Un’Ambigua Utopia

Lunedì 6 luglio alla Cascina Torchiera di Milano verrà presentato il numero unico, idealmente il decimo dopo i precedenti nove usciti tra il 1977 e il 1982, di Un’Ambigua Utopia, rivista di cultura fantastica. Il posto è anche sede dell’archivio della vecchia rivista che prende il nome di Bibliotork Interzona Caronia in omaggio a Antonio Caronia che, prima della sua prematura scomparsa, lo donò ai giovani compagni che occupavano il centro. La nuova rivista, che è un evento unico, forse irripetibile, ad opera di un collettivo sempre di giovani compagni (eccezion fatta del sottoscritto, reduce del vecchio collettivo, testimone modesto) con la parte centrale dedicata al tema della “Fine dell’uomo”. Ideale continuazione del dibattito, sullo stesso tema, svoltosi l’anno scorso al Centro Sociale Piano Terra, è un dossier in cui si pongono 7 domande ai precedenti relatori: Roberto Paura, Emanuele Leonardi, Domenico Gallo, Giorgio Griziotti, a cui si sono aggiunti Maura Benegiamo, Alice Dal Gobbo e Salvo Torre. Le risposte aprono a un ventaglio di prospettive, molto diversificate tra loro, creando una sorta di terreno fertile in cui poter riflettere sul come dare un significato diverso (dal consueto stigma apocalittico) alla parola fine. Racconti inediti, un fotoromanzo, ricette gastronomiche per digerire ogni possibile fine, il cinema di Herzog, un’impudica classifica che distingue tra i libri di fantascienza quelli belli e quelli politici, un ricordo di Primo Moroni da parte di Bruna Miorelli e tanto altro ancora… in questa sfida alle difficoltà imposte dalla pandemia in corso firmata da Abo, Gaia, Giorgio, Angeles, Giuliano, Ufo. Il tutto, ovviamente, sotto la supervisione di Antonio Caronia.

Fare fantascienza

La fantascienza è stata la rappresentante per eccellenza dell’immaginario novecentesco anche se, parimenti, (e con grande scorno dei suoi cultori) è stata considerata dalla stragrande maggioranza di chi faceva cultura o scienza (per stare entro quella faglia divisoria comunemente accreditata nel secolo scorso) come un derivato sporco e di infima qualità di quei temi fantastici, di ben altro livello, che hanno attraversato i mondi letterari del passato. Da qui anche il tentativo puerile nel variegato mondo della fantascienza, composto da chi la fa (autori, editori, critici, ecc.) e da chi la sostiene (il Fandom, ovvero quegli appassionati cultori del genere che si ritrovano nei convegni nazionali e internazionali), di dotare il genere di una sorta di pedigree nobile. Un albero genealogico ad hoc che arruoli antenati di lustro partendo dai classici  della protofantascienza come Jules Verne, H. G. Welles, Mary Shelley, scendendo giù fino alle avventure del Barone di Münchhausen, all’Ariosto e giù ancora fino a Luciano di Samosata. Il tutto, se mai, sotto il cappello accademico di una teoria come quella del “Novum” di Darko Suvin (1).

In realtà in questi e in altri tentativi, più o meno leciti, di dare alla fantascienza uno statuto di letteratura “nobile”, vengono negate proprio quelle caratteristiche a lei più peculiari. La fantascienza, in quanto tale,  nasce negli anni ’20 nei pulp magazines americani. È del 1926 la prima rivista ufficiale di scientifiction (poi, da lì a poco, science-fiction) Amazing Stories ad opera di Hugo Gernsback (2) e da questa un proliferare di riviste simili a poco prezzo e a larga diffusione tra le masse popolari, con storie che univano la scienza e la tecnica (Gernsback era originariamente un elettrotecnico) con la fantasia e l’immaginazione più sfrenata, ma che doveva sempre, obbligatoriamente, contenere una sua logica interna. Cioè non erano ammesse storie di pura fantasia, magia, irrazionali, in cui gli eventi straordinari non avessero una spiegazione in una realtà che, per quanto altra, non comprendesse una serie di leggi e regole dentro un sistema di coerenza propria. Il tutto infarcito di donnine semisvestite inseguite da mostri orripilanti o robot freddi e glaciali insieme all’esibizione di esistenze umane mediocri  messe alla prova  da cataclismi cosmici.

