A partire dagli anni ’70, il discorso sui limiti biofisici ha costituito probabilmente il nodo centrale dell’emergere di una narrazione ecologista della crescita economica moderna, nelle sue varie articolazioni. Nella fase storica attuale, la narrazione che tende ad affermarsi come dominante è quella che vede gli ultimi due secoli come transizione storica dall’Olocene al cosiddetto Antropocene, ossia l’epoca in cui le “attività umane” hanno comportato una alterazione dei meccanismi che regolano il sistema terra tale da compromettere la riproduzione della vita come oggi la conosciamo. Si tratta di un discorso al tempo stesso catastrofista e rassicurante – in cui la rassicurazione si basa su una narrazione progressista e tecno-ottimista: nonostante la lunga lista di rischi planetari che caratterizzano la nuova epoca, le conquiste tecno-scientifiche del passato dimostrano infatti che “l’umanità” è una forza in grado di plasmare il suo destino, insieme a quello del pianeta, e che può ancora salvare il mondo trovando il suo “spazio operativo sicuro” entro i limiti biofisici (ribattezzati planetary boundaries) stabiliti dal sistema Terra.

In una prospettiva ecofemminista, questa narrazione dell’Antropocene va vista come un discorso euro/androcentrico finalizzato ad occultare l’oppressione capitalista/patriarcale/coloniale/specista, e dunque la necropolitica del capitalismo industriale. Essa va dunque decostruita in modo da rendere visibile non soltanto le contraddizioni interne, quanto la violenza simbolica. Un passo fondamentale in questa decostruzione è quello di ragionare sul limite biofisico come terreno di scontro ontologico, la cui definizione dipende dal punto di vista e dai rapporti di forza. Dal punto di vista dei milioni di specie già estinte o in corso di estinzione nel corso appena degli ultimi tre decenni, per esempio, o dal punto di vista di milioni di rifugiati e vittime dei sempre più frequenti eventi climatici catastrofici, i “planetary boundaries” sono già stati abbondantemente superati. La loro elaborazione scientifica, come soglia di sicurezza globale, può avere senso soltanto se vista dalle sale ben condizionate del Resilience Centre di Stoccolma, e soltanto come serie di limiti entro i quali si potranno perpetuare le diseguaglianze globali che permettono la riproduzione del capitalismo e dell’attuale “stile di vita occidentale” su scala globale.

Quello che segue è il primo passo del mio contributo a questa riflessione, e consiste in una proposta di schematizzazione storico-comparativa sulle diverse narrazioni del limite biofisico nel discorso ecologista delle società industriali a partire dagli anni ’60-70. Ovviamente la mia catalogazione non pretende di essere esaustiva, ma si limita a descrivere quelle che mi paiono le narrazioni più influenti e rilevanti politicamente, tanto quelle egemoniche quanto quelle contro-egemoniche.

L’obiettivo specifico è quello di tracciare il filo di un discorso femminista sulla crisi ecologica (ecofemminismo materialista) che sta vedendo oggi nuove elaborazioni come “ecologia politica femminista”, ponendolo dentro il contesto storico delle diverse narrazioni del limite biofisico. L’obiettivo più generale è quello di ripensare il materialismo storico in senso non soltanto ecologico ma anche femminista – incorporando cioè una visione intersezionale delle lotte sociali nell’era del cambiamento climatico, e dunque una accezione allargata delle contraddizioni interne al sistema: insomma, un ripensamento delle categorie classiche del materialismo storico in termini di forze e rapporti di ri/produzione.

 

Narrazione Definizione di benessere Definizione del limite  

 

Soluzione

 

 

Crescita moderna – MEG

(anni 1960-‘90)

Aumento della ricchezza materiale misurata in valore monetario (PIL) Maltusiano (scarsità naturale) = riproduzione demografica vs riproduzione delle risorse Capitalismo fossile (industrializzazione) = appropriazione della natura + meccanizzazione del lavoro -» aumento produttività di terra e lavoro

 

Ambientalismo liberale

(Club di Roma, tragedy of the commons)

(anni ‘70-‘80)

Neomaltusiano = carrying capacity Eco-efficienza = Restrizione accesso alle risorse + miglioramento tecnico
 

Ambientalismo eco- marxista (ecologia politica) (anni ’70-’80)

+ distribuzione equa del reddito (riduzione disuguaglianze) Seconda contraddizione = riproduzione delle “condizioni di produzione”; deriva metabolica Spinta dei movimenti sociali -» pianificazione eco-socialista, eco-efficienza
Post-sviluppo eco-femminista (anni ’70-‘90) Sussistenza, eco-sufficienza, sovranità alimentare, decolonizzazione

