La seconda parte dell’introduzione al volume Ecologia. Teoria, natura, politica (EK, 2018) ci porta nuovamente a temi recentemente dibattuti su Effimera, quali la questione animale e vegetale in relazione all’ecologia e al post- o trans-umano. Qui la prima parte.
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1: L’animale
Uno dei temi, ad esempio, che sembra divenire giorno dopo giorno più attuale, è quello dell’animale. L’animale pensa? L’animale ha dei diritti diversi o uguali a quelli dell’uomo che da secoli lo alleva, lo uccide, lo mangia, lo manipola, lo rappresenta? Su quali basi filosofiche stabilire (o, viceversa, annullare) una differenza tra l’animale e l’essere-umano? Quella dell’animale è una declinazione rilevante del tema ecologico, in cui esemplarmente le relazioni complesse tra tecnica e vita, tra potenza trasformativa e ambiente, vengono rimesse in gioco. Ma, di nuovo, come pensare l’animale: come alterità interna, oppure come “il fuori” dell’umano, cioè come fondo inattingibile dell’umano a esso esterno? È una domanda sui confini e sugli sconfinamenti. Una domanda sull’altro come sede invisibile del proprio e della proprietà. Prendiamo ancora a prestito la riflessione di Derrida, che in Quale domani? La “questione dell’animalità” non è una questione fra le altre, sia ben chiaro. Se la ritengo decisiva […] è perché, già difficile ed enigmatica di per se stessa, rappresenta al tempo stesso il limite su cui sorgono e prendono forma tutte le altre grandi questioni e tutti i concetti destinati a costruire il catalogo della “specificità umana”: l’essenza e il futuro dell’umanità, l’etica, la politica, il diritto, i “diritti dell’uomo”, i “crimini contro l’umanità”, il “genocidio” ecc. Laddove qualcosa come “l’animale” viene nominato, i pregiudizi più gravi, più persistenti, e anche più ingenui e più interessati la fanno da padrone in quella che si suole chiamare “la cultura umana” – e non solo occidentale – e comunque all’interno del discorso filosofico predominante da secoli.[2] Il tema dell’animale è uno dei vettori principali per sollecitare dall’interno il cartesianesimo che, nonostante tutto, ancora sopravvive nel sottotesto di molte riflessioni filosofiche attuali. E che comporta, in ultima analisi, l’adozione implicita di uno sguardo obbiettivante sul mondo naturale. Non “io sono una cosa che pensa”, bensì “io sono un animale che pensa”: come noto, in L’animal que donc je suis[3] Derrida gioca con la difficoltà di collocazione del soggetto rispetto all’oggetto-animato, con la indecidibilità dello spazio in cui si forma l’“io sono” rispetto allo spazio prelogico e corporeo dell’animale. Quell’animale che è elemento naturale, non culturalizzabile, che pure mi abita, mi precede, e che tuttavia io seguo (come nel francese je suis, che è tanto io sono quanto io seguo): io sono l’animale, ma al contempo lo inseguo, involontariamente, passivamente mosso da un desiderio e da una bêtise costitutiva, che si mostra quale dimensione più propria del mio essere-umano. «L’animale è lì prima di me, è lì presso di me, lì davanti a me – che lo seguo/sono dopo di lui. E dunque, essendo prima di me, eccolo dietro di me»[4]. L’animale è, in qualche modo, il mio campo vitale più proprio, è sede di una relazione olistica nel senso che l’animale «mi circonda (il m’entoure)»[5]. L’animale “in me” telecomanda le mie mosse, i miei pensieri, la mia razionalità pratica così come, in ultima analisi, quella di tipo scientifico o teorico, proprio in quella sua tipica capacità di lasciare tracce di sé, «capacità di tracciarsi»[6] e di «ritracciarsi da sé un cammino»[7]. Tra la cultura (il segno) e il bios (la mancanza di senso), esiste una relazione produttiva che filtra attraverso l’organismo in quanto corpo, assimilabile a una sorta di animalità autobiografica o di autobiograficità animale, se è vero che, stando a Derrida, «l’autobiografia [è] la scrittura che il vivente fa di se stesso, la traccia propria del vivente».