È stato recentemente pubblicato il QR (Quaderno per il reddito) n. 8, a cura del Bin-Italia, associazione che da più di 10 anni promuove interventi, dibattiti e senso comune a favore dell’introduzione di un reddito di base in Italia. Contributi di Giuseppe De Marzo, Marco Bascetta, Roberta Carlini, Roberto Ciccarelli, Sandro Gobetti, Giuseppe Allegri, Anna Maria Catenacci, Elena Monticelli, Daniel Blake, Giuseppe Bronzini, Pier Virgilio Dastoli e Andrea Fumagalli (che proponiamo di seguito). In questo numero si analizzano i risvolti preoccupanti e tetri della legge (e della filosofia “lavorista”) che sta alla base dell’introduzione del ReI (Reddito di Inclusione), recentemente approvato dal governo Gentiloni (per non incorrere nelle sanzioni europee) come strumento di contrasto (assai limitato) alla povertà assoluta. Come già ampiamente argomentato su queste pagine, il tema del reddito è al centro della campagna elettorale. Dalla IV di copertina: “Non bisogna dunque solo porre l’accento sul bisogno materiale, ma andare oltre perché un reddito garantito può rimuovere la miseria di una mera sopravvivenza ed essere strumento di autodeterminazione e per liberare energie. Il peggior paradosso che si possa creare è proprio il reddito di cittadinanza accompagnato dal senso di colpa, il reddito di dignità con l’obbligo di obbedire, il reddito minimo garantito con la ricattabilità”. Per questo, siamo a favore del requisito dell’incondizionalità, una incondizionalità rispetto alle scelte di comportamento e di consumo individuale. Proprio a questo tema è dedicato il contributo di Andrea Fumagalli.

Più volte, abbiamo sottolineato come la principale ragione economica che giustifica l’introduzione di un reddito di base stia nella sua funzione di remunerazione della cooperazione sociale che oggi è alla base del processo di accumulazione e valorizzazione del capitalismo contemporaneo

[1]. Tale presupposto implica l’introduzione a livello individuale di un reddito di base incondizionato per tutti coloro che vivono nel territorio indipendentemente dalla loro condizione professionale e civile. Il reddito di base dovrebbe essere inteso come una sorta di compensazione monetaria (remunerazione) della produttività sociale e di tempo produttivo che non sono certificati dal contratto di lavoro esistente. Essa si verifica a livello primario di distribuzione del reddito (si tratta di un reddito primario[2]), quindi non può considerarsi come un intervento assistenziale, secondo una logica tipica del workfare (in modo selettivo) e del welfare pubblico keynesiano (in modo universale). Questa misura dovrebbe essere accompagnata dall’introduzione di un salario minimo, per evitare un effetto di sostituzione (dumping) tra il reddito di base e gli stessi salari in favore delle imprese e a scapito del lavorator*. Il reddito di base insieme al salario minimo permette di ampliare la gamma di scelte nel mercato del lavoro, vale a dire, di rifiutare un lavoro indesiderato e pesante e quindi incidere sulle stesse condizioni di lavoro. La possibilità incondizionata di rifiuto del lavoro apre prospettive di liberazione che vanno ben oltre la semplice misura distributiva. Perché si possa effettivamente parlare di “reddito di base minimo” (usiamo questa espressione in un accezione larga e provvisoria), crediamo che almeno 5 criteri debbano essere verificati[3]:

  1. Criterio dell’individualità: il reddito minimo deve essere erogato a livello individuale e non familiare a tutte le persone fisiche. Si potrà poi discutere se anche i minori di anni 18 potranno averne diritto o no.
  2. Criterio della residenza: il reddito minimo deve essere erogato a tutte/i coloro che, risiedendo in un dato territorio, vivono, gioiscono, soffrono e partecipano alla produzione e alla cooperazione sociale a prescindere dalla loro condizione civile, di genere, di etnia, di credo religioso, ecc.
  3. Criterio della incondizionalità: il reddito minimo deve essere erogato senza alcuna forma di contropartita e/obbligo come scelta il più possibile libera dell’individuo.
  4. Criterio dell’accesso: il reddito minimo viene erogato nella sua fase di sperimentazione iniziale a tutte/i coloro che dispongono di un reddito inferiore ad una determinata soglia. Tale soglia deve comunque essere superiore alla soglia di povertà relativa e convergere verso il livello mediano della distribuzione personale del reddito esistente. Inoltre tale livello di reddito deve essere espresso in termini relativi e non assoluti, in modo tale che all’aumentare della soglia minima (a seguito dell’iniziale introduzione della misura) la platea dei beneficiari possa costantemente aumentare sino ad assurgere a livelli graduali di universalità.
  5. Criterio del finanziamento e della trasparenza: le modalità di finanziamento del reddito minimo devono essere sempre enunciate sulla base di studi di sostenibilità economica, specificando dove le risorse vengono reperite in base alla stima del suo costo necessario. Tali risorse devono cadere sulla fiscalità generale e non su altri cespiti di provenienza (come, ad esempio, contributi sociali, alienazione di patrimonio pubblico, proventi da privatizzazioni, ecc.)

Se è vero che tutt* coloro che vivono in un territorio, anche se in modo diverso e spesso non cosciente, partecipano alla produzione di valore economico, che poi viene espropriato, captato, distribuito con criteri di dominio e sopraffazione in base alle gerarchie definite dal libero scambio e dai suoi principali attori (in particolar modo le imprese e la finanza), tutt* hanno diritto a una qualche forma di remunerazione. Al criterio dell’incondizionalità si deve aggiungere quello dell’universalità.

La tesi che vogliamo sostenere in questo contributo è che tali due criteri si possono presentare fra loro in contraddizione e che in una fase iniziale di sperimentazione il criterio dell’incondizionalità è più importante di quello dell’universalità. Perché in contraddizione?

