Raccontare la storia di quegli anni a Padova e a Marghera non vuol dire raccontare solo le vicende che hanno visto Toni Negri protagonista, ci obbliga invece a raccontare una storia collettiva, una storia di speranze di cambiamento radicale vissuta insieme, una storia nell’Istituto di Dottrina dello Stato e in Potere Operaio Veneto-Emiliano, in cui ricerca scientifica e pratica politica si sono intrecciate e arricchite reciprocamente.
È passato molto tempo, c’è già molta letteratura da consultare, volendo[1]. Posso solo testimoniare quello che ho vissuto e ricordo, una parte della vita politica e sociale di Toni che è stata anche la mia
Padova: l’Istituto di Dottrina dello Stato
Nell’Istituto la teoria si costruiva partendo dalla pratica politica e di lotta. Ho imparato da Toni che la teoria nasce dai conflitti, nasce dall’analisi dopo che sono iniziate le lotte e si sviluppa assieme a chi lotta. E non è un fatto solitario, è un fatto collettivo. Perché anche la ricerca nell’Istituto era un fatto collettivo. Ricordo negli anni ‘70 il grande tavolo della stanza nella Facoltà di Scienze politiche. La chiamavamo stanza del CNR, dal finanziatore di una ricerca di allora, il CNR appunto: “La programmazione economica in Italia e le modificazioni in atto nella struttura giuridico-istituzionale” cui afferivano molte borse di studio. Per noi era: indagare sul piano del capitale realizzato dalle sue istituzioni. Questo tavolo lo utilizzavamo per le riunioni di ricerca, quasi quotidiane: attorno ad esso ci si confrontava, ci si interrogava, si parlava, si portavano idee ed esperienze e si usciva arricchiti, ma pronti a verificare tutto quello che si era detto.
Vorrei segnalare la quotidianità del lavoro didattico e scientifico nell’Istituto di Dottrina dello Stato, che era nostra e di Toni, in un periodo in cui i baroni (i cattedratici) praticamente dosavano la loro presenza in Università con il contagocce.
Cito dal libro “Stato e sottosviluppo, Il caso del Mezzogiorno italiano” di Luciano Ferrari Bravo e Alessandro Serafini (1972), edito nella collana “Materiali marxisti” diretta da Toni e da Sergio Bologna, p. 8:
“I due saggi costituiscono il risultato parziale di una ricerca più generale sul tema degli istituti di programmazione in Italia. È ovvio perciò che raccolgano il frutto di discussioni collettive non soltanto tra i due autori ma nell’ambito dell’intero gruppo di ricerca.”
Aggiungo qualche titolo della collana “Materiali marxisti” (pare mandata al rogo da Feltrinelli dopo il 1979):
- Lo schiavo americano dal tramonto all’alba di George Rawick (che venne anche in Istituto da noi, portato da Ferruccio Gambino), 1973;
- Crisi e organizzazione operaia di Sergio Bologna, Paolo Carpignano, e Toni Negri, 1974;
- Imperialismo e classe operaia multinazionale (con introduzione di Luciano Ferrari Bravo), 1975;
- L’altro movimento operaio di Karl Heinz Roth, 1976.
Di Toni ricordo:
- La forma stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione, 1977;
- Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, 1979 (utilissimo per le nostre complicate letture dei Grundrisse);
- Il comunismo e la guerra, pubblicato nel 1980 e dedicato ai compagni del 7 aprile e ai 61 della Fiat, ultimo libro della serie prima del rogo.
Un’altra produzione collettiva dell’epoca:
- Enciclopedia Feltrinelli- Ficher. Scienze Politiche 1 – Stato e politica a cura di Antonio Negri, Feltrinelli, 1970. Tra gli autori Guido Bianchini, Luciano Ferrari Bravo, Nicola Licciardello, Sergio Bologna (e c’ero anch’io).
In conferenze e dibattiti nell’Istituto invitavamo (Toni e Aldo Musacchio, coordinatore della ricerca, invitavano) i maggiori esponenti della politica, dell’economia, del sindacato, oltre a eminenti studiosi. La memoria è labile, ma ricordo tra i sindacalisti: Bruno Trentin della Cgil e Pierre Carniti della Cisl, poi Manuel Cabral (Università di Lisbona) e George Rawick; tra gli imprenditori: Marcello Colitti dell’Eni.