 

 

Divisione sessuale/coloniale del lavoro -» appropriazione del lavoro riproduttivo (umano e non umano), espansione permanente dell’accumulazione con conseguente degrado di ecosistemi e corpi

De-alienazione, commoning -» liberazione delle forze della ri/produzione dall’oppressione capitalista/ patriarcale/coloniale
Post-sviluppo,

“ecologia dei poveri”, decrescita (anni ’90-2000)

Sostenibilità, convivialità, autonomia, decolonizzazione

 

Crescita del throughput

-» aumento dell’entropia e del lavoro socialmente necessario

Riduzione volontaria del throughput (individuale e collettiva)
 

Modernizzazione ecologica (anni ’90-2000)

Sostenibilità = espansione bisogni materiali vs carrying capacity Crescita verde = de-materializzazione del PIL (de-coupling)
Ambientalismo  neoliberista (anni 2000-‘10)  

Esternalità = mancata valorizzazione della natura

 

Internalizzazione (finanziarizzazione) dei costi ambientali = mercati di carbonio
Antropocene (anni 2000-’10)  

Planetary boundaries = soglie globali di resilienza dei sistemi terrestri

Governance globale = mix di incentivi all’eco-efficienza e controllo sull’uso delle risorse
 

Eco-modernismo

(anni ’10)

Wilderness = lo spazio della natura  

Pianificazione + design (genetica, digitale, geoingegneria, ‘clean energy’) =intensificare la carrying capacity della natura antropizzata, al fine di: 1) ridurre l’impronta ecologica antropica; 2) ridurre il lavoro socialmente necessario

 

Lo schema parte da quella che considero narrazione egemonica sul capitalismo, ossia il racconto della crescita economica moderna (Modern Economic Growth – MEG), che si sviluppa a partire dai primi anni sessanta, e che ritroviamo oggi come struttura di base della narrazione ufficiale sull’Antropocene. Si tratta di un racconto prometeico, che celebra la crescita del prodotto interno lordo delle economie industrializzate oltre i limiti biofisici delle risorse rinnovabili, vale a dire oltre la cosiddetta “trappola malthusiana”. Nel suo essere racconto della modernità occidentale, la narrazione MEG valuta positivamente il bilancio storico della colonizzazione, in quanto questa avrebbe permesso la diffusione del modello di successo economico occidentale nel resto del mondo. Questa storia di successo poggia su una presunta eccezionalità europea in termini di ingegno (miglioramento tecnico) e istituzioni (proprietà privata). Come tale, MEG è stata – ed è tuttora – una narrazione dominante (master narrative) poiché rappresenta una versione della storia basata sul “racconto del padrone” (potremmo dunque definirla una master’s narrative) nel senso coloniale e patriarcale del termine: il capo della tenuta, della fabbrica, della società commerciale; il proprietario di schiavi e il titolare dell’autorità legale su donne, animali e soggetti colonizzati. La narrazione MEG è la storia raccontata da questo soggetto dominante, la cui voce e il cui punto di vista sul mondo acquistano legittimità attraverso il silenziamento delle voci a lui subalterne.

Da questa narrazione originaria derivano poi tutta una serie di narrazioni piú recenti, che hanno risposto alla sfida della crisi ecologica contemporanea, interrogandosi in modo relativamente diverso sul tema del limite biofisico. Da un punto di vista ontologico-politico, ho ritenuto utile organizzare la comparazione lungo tre assi:

1) il modo in cui ciascuna narrazione definisce (esplicitamente o implicitamente) il benessere. Con un po’ di approssimazione, ritengo si possa dire che la crescita economica – misurata in incremento del PIL – costituisca il comune denominatore della maggior parte delle narrazioni considerate, eccetto due: quella ecofemminista, e quella della decrescita. Queste ultime condividono una critica radicale del modello di società occidentale (si muovono cioè dentro la corrente del post-sviluppo) e definiscono il benessere in termini di soddisfazione dei bisogni materiali in maniera ecologicamente, socialmente, e globalmente equa, sviluppando le potenzialità umane in termini qualitativi (o relazionali) piuttosto che quantitativi (o acquisitivi).

