A partire dall’intervista a Martin Jacques pubblicata da The News Internationalist (“China a Post-Neoliberalism?”), ripresa e tradotta da Effimera, si è sviluppato un interessante confronto tra Gaia Perini e Gabriele Battaglia, entrambi esperti di Cina. Proponiamo la lettura del loro scambio di opinioni
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Gaia Perini: Non sono d’accordo su quasi nulla di ciò che Martin Jacques sostiene nell’intervista pubblicata da The News Internationalist (tradotta da Effimera), neppure con il titolo (China a Post-Neoliberalism)? La stragrande maggioranza della popolazione cinese è terrorizzata dalla possibilità di ammalarsi, perché una degenza di più di una settimana in ospedale li ridurrebbe sul lastrico. E chi parla con loro, in particolare con la popolazione adulta, sa che l’istruzione dei figli è una vera e propria ossessione, dal momento che un normale ciclo di studi può costare quanto un appartamento (se non di più) e di mezzo c’è pure il problema dello hukou (ossia il sistema di registrazione della residenza creato negli anni ’50 del secolo scorso, che vincola i cittadini cinesi al loro luogo di nascita). Questo in città. Nelle campagne, in molte zone, le scuole proprio non ci sono e il livello dell’insegnamento è scadente. Sulle condizioni di vita dei lavoratori sorvolo, perché il discorso è noto e sin troppo ampio. Comunque, in breve, dal punto di vista del welfare, la Cina di oggi non ha più alcuna attinenza con la parola “socialismo” e semmai è divenuta la spaventosa sorella gemella degli Usa.
Poi, passando alla geopolitica, che è l’ambito che pare interessare di più l’autore qui proposto: chissà perché non ci racconta come la Cina entrò nel WTO, all’inizio del millennio, e a quali condizioni ha portato avanti la sua Kaifang (la politica di Apertura, parte della manovra di Riforma e Apertura (Gaige Kaifang), iniziata nel 1978 e tuttora in corso. L’espressione Gaige Kaifang designa inoltre l’epoca post-maoista). Da lì, secondo me già si coglie come la strategia cinese e il suo ruolo nell’assetto globale non abbiano assolutamente nulla a che fare con il Global South e il suo destino. Non mi convince affatto l’impostazione generale secondo cui la Cina costituirebbe un’alternativa a priori, per il semplice fatto che non è l’America. Come se l’America fosse IL capitalismo. Come se bastasse la posizione geografica di un paese per definirne la struttura economica. Così, non vedo alcuna differenza strutturale fra il Fondo Monetario o la Banca Mondiale e la Banca Asiatica o la Nuova Banca di Sviluppo: i primi sono al traino degli Usa mentre le seconde sono capitanate dal gigante asiatico, ma cosa ci porta a credere che funzionino diversamente? Che i rapporti di forza interni siano di altra natura? Quanto all’Africa, a differenza dei critici liberal non credo sia lecito usare il termine colonialismo. Viceversa, di sviluppismo si può e si deve parlare, ed è lo stesso sviluppismo che è stato imposto all’interno del paese, alle terre di confine del Tibet e del Xinjiang e all’Ovest in generale.
In pratica, quella che Martin Jacques ci narra è la success story del capitalismo cinese: il quale è vero che non ha risentito della crisi finanziaria, ma non per questo è più virtuoso. Si trova solo in un altro stadio della sua espansione. Soprattutto, sempre di capitalismo si tratta. Dico ciò senza intenti polemici, ma sento sempre più l’urgenza di elaborare una lettura della Cina “terza”, equamente distante sia dalle critiche della stampa anglosassone liberal, che condanna il PCC in quanto “comunista” (e quindi secondo loro intrinsecamente dispotico e anti-democratico), sia dai tankies, rossobruni e terzomondisti sui generis, che elogiano il modello cinese, apertamente sbandierano il loro odio per l’Occidente, mentre segretamente amano il Papà-partito. Ecco, il fetish per la bandiera rossa non sempre è garanzia di un vero e sentito credo comunista – penso che lo sappiate meglio di me. La mia bussola personale, quando leggo di Cina, è la presenza o l’assenza del soggetto “popolo cinese” nella narrazione, è l’analisi sociale. Anche nella macroanalisi geopolitica si dovrebbe percepire se con “Cina” intendiamo il governo, o il paese reale. So che è un compito enorme, e per di più improbo, ma secondo me questa lettura terza, lontana da tutte le narrazioni mainstream, è il senso ultimo del lavoro giornalistico su questo paese.
