Gennaro Avallone condivide con Effimera l’introduzione al suo ultimo libro, da pochi giorni uscito per la collana Cartografie di Ombre Corte: “Liberare le migrazioni, lo sguardo eretico di Abdelmalek Sayad”.

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È la storia di una società che precipita e che, mentre sta precipitando, si ripete, per farsi co- raggio, “Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene”. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.

Hubert, L’odio, 1995

 

Abdelmalek Sayad è stato tra i più importanti, profondi e rispettosi ricercatori delle migrazioni. La messa in discussione che ha operato di molteplici e consolidati punti di vista politici, teorici e metodologici attorno all’esperienza migratoria, produttori di soggetti con diritti ridotti, è stata decisiva e rimane fondamentale anche se la sua produzione si è interrotta nel 1998. La portata del suo contributo non è limitata dal fatto che la sua analisi si sia basata principalmente sullo studio del rapporto tra migrazione algerina e società francese, dal momento che la sua ricerca ha, sotto il profilo epistemologico, metodo- logico e politico, un valore generale.

 

Oltre e contro il pensiero di Stato

L’analisi critica di Sayad inizia a partire dalla distinzione tra immigrazione ed emigrazione, esponendo la necessità di andare oltre questa divisione che, artificialmente, rompe le biografie di quanti si muovono dai luoghi di vita familiari verso luoghi diversi, alla ricerca di un lavoro e di condizioni di vita migliori per sé stessi e per i propri gruppi sociali di riferimento più prossimi. Sayad introduce, di conseguenza, il concetto di migrante per riferirsi alla persona che vive tale esperienza di mobilità spaziale attraversando le frontiere di uno o più Stati. Il migrante è costruito contemporaneamente e in maniera indistinguibile dai processi di emigrazione e immigrazione, nel senso che è sempre un migrante, mai solo un immigrato o solo un emigrante, ma sempre una persona che emigra e immigra al tempo stesso, in maniera inseparabile.

In modo specifico, Sayad ha insegnato a mettere in discussione il modello teorico su cui si è basata la separazione tra emigrazione e immigrazione, che è il modello Stato-etno-centrico, espresso dall’approccio idraulico, così come da quello che guarda ai fattori di espulsione e attrazione (push & pull) e da quello della circolarità, collegati alla metafora dei flussi, riconoscendo e scoprendo in questo modo lo scandalo dell’autonomia delle migrazioni. Questa stessa autonomia mette in discussione lo Stato e le politiche di controllo, evidenziando l’incapacità della cittadinanza e della democrazia nazionale (e nazionalista, in quanto è strutturalmente e storicamente fondata sul pensiero di Stato) di essere dispositivi di inclusione sociale.

Allo stesso tempo, Sayad ha riconosciuto il prezzo pagato per questa autonomia: il prezzo della doppia assenza, della doppia pena, dell’essere fuori luogo, senza luogo, atopos, di essere un intruso, forza lavoro esclusa dallo spazio politico, un subalterno radicale che il passare del tempo non libera totalmente dallo status originario, come dimostra, ad esempio, la persistenza delle categorie di seconda e terza generazione.

Sayad ha anche messo in discussione le politiche scolastiche e abitative nei confronti dei migranti, nonché il concetto e le pratiche (materiali e simboliche) di integrazione, facendo analisi sul terreno concreto del governo delle persone migranti, collegando il cielo alla terra, ossia mostrando le connessioni tra la maniera di definire le migrazioni e le molteplici modalità attraverso cui le persone migranti vengono gestite, specificamente mediante atti amministrativi, leggi e politiche, di cui quelle abitative sono emblematiche.

Il lavoro di ricerca di Sayad non si pone, semplicemente, in opposizione a specifici provvedimenti politici o a singoli elementi culturali razzisti. Esso è un’indagine sul modo in cui le società guardano l’insieme dei propri membri e individuano e classificano gli altri, secondo logiche di separazione e contrapposizione gerarchica, dunque secondo logiche coloniali che governano le relazioni tra migranti e società di arrivo, tra uomini e donne fuori luogo e uomini e donne in luogo, tra forza lavoro e presenze sociali illegittime e forza lavoro e presenze legittime, tra quanti devono adattarsi e quanti hanno il diritto di sperare in percorsi di mobilità sociale.

Nel corso della sua vita intellettuale e di ricerca, Sayad ha posto una sfida alle vigenti analisi, visioni e definizioni teoriche e politiche, cercando di andare oltre ciò che è stabilito e imposto come dominante. Si può parlare, in definitiva, nel caso di Sayad, di una sociologia scomoda, di una sociologia per la liberazione, di una sociologia per liberare le migrazioni.

