Il testo che presentiamo è la recensione al libro curato da Andrea Ghelfi Connessioni Ecologiche. Per una politica della rigenerazione: leggendo Haraway, Stengers e Latour, Ombre Corte, 2022. Un libro più che mai attuale, che ci aiuta a fare il punto “politico” sugli approcci più-che-umani alla crisi socio-ecologica.

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Haraway, Stengers e Latour sono ormai classici del dibattito attorno alla crisi ecologica e alle alternative al sistema. Tra di loro si è già intessuto un fitto dialogo, o forse sarebbe meglio dire una affinità elettiva, che traccia linee di comunanza ma anche diffrazione. Il volume collettaneo curato da Andrea Ghelfi, Connessioni ecologiche. Per una politica della rigenerazione: leggendo Haraway, Stengers e Latour (Ombre Corte, 2022), contribuisce a consolidare questa trama composita anche nel dibattito italiano. Una serie di interventi, o forse sarebbe meglio dire incursioni, dentro pensieri stratificati, articolati attorno a ecologie fatte di ponti tra umano e non umano, sociale e naturale… per eliminare questi stessi dualismi e mettere in evidenza il carattere assolutamente ibrido degli assemblaggi che costituiscono tanto le pratiche quotidiane quanto quelle politiche, scientifiche, economiche e via dicendo. Perché, come ci ricorda Ghelfi nella sua Introduzione, le opere di questə autorə sono accomunate proprio da una tensione al superamento del dualismo natura-cultura. E ci aiutano a vedere come gli stessi piani di articolazione del reale si intersecano: ogni pratica scientifica è già-subito politica, l’economia politica si concretizza sempre al “banale” livello delle pratiche quotidiane, ogni cultura è anche cultura della materia e quindi inestricabilmente imbricata col suo intorno non umano (la c.d. “natura”). Il sociale, insomma, è imprescindibilmente ecologico perché materiale, vivente, interconnesso. Le connessioni ecologiche cosa sono, in fondo, se non precisamente tutti i fili corporei ed energetici che tengono insieme l’esistenza di un presente che si complica (nel senso di co-implica) sempre più, dove tutte le relazioni stabilizzate, note, territorializzate vengono di colpo sfaldate, sconvolte, turbate da una crisi che è tanto climatica quanto affettiva e incorporata.

Intessere un dialogo con e attraverso Latour, Stengers e Haraway è uno dei modi per abitare questo presente in fuga, eppure così terrificantemente incombente, per imparare a “stare nel problema”, ma anche a trovare gli strumenti intellettuali e pratici per inventare modi di vita altri in quelle che Tsing, autrice più volte menzionata nel libro, chiamerebbe “le rovine del capitalismo”. Questə autorə, grazie ad una comune critica all’umanesimo moderno (p. 8), forniscono importanti strumenti per immaginare un futuro invischiato e multispecie. Un punto di originalità dell’opera sta però nell’interrogazione critica e apertamente politica di questo pensiero, per dirla con Latour, terrestre, dei mondi più-che-umani che ci aiuta a delineare. Al di là della r-esistenza nella crisi è infatti necessario, portando queste opere oltre i loro stessi limiti, interrogare forme più aperte di lotta. Oltre l’apprezzamento di pratiche di sperimentazione alternative ma interstiziali, verso campi di antagonismo, pratiche destituenti e istituenti, dove tuttavia una “politica alternativa e quotidiana della materia” possa diventare il linguaggio a-semiotico e incorporato di nuove forme di autonomia e di costruzione del comune. Non a caso l’introduzione di Ghelfi si apre con un’interrogazione dell’Antropocene non tanto in quanto era geologica o periodo storico-ambientale, ma piuttosto in quanto “conflitto ecologico” (p. 7).