Gabriele Battaglia: io invece trovo che il pezzo sia interessante e l’analisi parecchio azzeccata. Appiattire la Cina sul neoliberismo è scorretto, così come dipingere il mondo come “tutto uguale”. Martin Jacques non dice per altro che questo ordine post-neoliberal sia per forza di cose una figata, dice semplicemente che è “diverso”. Per sintetizzare al massimo, quasi banalizzare, secondo me per il potere cinese il mercato continua a essere uno strumento e non una religione. Prova ne è la guerra delle tariffe e anche l’incapacità di trovare un terreno comune con l’Europa pur di fronte al nemico comune Trump. Poi magari non ci intendiamo sul termine “neoliberismo”.
Gaia Perini: eppure mi sembra che l’articolo si sbilanci parecchio quando definisce “fondamentalmente positivo” l’operato del governo cinese in Africa o quando elogia la one belt one road. Trovo che le cose siano cambiate tanto negli ultimi tre o quattro anni e oggi chi sostiene a spada tratta la Cina, o la “peculiarità cinese”, nel 99% dei casi sta tentando di salire sul carro dei vincitori. L’esempio nostrano è Geraci e lì tu ti sei schierato contro, insieme a noi… Non capisco perché qui invece lasci passare certe affermazioni. Forse mi mancano dei passaggi.
Gabriele Battaglia: non è questione di schierarsi, chissenefrega. Dell’articolo di Jacques trovo che l’elemento fondamentale sia il rimarcare che l’ingresso della Cina ha ridefinito le regole del gioco e che la Cina non è l’ennesima declinazione del neoliberismo (alla Harvey) per il semplice fatto che se il neoliberismo forza l’ingresso del libero mercato (con regole standard ovunque) in ogni territorio, in base all’ideologia per cui il mercato è il migliore allocantore di risorse; la Cina non funziona così. Prova ne sia che ogni buon neoliberista che si rispetti (ne ho intervistato qualcuno anch’io) digrigna i denti quando pensa che i trattati a guida cinese, come il Rcep, non definiscono affatto standard globali e uguali per tutti come il Tpp, ma lasciano ampio spazio alla discrezionalità: il libero mercato va bene finché serve, se no se ne fa a meno. Per cui, alcuni processi sono simili (vedi la gentrificazione come processo di accumulo attraverso la speculazione immobiliare), ma altri restano distinti. Gli europei stanno impazzendo in questi giorni perché Pechino non accetterà mai di lasciar penetrare il capitale finanziario senza un controllo politico in grado di rendere reversibile ogni decisione overnight. E i sussidi alle imprese strategiche? Allora, o tutto è neoliberismo (ma allora è la notte in cui tutte le vacche sono nere) oppure cogliamo queste distinzioni. Perché la Cina è diversa? Io ipotizzo che dipenda dal fatto che il fine ultimo è pur sempre il mantenimento della Cina, non la sua totale apertura al mercato, non la valorizzazione capitalistica in sé e per sé. Dal punto di vista dell’eversione dell’ordine costituito è meglio? Non so. È diverso.
Gaia Perini: penso invece che schierarsi sia importante, eccome, altrimenti sì che subentra la notte in cui tutte le vacche sono nere (o in cui, per citare il vecchio Deng, “non importa che il gatto sia bianco o nero, l’importante è che acchiappi i topi”). La Cina è certo un bel mix di neoliberismo e capitalismo di Stato, la creazione di standard e policy specifiche a seconda dell’area con cui tratta la potrà anche distinguere dagli Usa, ma non ne fa un sistema migliore o strutturalmente diverso. Cambieranno le tattiche, ma il gioco resta quello: il profitto come primo e ultimo orizzonte, crescita del Pil parallela a quella delle diseguaglianze, coefficiente di Gini alle stelle, crisi ambientale, una sete mostruosa di risorse energetiche che costringe il paese a espandersi ben oltre i confini di Tianxia (cosa che nella millenaria era di Tianxia non era mai successa), per non parlare dei fattori interni e più evidenti, ossia la graduale ma totale erosione del welfare, lo sfruttamento sistematico della popolazione contadina, che ha comportato l’esodo di 300 milioni di persone, l’assenza di ogni straccio di diritto sul lavoro, malgrado la laodongfa NOTE
[…] Gaia Perini e Gabriele Battaglia, “Cina: un ennesimo modello neoliberista o una diversa declin… […]