Questo genere dai natali sporchi, ma con una propria normatività  interna, suscettibile di un costante rinnovamento (ma sempre entro una corrispondenza con le vecchie norme completamente, o solo in parte, decadute) si esaurisce, idealmente, negli anni ’80 (3) con il cyberpunk e il loro “no future” e con l’opera iconoclasta del suo maggior autore Philip K. Dick (4). Di fatto si compie qui il suo travaso nella realtà quotidiana di tutti gli esseri umani in qualunque parte del globo. Questo sottogenere letterario ad uso di una minoranza di scrittori e lettori mediamente considerati “ignoranti”, se non proprio minorati, ha saputo veicolare e diffondere a macchia d’olio i suoi temi (gli incubi, le paure, le speranze e le angosce della modernità) oltre che con la narrativa, tramite il cinema, il fumetto, la tv, la pubblicità, giochi e giocattoli financo a un’invasione massiccia nelle parole del vivere quotidiano. Questo rende oggi, di fatto, assai difficile pretendere di scrivere fantascienza, come qualcosa di altro dalla realtà corrente. Fantascienza è ciò che viviamo e che muta costantemente con il nostro stesso mutare, in un’influenza reciproca. (5) In definitiva la fantascienza, quella fantascienza, ha esaurito le motivazioni che la tenevano in vita e che, sostanzialmente, erano quelle di accompagnare quella fine dell’uomo che Foucault aveva descritto nella sua opera più discussa, vero e proprio best seller da spiaggia, Le parole e le cose e che già Nietzsche annunciava dietro il paravento della scontata morte di Dio. La fantascienza ha macinato tutti i possibili del progresso umano, tutte le meraviglie del possibile (6) nel suo percorso di maturazione fino all’inevitabile putrefazione. Tutte le distopie nelle agognate utopie.

All’interno di questa avventura culturale si è combattuta una battaglia tra diverse e opposte concezioni dell’idea di progresso, financo a schieramenti di opposte tendenze politiche. Ne testimonia l’elenco, che fece scalpore, di due liste contrapposte tra scrittori che sostenevano o avversavano la guerra in Viet-Nam (7) o l’esistenza di vere e proprie correnti di sinistra all’interno del fandom americano (8). E, ovviamente, anche in Italia negli anni ’70 queste fratture diverranno possibili: la rivista Robot, diretta da uno scrittore dichiaratamente di sinistra, Vittorio Curtoni, nel 1977 farà scandalo pubblicando un articolo (per altro assai tiepido) sulla politica nella SF. (9) E il ‘77 sarà anche l’anno della nascita della rivista Un’Ambigua Utopia, ad opera di un gruppo di compagni dell’extrasinistra (fondamentalmente cani sciolti) che sopravviverà fino al 1982. La storia di questa rivista e del suo collettivo è documentata in numerosi articoli accessibili nel web. (10) Questa esperienza non ha avuto particolare riscontro nel mondo ufficiale della SF (in particolare quello del Fandom) ma al contrario ha avuto un grosso seguito nei media ufficiali del tempo (11) e, ovviamente, nel movimento. Di quest’ultimo, ovviamente, ha seguito le sorti, esaurendo la propria carica vitale in quegli anni bui di restaurazione che sono stati gli anni ottanta.

Ed è così che oggi, inseguendo quell’andamento carsico, tipico di tutti i movimenti, riaffiora non solo la rivista di Un’Ambigua Utopia, ma l’esigenza stessa di una fantascienza, in quanto pratica di un immaginario che urge ricostituirsi come creatore di parole nuove, o risignificazione di parole vecchie, per provare a cambiare l’ordine esistente delle cose. Perché è certo che in questa crisi a cui abbiamo dato il nome di Antropocene o Capitalocene, o come dir si voglia, e che porta a fondamentali trasformazioni, “a finire non saranno le strutture di potere che ci hanno portati qui; quelle probabilmente terranno, e cercheranno di farsi più forti”. Ciò di cui noi, che vogliamo definirci antagonisti se non addirittura rivoluzionari, abbiamo l’assoluta necessità è di “cercare di sovvertire questi sistemi, e allo stesso tempo cambiare le storie che ci raccontiamo sul posto che l’umanità occupa nel mondo. Dobbiamo trovare dei nomi per quello che stiamo vivendo, non per ridurre l’esperienza a un momento preciso da cui possiamo distaccarci, ma per riconoscere questa trasformazione nel momento in cui avviene – perché se non lo facciamo il potere le assegnerà un nome al posto nostro.” (12) È in questo senso che la fantascienza auspicata da Donna Haraway assume il suo più denso significato e riempie di senso le altrimenti facilmente depotenziabili parole d’ordine come “diventare cyborg” o “mostri” o “compost”.