 

Making history

Abdelmalek Sayad è stato direttore di ricerca del CnrS e ricercatore del Centro di Sociologia di educa- zione e della Cultura dell’École des Hautes etudes en Sciences Sociales in Francia. dopo avere lavorato, durante gli anni Sessanta, su temi di sociologia rurale in Algeria, divenendo autore con Pierre bourdieu del libro Le Deracinement. La Crise de la Agriculture Traditionnelle en Algérie, le sue ricerche si sono orientate verso i processi migratori e di formazione degli stati nazionali, compresi come processi che intrecciano dimensioni materiali e dimensioni simboliche all’interno della storia moderna dei rapporti di forza globali che si sono manifestati sia nelle relazioni di potere tra le classi sociali sia nelle relazioni imperialistiche coloniali e post-coloniali tra popoli e razze. Come ricordato in alcune interviste (Sayad 2002b, 2013a), la sua elaborazione teorica si è realizzata attraverso un percorso umano lungo e difficile, che ne ha investito la formazione nell’Algeria colonizzata e, poi, rivoluzionaria e la successiva attività di lavoro e ricerca in Francia, immigrato tra gli immigrati, che mai ha richiesto la cittadinanza francese.

Abdelmalek Sayad è stato, probabilmente, il primo sociologo a individuare e studiare l’autonomia delle migrazioni – autonomia delle migrazioni nel senso epistemologico ma anche concreto dell’azione politica dei movimenti migratori – anticipando, sebbene non abbia utilizzato esplicitamente questa categoria, un orientamento conoscitivo che si affermerà successivamente attraverso una serie di contributi, tra cui quelli di Sandro Mezzadra (2004; 2011) e Breit Neilsen (2013), Dimitris Papadopoulos, Niamh Stephenson e Vassilis Tsianos (2008), Manuela Bojadzijev e Serhat Karakayali (2007) e Nicholas de Genova (2013; 2017). Le migrazioni sono solitamente considerate solo sul piano economico, “il soggiorno che si autorizza all’immigrato è interamente soggetto al lavoro, la sola ragion d’essere che gli viene riconosciuta” (Sayad 2008, 33), mentre, in realtà, esse sono un fatto sociale totale, comprensibile solo superando il modo consolidato di intendere e definire la mobilità umana in rapporto con le frontiere degli Stati. esse esprimono un’autonomia che non significa libertà individuale di decidere di emigrare-immigrare, ma che vuol dire assumere, da un lato, uno sguardo complessivo sulle migrazioni, rifiutando di dividere l’emigrazione dall’immigrazione, e, dall’altro, la centralità del punto di vista di chi migra e dell’esperienza migratoria, andando oltre e contro il pensiero di Stato. Autonomia delle migrazioni vuol dire parlare delle migrazioni come un movimento di persone i cui interessi, motivi e modi di pensarsi non coincidono con gli interessi politici ed economici e i modi di pensare delle società e degli Stati di immigrazione né, necessariamente, con quelli degli Stati di emigrazione. Autonomia delle migrazioni vuol dire che le migrazioni non si risolvono nello sguardo dello Stato, ma lo eccedono, imponendo modi nuovi di comprendere, riconoscere e definire la mobilità spaziale degli esseri umani.

Il riferimento all’attività intellettuale e di ricerca di Abdelmalek Sayad è una guida necessaria per analizzare le migrazioni dall’interno, evitando di riprodurre gli atteggiamenti che, guardando il fenomeno da posizioni a esso esterne, riducono le migrazioni e le persone migranti a un oggetto su cui parlare, dimenticando la soggettività che esse esprimono e cancellando il loro protagonismo sociale e politico, che contribuisce a fare la storia – non è un mistero – dei paesi di emigrazione così come di quelli di immigrazione.

 

Il libro

Il libro propone un percorso di liberazione dal dominio dello sguardo di Stato alla messa in evidenza della possibilità, oltre che della necessità, dell’eresia, e degli eretici, dell’ordine nazionale. Dopo l’introduzione, il testo si articola in cinque capitoli. Il primo sviluppa una critica del modo in cui le migrazioni vengono pensate e definite, secondo le categorie dello Stato, attraverso il suo sguardo e le sue parole. Nel capitolo secondo, si presentano i modelli di interpretazione delle migrazioni individuati da Sayad, o individuabili dalla sua analisi, e criticati in base alla loro adesione alla logica costi-benefici e alla loro subordinazione al pensiero di Stato (e di società). Nel capitolo terzo, si propone un metodo alternativo, che, andando oltre la coppia Stato-colonialità, guarda alle migrazioni dall’interno, scoprendone l’autonomia, attraverso un approccio non più Stato-etno-centrico ma migrazioni-centrico, basato sulla mobilità spaziale umana. In questo modo, nel capitolo quarto, si giunge a individuare la possibilità di andare oltre l’ortodossia del pensiero di Stato e dell’ordine nazionale applicata alla comprensione, oltre che al governo, delle migrazioni, mediante pratiche eretiche di liberazione, tanto più necessarie quanto più le politiche sulle migrazioni che si stanno imponendo a livello mondiale e nell’Unione Europea, discusse nel capitolo quinto, stanno ponendo a rischio la sicurezza, fino alla stessa vita, di una parte rilevante dell’umanità, mettendo in pericolo la libertà e la giustizia per tutte e tutti.

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