[8] Ma bisogna intendersi: tutto ciò non deve restare lettera morta, parola priva di risonanza, chiusa nella stanza asfittica della retorica filosofica dell’analisi. La conseguenza di questa impostazione che mette al centro un nuovo paradosso – quello, appunto, che si traduce nel non sapere quale sia la nostra posizione rispetto all’animale e, per estensione, alla physis– per Derrida appare molto chiara negli intenti: «i rapporti fra uomini e animali dovranno cambiare. E dovranno farlo nella duplice accezione di questo termine, nel senso di una necessità “ontologica” e di un dovere “etico”»[9]. Per esempio, «in qualunque modo la si definisca, la violenza inflitta agli animali non mancherà di produrre ripercussioni profonde – consce o inconsce – sull’immagine che l’uomo si fa di se stesso»[10]. La trasformazione dei rapporti tra gli uomini e gli animali, corrisponde anche a una modificazione profonda degli schemi motori intellettuali, cioè degli automatismi di pensiero e di azione, del nostro autos, in fondo, che ci permettono o interdicono determinati gesti di pensiero. Lo stesso concetto di “uomo” o di “soggetto umano” che si delinea in epoca moderna, risulta debitore da una tradizione cartesiana di esclusione dell’animale dall’umano, cioè del naturale animato, di una certa psiche prerazionale, dalla soggettività linguistica: «la teoria cartesiana presume che il linguaggio animale costituisca un sistema di segni sprovvisti del carattere di risposta: ovvero che questi segni siano delle reazioni ma non delle risposte»[11]. Detto altrimenti: occorre decostruire, prima di ogni altro tentativo di pensiero ecologico, l’idea ingenua dell’animale come ente capace solo di automatismi stimolo-risposta (per quanto molto complessificati), e tentare di comprendere cosa accadrebbe se pensassimo, al contrario, l’animale come campo di ambiguità biologica in cui è possibile uno sconfinamento nell’umano, cioè il superamento del margine implicito e storicamente determinato (“materiale”) tra natura e cultura, tra espressione a-simbolica e espressione linguistica. Certamente, noi non sappiamo come procedere in questa direzione: secoli di pattern mental-culturali ci precludono, in questo momento, la visione chiara del percorso. Ma è questo non sapere, nella sua specificità, ciò che marca l’urgenza del problema e caratterizza quanto designavamo come “emergenza ecologica”, facendone il nuovo motore di un pensiero della reversibilità: nell’animale esiste la forma larvale del comportamento umano; nell’umano resiste, all’interno della struttura razionale, un momento di passività animale profonda, irriducibile a qualsiasi sintesi. Il problema ecologico diviene quindi il problema degli automatismi, di come i nostri comportamenti, anche quelli più organizzati, rimangano strutturalmente in relazione a qualche cosa di reattivo. La reazione a uno stimolo, nel senso dello schema pavloviano che, in quanto organismi, evidentemente sempre e continuamente superiamo, ma che sullo sfondo del nostro essere permane in quanto dimensione pre-animale, biologica e fisio-meccanica. Naturalmente non è mai chiaro dove inizia e dove finisce il corpo umano, e dove finisce e dove rincomincia, per così dire, “in esso”, la corporeità animale, il Leib che si alimenta dal terreno pretetico, dal regno dell’involontario. Rarefazione di chiarezza che, tuttavia, non è solo un negativo: essa andrà posta alla base di qualsiasi discorso realmente eco-etologico. Proviamo, in questo senso, a immaginare tale margine non come un confine, il Grenze hegeliano, ma come una zona di soglia, dotata di estensione, di spessore fisico-vitale, come la Scwhelle benjaminiana, ad esempio, in cui prendevano corpo le nuove Lebensformen dei modi di vita contemporanei. L’atto stesso di immaginare tale zona di scambio tra animalità tra loro differenti come un nuovo centro, contiene in sé qualcosa di rivoluzionario, qualcosa che costringe probabilmente la filosofia a interrogarsi su se stessa, e sul modo di porre la domanda sullo “specifico umano” che la attraversa da sempre. E non è neppure da dare per assodato che il concetto di limite sia assumibile, a sua volta, in modo semplice: se mi disturba l’idea di un confine fra due ambiti omogenei, da un lato l’uomo e dall’altro l’animale, non è perché pretenda, ingenuamente, che non esista più alcun confine tra l’uomo e l’animale, ma è perché ritengo che esista invece più di un limite, che esistano molti limiti. Non c’è una opposizione fra l’umano e il non-umano. Esistono invece numerose fratture, eterogeneità e meccanismi differenziali fra diverse strutture di organizzazione della vita.