Non si tratta di trovare un altro sogno utopico ma di costituire una pratica ossimorica dell’utopia. Che di parole e sogni vecchi come le utopie non possiamo certo privarci in modo pacifico e indolore. Ma la fantascienza che mondeggia e storieggia immaginata dalla Haraway che include quel vecchio genere tanto superato quanto ricco di immaginario (13), insieme al femminismo speculativo(14), alla “fabula speculativa e fatto scientifico, ed evoca un grande gioco della matassa “ (15). Ma cerchiamo di vederne il significato in un esempio di stringente attualità. Sulla scia della sempre più evidente crisi ambientale ad essere messo sotto la lente della critica è una delle più consolidate visioni del mondo che noi (chi più chi meno) abbiamo considerato solida, scontata e universale: la divisione tra natura e cultura. E oggi scopriamo che è invece un’invenzione recente, risalente al XVII secolo (pur avendo radici lontane) e caratteristica del nostro solo mondo occidentale (16). È una presa di coscienza vertiginosa e destabilizzante ma, all’atto pratico, ci dice che se non possiamo più darci il compito di difendere la natura in quanto siamo la natura (17), per contro, questo ci fa intravedere una via, per quanto utopica, di soluzione del problema nel ritrovare un’unità, ricercando e rinsaldando quel punto in cui quella frattura si è andata a produrre. È così allora che, per quanto drammatica, la situazione attuale potrebbe smentire l’infausta profezia che sarebbe più facile vedere la fine del mondo che la fine del capitalismo. Se per non essere sopraffatti nell’era del Capitalocene dobbiamo sciogliere la dicotomia devastante (che ci fa avere un ruolo di rapina nei confronti della natura e cioè di noi stessi) allora, per quanto difficile, possiamo ancora appellarci a un principio speranza e sapere cosa, e per cosa, lottare. Ma, ahinoi, inevitabilmente c’è poi chi ci mostra, e a ragione, che il potere se ne strafrega di un’eventuale abolizione del dualismo natura e cultura “ed anzi ne gode”.

Paolo Missiroli, parlando del pensiero di Achille Mbembe (18) ci ricorda che “Oggi la catena del valore si fonda, ontologicamente, su un monismo fondamentale: senza questo monismo, è del tutto evidente, non potrebbe esserci biolavoro. Il biolavoro è precisamente l’idea che tra umanità e la materia (concepita sempre attraverso le lenti moderne, che la relegano a mero oggetto) non vi sia alcuna distinzione. Mbembe chiama questo monismo “animismo” quando esso si manifesta con l’idea secondo cui il reale sarebbe una serie di reti ‘virtuali’, completamente dominabile attraverso l’algoritmo dei big data. Il reale come generazione ininterrotta di ogni sorta di flussi.” Come si può allora maneggiare argomenti così bollenti senza far sì che le nostre armi (di pensiero, di critica, analisi, provocazione ecc.) diventino armi del nemico? Era così bello immaginare un ritorno all’armonia sotto l’egida di una rinnovata e splendente utopia. Ma se guardiamo con occhi nuovi il vecchio genere fantascientifico vi possiamo ancora scoprire tutta la lotta, strenua, tra una concezione dualista e una monista del rapporto natura-cultura. Madre natura si è consumata fino a quasi esaurirsi del tutto in quella manciata di decenni che ha visto il secolo dei lumi finire ad Auschwitz e Hiroshima.

La macchina del progresso si è inceppata e il futuro è finito. È da lì che abbiamo capito, anche se difficilmente lo ammetteremmo a livello conscio, che quella conquista della Ragione, come sostenuto apertamente dal filosofo matematico Alfred N. Whitehead è stata piuttosto una rivolta antiintellettualistica che “significava il ritorno alla contemplazione dei fatti materiali e si basava su un rifiuto della razionalità inflessibile del pensiero medioevale” (19) La tanto discussa crisi della ragione, nel bene e nel male, era insita nel suo stesso atto fondativo. Nel concludersi di questo ciclo breve, ma enorme, per le sue conseguenze sia positive che negative per la realtà, ci ritroviamo oggi in un nuovo mondo, appunto per tornare Mbembe, da colonizzare da capo. Sempre che le strutture materiali e concrete lo sorreggano ancora e che non collassi su se stesso. Fare fantascienza come la intende allora la Haraway, ma forse anche Mbembe, e molto modestamente tutti quei compagni, attivisti che fanno o spulciano archivi di SF, ripristinano vecchie riviste come Un’Ambigua Utopia dedicandola alla fine (?) dell’uomo, e altre ambigue iniziative a venire, vuol dire “stare a contatto con il problema”, tenerlo aperto, non cercare una facile soluzione, utopica o meno che sia. Necessariamente correre dei rischi che stanno nell’affrontare dei problemi senza volerne ad ogni costo imporre la soluzione, quella giusta, quella nostra; perché questo non è possibile in un mondo, come quello che la SF ci ha fatto vedere (quello in cui viviamo realmente), in cui dobbiamo imparare a coesistere tra umani e non umani, tutti diversi fra loro. Alieni l’un l’altro, ma coabitanti per forza di cose, in uno spirito il più possibile cosmopolitico (20).