Non mi sono mai chiesta quanto fosse difficile e complesso essere un docente universitario che studia la dottrina dello stato e contemporaneamente ritrovare i parametri della conoscenza con i protagonisti del cambiamento dei rapporti di forza, attivando strutture autonome e nuove. Ma è quello che Toni faceva. Scoprire le mutazioni dei soggetti e la fine di vecchie strutture. Non era una semplice indagine sociologica, ma un’intuizione relativa alle trasformazioni in atto, anche – e soprattutto – delle soggettività operanti per il cambiamento.
Per quanto riguarda la carriera, nel progetto di ricerca del CNR, avevamo delle borse di studio. Io poi, nel novembre del 1968, ho vinto una borsa di studio nazionale biennale per giovani laureati. Toni non era un cattedratico tradizionale. Forse m’avrebbe fatto piacere che qualcuno mi prendesse per mano e mi conducesse verso una brillante carriera in accademia, ma non era questa la pratica dell’Istituto e di Toni. E probabilmente aveva ragione lui. Tutti noi abbiamo lottato con i nostri mezzi per avere una stabilità di lavoro, soprattutto una stabilità di salario. Io con il movimento dei precari, Luciano Ferrari Bravo, Gambino e altri con i docenti subalterni (si chiamavano essi stessi così). E siamo riusciti ad avere una stabilizzazione: per esempio, la figura del ricercatore l’abbiamo inventata Fausto Schiavetto ed io dentro le lotte dei precari.
Nell’Istituto la didattica era associata alla ricerca di base. La sua forma, spesso seminariale, sollecitava produzioni autonome degli studenti, una novità all’epoca. Ricordo un libro coordinato da me frutto di un seminario annuale: Stato e decentramento produttivo (Nuovi Editori, 1975), con Buzzolan e Miglioranza, due studenti-operai del vicentino, della fabbrica Lanerossi.
Formarsi con Toni non era semplice, bisognava studiare molto, metterci dedizione e fatica. Non si era molto aiutati, anche se Toni era sempre molto disponibile a dare chiarimenti: agli inizi, per esempio vi è stata, per noi più giovani, la difficoltà di capire come ri-leggere Marx, noi che a mala pena avevamo letto il Primo libro de Il Capitale. E passare poi a un “marxismo creativo” come lo chiama Toni nell’intervista in Gli operaisti (DeriveApprodi, 2005) era ovviamente ancora più complicato.
Marghera
Non ci si formava solo nella ricerca, molte albe nebbiose ci vedevano, assieme ad altri compagni provenienti dal movimento studentesco, partire per Marghera dopo notti passate a ciclostilare volantini, alla cui stesura avevano partecipato gli operai del Comitato operaio delle fabbriche chimiche o metalmeccaniche di Marghera. E spesso, alla fine dei turni, vi erano le riunioni con gli operai del Comitato, in cui noi più giovani stavano sostanzialmente zitti cercando di seguire lo sviluppo, autonomo dal sindacato, dell’organizzazione delle lotte e dell’elaborazione degli obiettivi. Se in Istituto si studiava il piano del capitale, nell’assemblea autonoma di studiava il modo per farlo fallire, guadagnando sul salario e riducendo il tempo di lavoro.
Chi eravamo? Noi studenti (e poi borsisti) che andavamo a Marghera venivamo dalle manifestazioni contro la guerra nel Vietnam; successivamente, a partire dal ’67, dalle occupazioni delle facoltà universitarie e dalle lotte contro i fascisti (Freda era di Padova, Ventura di Treviso, il gruppo dei fascisti che organizzò Piazza Fontana era padovano, la valigetta per la bomba fu acquistata sempre a Padova, in piazza Duomo). Gli scontri erano duri: ricordo che negli scontri in piazza Capitaniato, Toni fu circondato da questi fascisti (tra loro Massimiliano Facchini, piccolo e feroce) e se la passò male. Riuscì a liberarsi solo durante l’intervento della polizia.
