviso. In fondo Pierre Clastres non tentava di fare altro che mettere in luce la dimensione profondamente politica dell’antropologia. Clastres sosteneva che la dimensione del politico non è identificabile né con la Storia, né con l’accumulazione capitalista, e ciò a mio avviso senza nessuna nostalgia primitivista. Lo spazio del politico è l’ambiente che ‘istituisce’ le soggettività, le taglia, le misura, le determina. La dimensione più ecologica di Clastres, a mio avviso – ma è un percorso ancora tutto in divenire, tutto da saggiare – sta tutta nello sforzo di cogliere l’ “ambiente politico” come irriducibile tanto alla dimensione contrattualistica quanto alla irreversibilità del progresso storico. Clastres è un autore nel quale la Natura non è né un’origine perduta, né il semplice strumento umano: essa è sempre presente, nel ‘primitivo’ come nel borghese. Il politico che Clastres ci mostra, secondo me, è quella dimensione chiasmatica – e perciò profondamente conflittuale – tra ambiente e individui (psichici e collettivi, per usare i termini di Gilbert Simondon) che determina l’ambivalenza profonda del Potere, tanto il suo aspetto reazionario, repressivo, disciplinare, quanto il suo aspetto più gioioso, non dico rivoluzionario, ma fortemente resistente. E questa dimensione del potere ‘politico’, che non è opposto ad una natura ‘impolitica’, la vediamo all’opera oggi, in Italia come in Patagonia, negli USA come in Africa. In sostanza, l’etno-ecologia non fa altro che ricordarci che l’inquinamento – ‘naturale’, sociale, culturale, politico – non è questione di ‘antropocentrismo’, perché è una nozione troppo generale: non tutte le culture umane hanno il medesimo impatto ambientale. Ed è in quest’ottica che bisogna riconoscere la dimensione propriamente politica dell’etno-ecologia. Ammesso che sia possibile e auspicabile pensare una generale comunità umana (cos’è, in fondo, l’umano?), non tutti gli elementi di questa comunità ‘impattano’ allo stesso modo: c’è chi ‘inquina’, chi è inquinato, chi si dichiara al di fuori di questa dicotomia. E quelli, purtroppo, stanno sempre dalla parte di chi inquina.

 

Nota biografica

PAULO FERNANDO LÉVANO (Lima, 1989) è laureato in Filosofia, con una tesi in Storia della Scienza e della Tecnica. Redattore di Deckard, piattaforma cross-mediale di divulgazione filosofica e scientifica. Si è dedicato alla storia dell’aeronautica militare in collaborazione con l’Aero-Club del Perù.

GIANLUCA DE FAZIO (Lamezia T., 1984) è dottorando in Filosofia, presso l’Università di Pisa e l’Università di Firenze. Si occupa prevalentemente di ontologia in riferimento al tema della soggettività nella filosofia francese contemporanea.

Insieme hanno ideato il laboratorio di Ecosofia che risponde al nome di ubi minor presso l’Università di Bologna. Il laboratorio si occupa delle questioni etiche, epistemologiche e politiche legate al tema dell’Ecologia in un’accezione prevalentemente filosofica e storico-scientifica

 

Fonte immagine: Nerdy Painter, Urban Ecology, oil on canvas, 2011.

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