2) le diverse definizioni di limite in quanto insieme di condizioni che ostacolano la realizzazione del benessere. Al netto di una evoluzione storica della definizione di limite biofisico, legata soprattutto all’evoluzione del discorso scientifico, una distinzione netta si può tracciare tra le narrazioni che definiscono il limite al benessere come dato materialmente dalla biosfera (limite esterno), e quelle che lo definiscono come socialmente dato (limite interno). La differenza non consiste nel fatto che queste ultime neghino la finitezza delle risorse biofisiche, ma nel fatto che esse partono dal presupposto dell’abbondanza (al contrario delle prime, che postulano invece la scarsità come condizione naturale), e considerano il modo di produzione, o organizzazione del metabolismo sociale, come ciò che pone limiti al potenziale benessere della collettività. In questa seconda categoria sono incluse le narrazioni dell’ecofemminismo, della decrescita, e dell’eco-marxismo. Mi sembra che questa idea, se corretta, renda possibile immaginare una alleanza politica tra questi tre movimenti, posto che la divergenza sulla definizione di benessere possa essere colmata in qualche modo.

3) la proposta normativa incorporata da ciascuna narrazione riguardo al modo di gestire il limite. In questo campo troviamo una maggiore diversità di posizioni e dunque una maggiore complessità semantica: una prima distinzione può essere posta tra le narrazioni che si muovono in un orizzonte di sussistenza, o eco-sufficienza – ossia la riduzione del metabolismo sociale ottenuta perseguendo un benessere qualitativo/relazionale (narrazioni del post-sviluppo: ecofemminismo e decresicta) e quelle che postulano invece l’eco-efficienza – ossia l’incremento della produttività e/o carrying capacity della natura – come soluzione al problema dei limiti (tutte le altre). Questo secondo gruppo, peró, presenta idee diverse su come raggiungere l’eco-efficienza, lungo un asse che va dal puro mercato (neoliberismo) alla pianificazione centralizzata (eco-marxismo). Il comune denominatore al secondo gruppo è la convinzione che la crisi ecologica possa trovare soluzioni tecniche – che siano attivate attraverso il libero mercato o attraverso il socialismo. Quanto al primo gruppo, esso tende a condividere una visione Illichiana della tecnica come convivialità.

Tornando al punto di partenza, la narrazione attualmente dominante dell’Antropocene, diventa chiaro come essa costituisca un aggiornamento della narrazione MEG in versione eco-modernista. In altri termini, essa incorpora il filo delle narrazioni che 1) assumono la crescita economica come presupposto essenziale del benessere, 2) definiscono il limite come esternamente dato, e 3) postulano l’eco-efficienza come soluzione al problema del limite. Per averne una percezione inequivocabile, basta considerare il video Welcome to the Antrhopocene, proiettato all’apertura ufficiale dell’Earth Summit delle Nazioni Unite a Rio de Janeiro nel 2012 (Rio+20).

Secondo l’autrice e attivista del movimento ecofemminista internazionale Ariel Salleh, una narrazione contro-egemonica dell’Antropocene esiste già, ed è rappresentata dal fronte globale dei movimenti sociali che – dal primo summit di Rio 1992 ad oggi – si sono opposti alla eco-efficienza come soluzione della crisi, portando avanti una visione alternativa, fondata sul valore socio-ecologico e neghentropico del lavoro riproduttivo e di cura nel contrastare il degrado dei sistemi terrestri e in sostegno della vita. In un’ottica storico-materialista, potremmo chiamare questa visione quella delle forze e rapporti di ri/produzione. Diventa dunque strategico ragionare sulle potenzialità politiche di una nuova narrazione del limite biofisico, che renda visibile l’agency storica di queste forze e la loro articolazione con altre forze sociali che si riconoscano in un orizzonte di lotta ecologica anticapitalista, al tempo stesso anti-classista, anti-patriarcale, anti-coloniale e anti-specista.

 

Riferimenti bibliografici

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Dalla Costa, M.R., 1996. “Capitalism and reproduction”, Capitalism, Nature, Socialism 7 (4): 111-21 Federici, S., 2012. Revolution at Point Zero: Housework, Reproduction, and Feminist Struggle. Oakland, CA: PM Press Fraser, N., 2014. “Behind Marx’s hidden abode. For an expanded conception of capitalism”. New Left Review, 86, 55–72

Mellor, M., 1999, Feminism and Ecology, New York: NYU Press Mies, M., 1986. Patriarchy and Accumulation on a World Scale. Women in the international division of labour, London: Zed Books Plumwood, V., 1993, Feminism and the Mastery of Nature, London: Routledge

Salleh, A. (ed), 2009. Eco-sufficiency and global justice. Women write political ecology. London: Pluto Press Salleh, A., 2010. “From metabolic rift to metabolic value”, Organization & Environment, 23, 205–19

 

Testo presentato lo scorso novembre al seminario POE ‘Ripensare il limite’ (qui info: http://www.poeweb.eu/).

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