Le nostre giornate diventarono quelle descritte da Luciano Ferrari Bravo ai giudici durante il Processo 7 aprile: «Bisognava alzarsi alle 4 di mattina da Padova andavamo alle fabbriche, tornavamo alle otto in Istituto, poi alle cinque del pomeriggio, dopo aver lavorato tutta la giornata, c’era la riunione. Questo era il nostro lavoro politico». Quando Toni abitava a Venezia, negli anni Sessanta, faceva il tragitto inverso: da Venezia partiva alle 6, si fermava a Marghera, poi arrivava a Padova e alla sera ritornava a Marghera
Spesso andavamo a distribuire volantini all’entrata o all’uscita dalle fabbriche, rimpolpavamo i picchetti operai nei giorni di sciopero. Cercavamo di essere presenti a ogni riunione del Comitato politico di Marghera.
Gli obiettivi delle lotte organizzate dal Comitato erano legati a tematiche egualitarie e alla richiesta di consistenti aumenti salariali immediati per tutti (senza contrattazione differenziata). Lo slogan 5000 lire subito per tutti parte dal Petrolchimico, ma convince molte altre fabbriche della zona. Così si segnala la fine dell’adeguamento giuridico e politico al contratto, a una fantomatica misura del valore incarnato nella merce. Questo sarà un tema che verrà ripreso con forza da Toni nel libro Il lavoro di Giobbe del 1988. Inoltre l’egualitarismo nelle rivendicazioni salariali svolge una funzione politica, costituendo un fronte operaio nelle lotte.
L’8 e 9 giugno 1968 viene organizzato il Convegno nazionale operai- studenti a Venezia (cui partecipano oltre a Toni, Rossanda, Cacciari, Tronti, Asor Rosa). Con Manfredo Massironi andammo a prendere in macchina Daniel Cohn-Bendit a Massa-Carrara (era a un convegno di anarchici). Tra gli obiettivi elaborati nel Convegno si passa dalle 5000 lire subito per tutti del Petrolchimico alle 120.000 lire al mese (obiettivo lanciato da Guido Bianchini) che qualche mese dopo divenne la parola d’ordine degli operai di tutta Italia.
Vi fu un grande sciopero generale il 1° agosto 1968 a Marghera (con una manifestazione, occupazione del cavalcavia e occupazione della stazione ferroviaria di Mestre). La pratica politica dell’autonomia dal sindacato portò all’espulsione nel 1969 dal direttivo provinciale dei Chimici-Cgil di Alfredo Baldan, Augusto Finzi, Italo Sbrogiò e Bruno Massa, i quadri più in vista del Comitato. Ma nello stesso periodo, tra i metalmeccanici della Fiom, Bruno Trentin vede bocciata la sua proposta di aumenti salariali differenziati nella riunione dei rappresentanti sindacali e delle commissioni interne.
Pordenone
Potere Operaio si allarga al territorio, nei settori della metalmeccanica. Il primo comitato politico autonomo dal sindacato si fa alla Rex di Pordenone nel 1970. I comitati erano composti da operai e tecnici di fabbrica, da intellettuali come Paolo Mander (di Pordenone) e Lamberto Barina (di Ceggia). Fu emozionante, a Pordenone, il primo incontro di Toni con Paolo Mander e Romano Toffoletti.
Riuscì anche un tentativo di allargare le forme organizzative impegnando, oltre a Potere operaio, anche il Manifesto, che aveva un forte comitato alla Zoppas di Conegliano. Questo Comitato politico (Rex e Zoppas) del 1971, però non durò a lungo, ma sarebbe stato un bel progetto.