All’interno di questo conflitto, lə autorə di cui si tratta aiutano a sviluppare un agire attento e sensibile alle questioni multispecie, agli assemblaggi più-che-umani che abitiamo, per articolare pratiche di lotta che siano anche fatte di una cura capace di lasciarsi alle spalle l’umanesimo antropocentrico. Inoltre, permettono di ingaggiare un rapporto sfaccettato, costruttivamente critico, con le tecnologie e gli assemblaggi sociotecnici che strutturano l’esistenza nei tempi di una crisi epocale della modernità capitalista. Che ruolo hanno il l’arte e il web, le tecnologie riproduttive, il corpo-cyborg, le tecnologie di mappatura nel ripensamento dell’umano nel suo “ambiente”? E, ancora più profondamente, in che modo questi dispositivi riarticolano significati chiave della nostra organizzazione socioecologica: l’umanità e la post-umanità, la riproduzione, la cura, la natura, il lavoro…? Latour col concetto di “terrestre”, Haraway con il suo “Chtulucene”, Stengers e la “cosmopolitica”: si tratta comunque di cacciare radici e linee di fuga in una terra molteplice, attiva, in continuo divenire. Capacità di ri-abitare il pianeta, dove ri- non è ripetizione o ritorno, ma immaginazione e apertura: perché nell’epoca delle catastrofi saper vivere di nuovo implica la capacità di lasciar andare ciò che ci ha resi moderni, o forse non sufficientemente tali.

Non a caso i quattro saggi che aprono la parte centrale del libro, dedicati a Haraway, si pongono, per quanto differentemente, la necessità di ri-tessere le relazioni che il pensiero dell’autrice intrattiene con Marx, il femminismo, il pensiero e le pratiche di decolonizzazione. Soprattutto la Haraway socialista-femminista emerge in quanto voce di rottura, ma anche reinvenzione creativa, di una tradizione che ha fatto della trasformazione e della rivoluzione in tempi di crisi la propria ragion d’essere. Carlotta Cossutta ragiona sulle pratiche del sapere e ci guida a ripensare l’esperienza in quanto radicale costruzione, luogo in cui il soggetto si fa e da cui parla, suolo fertile in cui incrociare l’alterità non per ridurla a sé ma per costruire alleanze tra vite minori, fare-con: sympoiesis. Angela Balzano invece sposta l’attenzione sulla tecnoscienza all’epoca del biocapitale, per chiedersi in che modo il “cyborgfemminismo” possa “fare della scienza un campo di battaglia” (p. 35) in un contesto in cui la biologia, assurta a scienza da un sistema che mira a mettere a valore l’intera vita, costruisce corpi – disciplinati, appropriati e appropriabili, ma anche queer, mostruosi, in/appropriati e in/appropriabili.

Tola costruisce un vero e proprio “corpo a corpo” (p. 47) tra Haraway e il marxismo interrogando le categorie di lavoro, natura e politica. Da questo confronto emerge una critica alle letture semplicistiche secondo cui assisteremmo ad uno scarto tra la Haraway socialista del Manifesto cyborg degli anni ’80 e quella che in Chtulucene si occupa di immaginare convivenze multispecie in tempi di crisi. Piuttosto, è la stessa autrice che – sia nel pensare il cyborg che nell’abitare il Capitalocene – critica l’umanesimo antropocentrico delle categorie marxiane di lavoro e rivoluzione, contrapponendovi una costruzione rivoluzionaria di relazioni precarie meticce che possano promuovere un auto-governo indipendente dalla presa del capitale (p. 57). Chiude questo excursus harawayano il contributo di Virgili che interroga nuovamente il nesso lavoro/tecnologia grazie alle lenti del cyborg, in quanto “insieme di fantasia e realtà materiale … [ove] la prima permette di trasformare l’altra” (p. 62). Riprendendo spunti xenofemministi e accelerazionisti, l’uscita dal biologico che la tecnologia permette diverrebbe (in modo a mio parere parzialmente ingenuo) occasione di emancipazione dalle reti di dominio che si articolano attorno a quelle costruzioni culturali, eppure naturalizzate, quali la “famiglia”.

Il saggio di Francesco Di Maio che apre la serie di interventi dedicati a Bruno Latour è anch’esso uno sforzo per “salvare” il pensiero dell’autore dalle sue letture e usi depoliticizzati. Attraverso il confronto con un Latour meno popolare, quello della semiologia, si mettono in luce gli excursus critici all’interno dei regimi di enunciazione che costruiscono la modernità. Grazie a queste lenti Di Maio propone una lettura del Random Darknet Shopper come ibrido capace di destabilizzare il controllo umano sulle sue stesse produzioni tecniche, scientifiche, politiche. Mirko Alagna mette a critica la critica, con Latour. Da un lato, la sua “postcritica” si rifiuta di sdoppiare da realtà, di darne una verità che non risponde della concretezza degli assemblaggi vissuti. Essa funge da apparato di visibilità per tutte le pratiche che fanno r-esistenza in tempi di crisi, permettendo di registrare processi trasformativi in atto, con gli affetti quale unica bussola di discernimento immanente circa i loro effetti politici. Ma Alagna evidenzia anche le ambivalenze e contraddittorietà di questo approccio alla politica, chiedendosi a ragione – e però forse semplificando la lettura di che cosa sia una pragmatica degli affetti – se non si riduca a una “estetizzazione della partecipazione e della militanza” (p. 96).