[12] 2: Plant turn Quella dell’animale è fra le declinazioni del tema ecologico più radicali e problematiche. Tuttavia, ci si potrebbe spingere ancora più lontano, scavalcando per certi versi l’intera struttura formale e la pregnanza storica dei discorsi sin qui riportati, aprendo al campo di un’altra domanda: perché arrestarsi al livello animale, e non scendere sino al livello del vegetale? Non sono tematiche esplicitamente affrontate in questo volume, ma costituiscono uno sfondo probabile di discussione futura, forse prossima. Il Nature Turn che caratterizza la filosofia recente (rimpiazzando per certi versi il Linguistic Turn dei decenni precedenti) si apre sul terreno della cosiddetta Plant Turn[13] o di una sorta di Critical Plant Studies[14]. Ci si potrebbe domandare: sulla base di quali presupposti si accettano verso le piante atteggiamenti e pratiche che verso gli animali ci sembrano inaccettabili, a partire dall’alimentazione, dal vegetarianesimo nelle molte forme che si affermano oggigiorno, e dalla “coltivazione” intensivo-industriale? Alternativamente: le piante pensano? Vale a dire: dove si situa, esattamente, la linea di confine tra un pensiero vegetale e un pensiero animale? Non potrebbe essere di qualche utilità ragionare sulla soglia porosa tra questi due ambiti? Che cos’è l’ecologia della mente, in definitiva, se non questa capacità della corporeità vivente di abitare le soglie, di innestare relazioni, tra l’animale e l’altro (dove l’altro può essere, ad esempio, “il vegetale”)? Numerosi studi nelle scienze biologiche[15] tendono a confermare la presenza di una memoria vegetale associata a una rudimentale ma definita capacità di elaborazione di comunicazione (tra l’altro, spesso di tipo sociale o di gruppo), così come alcuni saggi di impianto filosofico-critico, come quello di Emanuele Coccia, La vie des plantes. Une métaphysique du mélange[16]. Il problema, come sempre in questi casi, è nel rischio di cripto-zoocentrismo e, al di sotto, di antropomorfizzazione, sia nel lessico che in semplici ricerche automatiche di nostre affinità con alcune forme del vegetale. Su tutte, spicca quella dell’albero, che sin dal test di Koch[17] esibisce un eccesso di idealismo, implicitamente proiettivo. La forma albero non esaurisce, cioè, il discorso sul (e nel) vegetale: non si tratta di ripartire dal concetto di albero, come anche in alcuni best-seller recenti, fra cui La vita segreta degli alberi[18] di Peter Wohlleben, ma da qualche cosa di più diffuso, ambiguo, stabilmente nella soglia, per così dire, della stessa forma che assume storicamente: una certa qualità vegetale della vita che ci precede, che noi inseguiamo forse, che ci circonda ma anche anche noi cerchiamo. Esattamente, mi pare, la stessa modalità dell’inseguimento-essenza individuato da Derrida per il nostro rapporto con l’animalità. Le tracce sono molte, da un recente monografico della rivista Critique, Révolution végétale[19], a monografie quali Plant-Thinking. A Philosophy of Vegetal Life[20] di Michael Marder, spaziando anche per la saggistica, come l’ultimo libro di Oliver Sachs, Il fiume della coscienza, in cui troviamo in apertura una riflessione su Darwin e il significato dei fiorio sulla Senzienza. La vita mentale delle piante e dei vermi[21]. Non si sta qui affermando che l’attenzione al vegetale e al nostro rapporto con questa dimensione del bios, sia una totale novità nella storia della filosofia. Si tratta di riprendere e casomai rimaneggiare alcune premesse, come quelle del rizoma di Deleuze, in cui la struttura del vivente va a colonizzare la struttura stessa del pensiero. Il rizoma aprirebbe (il condizionale è d’obbligo) a una forma di filosofia come ecologia dell’immanenza, dove il pensiero si connota come pura affermatività, senza negativo: una sorta di vitalismo teoretico. Oppure, ed è cosa ben differente, si tratterebbe forse di rilanciare il pensiero di Merleau-Ponty sulla passività in aderenza al concetto di natura, un pensiero cioè maggiormente orientato alla complessità e alle interazioni continue e reversibili, chiasmatiche, tra un positivo e un negativo. Si prendano le prime pagine del corso del 1956-57 sulla natura, in cui il termine physis, nel suo senso greco, viene concepito come derivazione da un elemento vegetale: in greco, la parola “natura” deriva dal verbo φύω, che allude a ciò che è vegetale; il termine latino deriva da nascor, nascere, vivere; deriva dunque dal primo senso, più fondamentale. C’è natura ovunque ci sia una vita che ha un senso, ma in cui, tuttavia, non c’è pensiero; di qui la parentela con ciò che è vegetale: natura è ciò che ha un senso, senza che questo senso sia stato posto dal pensiero. È l’autoproduzione di un senso.