Toni aveva il grande pregio dell’ascolto di chi ci dava gli strumenti per capire nel concreto la struttura dello sfruttamento e la costruzione di forme di lotta vincenti all’interno delle fabbriche. Ma il metodo dell’inchiesta operaia implicava l’essere fisicamente presenti nelle lotte. E Toni era fisicamente presente sia nelle lotte che nei momenti organizzativi, oltre agli incontri e alla partecipazione all’elaborazione delle piattaforme dei vari comitati. Era in prima linea anche nelle fasi più acute: ricordo a Mestre l’occupazione della stazione ferroviaria, con Toni che indossava la sua giacca da professore universitario, ma aveva le tasche rigonfie di sassi – che non gli ho mai visto tirare. Ho già parlato dell’episodio dei fascisti a Padova in piazza Capitaniato.
Un periodo denso di lavoro politico fu la preparazione dell’autunno caldo: iniziò il 3 luglio 1969 a Torino in Corso Traiano, a Mirafiori, giorno in cui una nuova epoca di lotte sociali vide la sua alba. Si diffonde da lì, infatti, il modo di intendere le lotte svuotate dal vertenzialismo, slegate dal sindacato e finalmente realmente autonome. Appare per la prima volta lo slogan Cosa vogliamo? Vogliamo tutto (che diventerà il titolo di un prezioso libro di Nanni Balestrini)
A Marghera, a Pordenone, a Valdagno, nell’Estense non eravamo soli ed eravamo estremamente mobili nel territorio. Per non parlare del sud (ricordo Gela ad esempio per il petrolchimico), con Emilio Vesce e altri compagni veneti che si spostarono dal Nord. In realtà ognuno di noi si muoveva per l’Italia con agio tanto la rete dei compagni era diffusa e forte e questo ci dava una conoscenza profonda dello stato delle lotte nelle fabbriche e nei quartieri.
Essere militante era per noi una cosa complessa, articolata, tra ricerca, pratica politica a tutto tondo, mobilità sul territorio e conoscenza alla fonte delle forme di sfruttamento. Apprendemmo allora come sfuggire all’ideologia partendo dalle proprie personali condizioni materiali.
Posizionamento che portò me e molte compagne di PO al femminismo. Molte compagne di PO passarono a Lotta Femminista con lo slogan del salario al lavoro domestico: obiettivo che ho sempre considerato inadeguato e insufficiente rispetto al mutamento delle trasformazioni sociali e produttive, all’apparire di soggettività sganciate dalla professionalità e dal lavoro, alla richiesta di socializzazione della riproduzione, di responsabilità sociale delle vite individuali. Alla consapevolezza che l’individualizzazione della riproduzione diventava una sconfitta come il salario differenziato.
Oltre all’egualitarismo salariale altre parole d’ordine, frutto di un’analisi intelligente del cambiamento in atto, segnarono quegli anni e quelle lotte e definirono una linea politica originale e vincente.
Il rifiuto del lavoro: derivato dalla scoperta di una classe operaia che si pone contro sé stessa, che mira alla propria dissoluzione, superando l’ideologia lavorista, costruita sulla professionalità e sul legame con il posto di lavoro. La negazione del lavoro dava il senso al rifiuto dello sfruttamento e questo faceva emergere e valorizzare nuove soggettività.
Assieme al rifiuto del lavoro gli operai mettono in crisi il K con la richiesta salariale indipendente e impazzita rispetto al profitto, con la richiesta di servizi, con il rifiuto dell’orario imposto, con le autoriduzioni. Nel territorio: si diffondono le richieste di prezzi minimi e prezzi politici creando una disconnessione tra salario e tempo di lavoro. Un inizio di visione del tempo di vita.
In questo troviamo il passaggio teorico- politico e di lotta che delinea per Toni il cambiamento del soggetto: dall’operaio massa all’operaio sociale (definizioni di Toni).
La riproduzione sociale
A Marghera molti degli operai erano anche contadini (Gianni Mainardi racconta che l’assenteismo maggiore in fabbrica avveniva nei periodi della vendemmia o del taglio del grano). L’identificazione di classe non era quindi metropolitana, come a Milano o Torino, bensì diffusa sul territorio. Gli operai arrivavano alla fabbrica dai paesini di campagna o dal litorale (pescatori di Chioggia) su treni e autobus.