 

NOTE

(1)  Sulle teorizzazioni del genere Antonio Caronia, La fantascienza come genere letterario

(2) Hugo verranno denominati i premi per i migliori romanzi di SF.

(3) Ricalcando così la durata di quel “secolo breve” teorizzato da Hobsbawm.

(4) Sulla discussa tesi della morte della SF:  Antonio Caronia  La fantascienza è morta, viva la fs?, in Hamelin n. 22, marzo,  ma anche l’introduzione alla ristampa  di Nei labirinti della fantascienza (Mimesis 2012)

(5) Tesi, questa, poco accettata dai fan odierni di Sf, che pur avendo sempre lamentato la ghettizzazione e la discriminazione del genere, nel vederlo superato oggi si trovano nello sconforto per la privazione di un luogo sicuro e protettivo.

(6) Come dal titolo dell’antologia curata da Sergio Solmi e Carlo Fruttero per Einaudi nel 1959.

(7) La lista è visibile qui

(8) Vedi l’accurato articolo di Domenico Gallo

(9) Robot n. 12  Fantascienza e politica di Remo Guerrini consultabile qui

(10) Antonio Caronia, uno dei suoi maggiori esponenti, ne parla qui;  c’è la voce wikipedia  e l’intera serie della rivista è digitalizzata e scaricabile qui

(11) Panorama, L’Espresso, L’Europeo, Correre della Sera, Repubblica, ecc. così come Lotta Continua e Il Quotidiano dei Lavoratori.

(12) Elvia Wilk, Che succede?

(13) Basta pensare a come è stato usato in chiave filosofica da Dick

(14) Occorre qui ricordare che l’ingresso delle donne (femministe) in questo genere prettamente maschile è stato un altro duro colpo alla sua vecchia e pericolante struttura.

(15) “Partecipare al gioco della matassa equivale a trasmettere e a ricevere degli schemi, lasciando pendere dei fili, preparandosi a sbagliare, ma riuscendo di tanto in tanto a scovare qualcosa che funziona, qualcosa di congruo e magari bellissimo che magari prima non c’era; equivale a trasmettersi connessioni ricche di significato, storie rivelatorie che passano di mano in mano, dito per dito, luogo di attaccamento dopo luogo di attaccamento, fino a creare le condizioni per una prosperità possibile sulla Terra. Il gioco della matassa può essere svolto da tanti soggetti allo stesso momento, soggetti che mettono in gioco qualsiasi tipo di arto, basta mantenere il ritmo del ricevere e del dare. Anche la ricerca accademica e la politica sono fatte così: si svolgono tramite grovigli e zigzag che necessitano di passione e di azione, di momenti di stasi e di mosse improvvise, di ancoraggio e di slancio.” Donna Haraway, Chtulucene, Nero Edizioni 2019, p. 24.

(16) Philippe Descola, Oltre natura e cultura, Seid Editori, 2014,  la mia recensione qui

(17) “Noi siamo la natura che si difende” lo slogan di chi lotta nell’area occupata della ZAD.

(18) Paolo Missiroli http://effimera.org/politica-del-respiro-di-paolo-missiroli/

(19)  Alfred N. Whitehead, La scienza e il mondo moderno, Bollati Boringhieri 1979, p. 26

(20) “Grazie a Isabelle Stengers, capiamo che non possiamo denunciare il mondo in nome di un mondo ideale. Con lo stesso spirito dell’anarchismo  comunitario femminista e della filosofia di Whitehead, Stengers sostiene che le decisioni devono avvenire in presenza di coloro che ne patiranno le conseguenze. Ecco cosa intende per cosmopolitica.” Donna Haraway, op. cit. p. 27.

 

Immagine in apertura: illustrazione per la copertina del n.1 di Un’ambigua utopia di Michelangelo Miani 

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