[22] Certo anche altri riferimenti sono egualmente percorribili, come quelli tratti dal mondo tedesco, da alcuni aspetti dell’ambientalità presenti in von Uexkülle, marciando a ritroso, sino al romanticismo, nell’ipotesi morfogenetica in Goethe – autore in effetti citato da Iofrida in apertura – ma, anche in questo caso, come nei precedenti, avendo ben chiaro che non è più questione di un modello panteistico-vitalistico, da riproporre in modo acritico, bensì della costruzione più complessa, di secondo livello, in grado di rendere ragione delle nuove urgenze nel rapporto natura e tecnica, senza indugiare sui miraggi di un ritorno all’incontaminato. In definitiva: un pensiero ecologico degno di questo nome, può permettersi di derubricare la questione del vegetale? E perché poi, a questo punto, fermarsi al livello vegetale? Cosa vieta, dal punto di vista filosofico, di spingere il discorso ecologico ancora più lontano, considerando come limite del dominio (umano) non solo l’animale, non solo il vegetale, ma ancora più abissalmente l’inorganico, da cui fisicamente e evoluzionisticamente vegetale e animale derivano? Che ne sarebbe, cioè, dell’ecologia qualora si confrontasse con i problemi della relazione tra il vivente e il mondo minerale, ponendo la questione dell’origine della vita dal “mero meccanico” come fulcro di successive ontologie relazionali? [1]Cfr. J. Derrida, E. Roudinesco, Quale domani?, Bollati Boringhieri, Torino 2004. [2]J. Derrida, E. Roudinesco, Quale domani?, cit., p. 93. [3]Cfr. J. Derrida, L’animale che dunque sono, Jaca book, Milano 2006. [4]Ivi, p. 47. [5]Ibid. [6]Ivi, p. 91. [7]Ibid. [8]Ivi, p. 88. [9]J. Derrida, Quale domani?, cit., p. 95. [10]Ibid. [11]Ibid. [12]Ivi, pp. 97-98. [13]Si veda, per una prima ricostruzione, la nota di lettura di G. Pezzano, a E. Coccia, La vie des plantes. Une métaphysique du mélange, “Philosophy Kitchen”, (on-line) gennaio 2018. [14]Cfr. H. Starks, Deleuze and Critical Plant Studies, in J. Roffe, H. Stark (eds), Deleuze and the Non/Human, Palgrave Macmillan, London 2015, pp. 180-188. Cfr. anche l’importante studio di M. Marder, Plant-Thinking. A Philosophy of Vegetal Life, Columbia University Press, New York 2013. Più specificamente sulla decostruzione critica del limite vegetal-antropologico, cfr. M. Hall, Plants as Persons. A Philosophical Botany, SUNY Press, Albany 2011 e E. Kohn, How Forests Think. Toward an Anthropology Beyond the Human, California University Press, Berkeley, Los Angeles & London 2013. [15]Cfr. gli studi, anche in Italia, di Stefano Mancuso, direttore del “Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale”, e autore di numerose pubblicazioni sul tema. Cfr. F. Baluska, S. Mancuso, D. Volkmann (eds.) Plant Communication – neural aspects of plant life, Springler, New York2006, oltre al recente S. Mancuso, Plant revolution, Giunti, Firenze 2017. [16]E. Coccia, La vie des plantes. Une métaphysique du mélange, Payot & Rivages, Paris 2016. [17]Il test di Koch, altrimenti detto “test proiettivo dell’albero”, consiste in un test psicologico basato sull’inferenza delle caratteristiche della personalità del soggetto sulla base della risposta alla semplice richiesta di disegnare un albero su un foglio di carta. Sulla scorta di intuizioni già presenti in Jung (oltre che, da secoli, nelle arti e nella letteratura) verso la metà del Novecento diversi psicologi hanno elaborato una metodologia per la comprensione sintetica del quadro di personalità sulla base della risposta alla domanda: “disegna un albero a piacere, senza pensarci”. Cfr. K. Koch, Il reattivo dell’albero, Giunti, Firenze 1993. [18]Cfr. P. Wohlleben,La vita segreta degli alberi, Macro Edizioni, Diegaro di Cesena (FC) 2016. [19]Cfr. AA.VV., Révolution végétale, “Critique”, n. 850, Minuit, Paris 2018. [20]Cfr. M. Marder, Plant-Thinking. A Philosophy of Vegetal Life, Columbia University Press, New York 2013. [21]Cfr. O. Sacks, Il fiume della coscienza, Adelphi, Milano 2018, pp. 18-32 e pp. 61-74. [22]M. Merleau-Ponty, La natura, Cortina, Milano 2006, p. 4. Immagine di copertina: Paolo Veronese, Apollo e Dafne.Note