Le lotte sui trasporti cominciarono già negli anni Sessanta. Gli obiettivi erano: far rientrare il tempo di trasporto nel tempo di lavoro; far rientrare le spese di trasporto nel salario. Queste lotte sui trasporti prefiguravano un discorso sulla durata del tempo di lavoro. Nei quartieri, con le famiglie operaie, imponemmo a Marghera il pane a prezzo politico, ci furono lotte per la gratuità dei trasporti urbani, l’autoriduzione delle bollette (gas, elettricità). Al salario e alle condizioni di lavoro in fabbrica si aggiungeva una tematica legata alla riproduzione, coinvolgendo le famiglie e il territorio.
A questo si aggiunge e diventa dominante un discorso sulla salute. Per quanto riguarda la nocività degli ambienti di lavoro, si creò un collegamento con gli studenti di Medicina del lavoro dell’università di Padova, compagni di PO (Gianfranco Pancino tra gli altri). Non solo nelle fabbriche chimiche, ma anche nelle metalmeccaniche (a Marghera come a Pordenone) si aprono lotte contro la nocività dei ritmi (c’erano reparti ancora soggetti al cottimo). E si allarga il concetto di nocività a quella ambientale: i quartieri operai a lato delle fabbriche chimiche facevano vivere in un ambiente nocivo.
Non solo a Marghera, ma anche nella riviera del Brenta (Mira Lanza, e il settore della produzione di calzature, altamente nociva la lavorazione delle pelli) e il vicentino (Lanerossi). E ovviamente la connessione delle varie fabbriche chimiche (Montedison Ferrara ecc.). Rispetto agli obiettivi sindacali, veniva espresso duramente un rifiuto della monetizzazione della nocività.
Con queste lotte si dissolve la retorica dei cosiddetti trent’anni gloriosi (1945-1975). Il punto più alto delle lotte fu l’autunno caldo del 1969, con forme di autorganizzazione operaia un po’ dovunque, fuori dal controllo di sindacati e partiti. La ricerca a Padova definisce il sindacato come istituzione (il processo di istituzionalizzazione del sindacato).
Lo Stato risponde con le bombe e instaura una strategia della tensione – gli opposti estremismi (Piazza Fontana 12 dicembre 1969, Brescia Piazza della Loggia 1974, maggio). Lo Stato interviene con potenza di mezzi, dalla politica delle stragi al terrorismo di destra, alla repressione sistematica continua e violenta di ogni tipo di lotta. A questa si contrappone una consistenza sociale di quadri e di militanza politica che ne permette la riproduzione e che garantisce che il ’68 in Italia, come dice Toni, duri 10 anni. Si moltiplicano i luoghi di riunione collettiva (si inventano i Centri sociali, qualche anno più tardi le radio libere) si allargano i meccanismi di valutazione e di lotta sul salario, dal salario di fabbrica al salario sociale.
Dal Comitato operaio nel 1972 si passa all’Assemblea autonoma, con riconoscimento di soggettività più larghe. Alberto Magnaghi in un’intervista di Gigi Roggero nel 2005 dice che il limite di quell’epoca nel ragionamento sul conflitto di classe come motore dello sviluppo, il rifiuto del lavoro, l’egualitarismo degli aumenti salariali, è che non veniva messo in discussione poi il tipo, la qualità, il modello dello sviluppo futuro. Il discorso diventava puramente riappropriativo e redistributivo della ricchezza tra le classi.
C’era una difficoltà oggettiva a pensare alla figura dell’operaio dell’epoca, espropriato di professionalità – sapere tecnico – espropriato dei campi o dell’orto, ridotto a pura forza-lavoro astratta, come soggetto di un altro sviluppo.
Aveva ragione Guido Bianchini quando già allora teorizzava gli studenti come nuova forza lavoro e l’Università come nuova fabbrica di produzione di beni immateriali, delineando nuove soggettività foriere di cambiamento. Penso anche ai contributi di Romano Alquati sulla scuola.
Il partito, l’entrismo, l’organizzazione
Massimo Cacciari e i compagni veneziani, con la rottura del 69-70 decisero il “dentro e contro”. Dentro e contro il Partito Comunista per cambiarlo. Ma, secondo Toni, il discorso classe-partito era fissato, immobilizzato dalla definizione del partito come Partito comunista italiano. E questo non permetteva spazi di comprensione della modificazione – data dalle lotte – della nuova soggettività operaia.