Gli ultimi tre saggi originali mettono in dialogo Stengers e Latour, per pensare l’abitare in “Gaia” e nelle molteplici crisi socio-ecologiche e locali-globali che esplicano la sua potenza. Pierazzuoli pone attenzione al tema, tanto dibattuto quanto aperto, della agency – agentività, capacità di agire – che nell’Antropocene si decentra necessariamente dall’umano, e tuttavia in modi ancora da definire. Agencement – concatenamento, assemblaggio: questo forse un modo per pensare ad una cosmo-politica dove il soggetto possa essere messo in ombra dalla complessità delle relazioni. Capone sposta la nostra attenzione sulla “ecodomìa del comune” (p. 112) per investigare le diverse “figurazioni” che gli ecosistemi umani possono assumere nella costruzione di istituzioni di autonomia e trasformazione, guidato dall’imperativo stengersiano della necessità di costruire linguaggi che sappiano prestare attenzione, pensieri che possano essere “di minoranza” – non totalizzanti. Bandiera e Milazzo ci portano tra gli ulivi della Puglia per investigare il sintomo-Xylella: una epidemia veicolata da un batterio tra le piante, e che tuttavia parla di politiche economiche ed ecologiche, di apparati scientifici e del loro rapporto con il dibattito pubblico e con il sapere pratico e incorporato di chi abita queste terre.

È infine Stengers stessa a portarci oltre i confini del dibattito tracciato fin qui, con la sua prefazione (tradotta da Gilberto Pierazzuoli) al libro di Anna Tsing Il fungo alla fine del mondo, tra raccoglitori di funghi, piantagioni di canna da zucchero, e interrogazioni circa le narrazioni (in)tempestive per l’Antropocene. L’autrice ragiona su che cosa significa raccontare storie nelle rovine del capitalismo, partire dai viaggi e dagli assemblaggi che dei funghi particolari mettono in moto, per pensare alle scale globali-locali della devastazione ma anche della sperimentazione di forme di ascolto e attenzione nuove. Vi è qui la possibilità di sviluppare modi di ascoltare e sentire altri, che sappiano farsi carico dell’alterità, non per diventare “rispettosə” di una presunta natura a noi esterna, ma per renderci capaci di tessere relazioni consapevoli e non neutre, non innocenti, con tutto ciò che trama il destino del mondo assieme a noi. È nella sensibilità del radicamento pieno di vita del sottobosco, dell’humus, aperto al contempo al qui-ed-ora e alla globalità dei processi di lavoro e valore, alle cosmo-politiche del capitale e della tecnoscienza, che mi pare si possa rintracciare lo spirito complessivo di questa raccolta di saggi. Un invito a pensare con amore, in punta di piedi e al insieme con inesausta credenza, ai concatenamenti che continuamente ci dislocano in quanto soggetti e ci ricollocano in un divenire segnato da flussi contraddittori e sempre aperti di potere, di significato, di desiderio.

Decentrare il soggetto apre alla proliferazione di soggettività plurali e più che umane. Per queste ultime, uno spazio politico praticabile nelle rovine del capitalismo si dà, chiaramente, non nell’inclusione o nel riconoscimento all’interno di forme di organizzazione capitalista, ma nell’autonomia del fare in comune. Poiché le istituzioni, i discorsi, e le categorie moderne costituiscono limiti rigidi e depotenzianti al desiderio di autodeterminazione situata e concreta della molteplicità, il messaggio è quello di “fare rizoma”, estendere e soprattutto approfondire le connessioni ecologiche che ci costituiscono. Ma tutto ciò non basta: è necessario – problematica che questo libro apre ma certamente non esaurisce – che le pratiche istituenti si interroghino costantemente sulla relazione che gli assemblaggi emergenti mettono in campo con nessi e flussi di potere esistenti, sulle opportunità di alleanza, sulla capacità radicalmente trasformativa del proprio vissuto ibrido, meticcio, aperto.

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