Per Toni non è il programma che configura il movimento, ma è il movimento che configura il programma. Nella misura in cui si intellettualizza, la forza lavoro si riappropria della capacità di direzione e ne costruisce gli strumenti operativi.
Ma a tutt’oggi, secondo me, l’autonomia della classe operaia dal sindacato e dal partito non basta e il discorso sull’organizzazione deve ancora essere fatto. Su questo si sciolse PO nel 1973 a Rosolina. A Padova l’Istituto resta con Toni e l’Assemblea autonoma, mentre una buona parte del movimento continua come PO, utilizzando la forma organizzativa dei collettivi territoriali, che daranno poi origine all’autonomia, ma con un’iniziale struttura di tipo leninista che non era nelle mie corde.
Riconoscere questo ci porta a riconoscere il marxismo creativo di Toni: a quei tempi l’analisi di fabbrica si collegò all’analisi sociale e viceversa e così riuscì a riconquistare un discorso economico generale. C’è stato un momento in cui i movimenti nella società – scuola ed altro – e gli operai di fabbrica si sono incontrati, definendo un soggetto comune: l’operaio sociale.
Lauso Zagato in Gli operaisti precisa: «E a mio parere non si è più verificato che un luogo di produzione fisica di merci fosse un punto così nodale rispetto al contesto sociale.»
Il mio ricordo, oggi, è che tutto ciò avveniva: pensiero, progettazione, analisi. E di tutto questo dobbiamo molto a Toni che ci arrivò troppo presto. Solo il futuro, come diceva Guido Bianchini, ci avrebbe dato ragione.
Testo dell’intervento di Alisa Del Re al Convegno “Antonio Negri (1933-2023). Sulle tracce di un pensiero a venire”, 16 dicembre 2024, Università degli Studi di Bologna
NOTE
[1] Queste note, legate al mio ricordo personale del periodo sono ovviamente lacunose sia a causa della mia memoria sempre più debole, sia per la mia collocazione territoriale parziale rispetto ai movimenti di quegli anni. Per avere riferimenti più precisi, ecco alcuni titoli: Marco Scavino, Potere operaio. La storia. La teoria. Vol.1, DeriveApprodi 2018; Devi Sacchetto, Gianni Sbrogiò (a cura di), Quando il potere è operaio, Manifestolibri, 2009; Marie Thirion, Organiser le pouvoir ouvrier. Le laboratoire opéraiste de la Vénétie (1960-1973), Agone, 2023; Mimmo Sersante (a cura di) Giacomo e Piero Despali, Gli autonomi. Storia dei collettivi politici veneti per il potere operaio, DeriveApprodi, 2019; Guido Borio, Francesca Pozzi, Gigi Roggero (a cura di) Gli operaisti, DeriveApprodi, 2005; Luciano Ferrari Bravo, Dal fordismo alla globalizzazione. Cristalli di tempo politico, Manifestolibri, 2001; Giovanni Giovannelli, Gianni Sbrogiò (a cura di) Guido Bianchini. Ritratto di un maestro dell’operaismo, DeriveApprodi, 2021
Molto bella la ricostruzione di Lisi, Alisa Del Re; personalmente ricordo uno dei seminari padovani organizzato da Toni e Musacchio con l’intervento di Vincenzo Scotti. Giusto mettere al centro Torino, la Fiat, il 7 luglio 69 e Corso Traiano. Lì nasce Potere Operaio. [Rileggere Sergio Bologna “da La Classe a Potere Operaio”, editoriale del primo numero di P.O.]. Spiace un po’ rilevare l’assenza di riferimenti al ruolo ed al contributo che venne dal folto gruppo romano. Limite di cui, cosa che in una cena romana a San Lorenzo rilevammo con Franco Piperno, porta il segno anche il libro di Marco Scavino. A volta sembra che P.O. lo abbia costituito Massimo Cacciari. Peraltro credo che il secondo volume di quell’opera non vedrà mai la tipografia.