Con riferimento all’Italia, possiamo immaginare due scenari alternativi, partendo dal presupposto che il finanziamento della misura ricada in ogni caso sulla fiscalità generale, ovvero come quota della ricchezza sociale prodotta (che per comodità, pur coscienti dell’inadeguatezza di tale indice, è espressa dal Pil).

Il primo scenario prevede un reddito universale individuale, incondizionato, pari a 10.000 euro l’anno, un livello di pochissimo superiore alla soglia di povertà relativa. Il costo complessivo per una platea di 48 milioni circa di abitanti maggiorenni è di 480 miliardi di euro all’anno. pari al 25% circa del Pil. Il bilancio dello Stato (compreso salari e stipendi dei dipendenti pubblici) ammonta a circa 570 miliardi. In effetti, i soldi per dare 10.000 all’anno a tutti ci sarebbero, se la spesa pubblica dello Stato si riducesse di almeno l’80% con privatizzazione dei servizi e un incremento delle entrate fiscali grazie alla maggiore progressività delle aliquote. In questo primo scenario la sostenibilità economica di un reddito universale e incondizionato implica lo smantellamento dei sistema di welfare esistente e la scomparsa dello Stato come agente economico.

Un secondo scenario possibile prevede, invece, di quantificare in prima istanza il massimo delle risorse disponibili senza causare un effetto sostituzione con il welfare pubblico.  Ad esempio, si potrebbe ipotizzare che tali risorse possano derivare da un uso alternativo della politica monetaria di Quantitative Easing (QE). Una possibilità che al momento non è data ma che in un futuro prossimo, chissà…

Attualmente il QE è pari a 65 miliardi al mese, di cui all’Italia va circa in media il 15%, pari a 9 miliardi, per un totale di 100 miliardi l’anno.  Immaginiamo che una quota del 40% di tale cifra possa finanziare un fondo per il finanziamento della misura di reddito di base universale, a cui è possibile aggiungere una cifra annua di 8-10 miliardi sulla base delle leggi di stabilità. In conclusione, la cifra disponibile potrebbe aggirarsi a poco meno di 50 miliardi l’anno, pari a 1000 euro l’anno, poco più di 80 euro al mese.

La proposta di universalità del reddito di base ci pone dunque di fronte un dilemma, un trade-off. Da un lato garantire un livello di reddito (10.000 euro l’anno) tale da minimizzare il ricatto del bisogno e poter realizzare il diritto alla scelta del lavoro e quindi all’autodeterminazione ma in cambio dell’azzeramento del welfare pubblico. Dall’altro, se non si vuole il totale smantellamento del ruolo dello Stato in economia, ci si deve accontentare di un livello di redito di base irrisorio, non in grado in ogni caso di modificare il proprio destino.

Philippe Van Parijs[4], di fronte a questo trade-off, predilige la seconda soluzione. Come ha dichiarato in occasione della Lectio Magistralis tenuta a Roma lo corso 10 novembre 2017a Roma, è meglio anche 40 euro al mese incondizionati  ma a tutte/i piuttosto che procedere a una qualche forma di selettività. Anche se la cifra è irrisoria, è il principio che conta e nulla impedisce che in un prossimo futuro il meccanismo virtuoso della misura del reddito di base possa contribuire a reperire risorse più ingenti e quindi alzare il livello.

Tra queste due alternative, riteniamo che una terza proposta possa farsi strada e fa riferimento alla definizione di un criterio di accesso. Il reddito di base rimane incondizionato dal punto di vista degli obblighi e delle contropartite ma è vincolato solo dal livello di reddito percepito nel presente. Ciò significa introdurre un criterio di gradualità, che inizialmente limita la platea dei possibili beneficiari solo a coloro che si collocano al di sotto di una certa soglia di reddito (comunque non inferiore alla soglia di povertà relativa). Come sottolineato nel precedente punto 4, tale soglia deve esser fissata in termini relativi, così da crescere nel tempo e ampliare la platea dei beneficiari.

Secondo i dati Istat, nel 2016 lo stato di povertà relativa riguarda il 10,6% delle famiglie residenti (10,4% nel 2015), per un totale di 2 milioni 734mila, e 8 milioni 465mila individui, il 14,0% dei residenti (13,7% l’anno precedente). Inoltre il 30,0% delle persone residenti in Italia e’ a rischio di povertà o esclusione sociale, registrando nel 2016 un peggioramento rispetto all’anno precedente quando tale quota era pari al 28,7%.

La determinazione del costo per sottrarre questa crescente quota dei residenti in Italia dalla condizione di povertà è controversa. In un recente articolo su La Voce.info, Massimo Baldini e Francesco Daveri stimano che una misura che dovrebbe colmare integralmente il divario di povertà relativa, cioè la distanza tra la soglia e il reddito disponibile della famiglia, ha un costo di 28,7 miliardi. È una stima quasi doppia rispetto a quella di 14,9 miliardi presentata dal presidente dell’Istat in una audizione parlamentare. Ma molto simile a quella (30 miliardi) presentata dal presidente dell’Inps Tito Boeri in un’audizione alla commissione Lavoro del Senato.

La principale causa di tale discrepanza è che l’Istat nella sua simulazione aggiunge al reddito disponibile monetario il valore dell’affitto imputato dell’abitazione posseduta dalla famiglia. Si tratta di un valore rilevante (stimato in circa 15 miliardi, non a caso pari alla differenza tra le due stime). La questione è annosa. Se si considera il parametro Isee, la proprietà della casa entra a far parte del reddito familiare, anche se si tratta di un reddito non esigibile.

In ogni caso, tali stime non tengono conto del fatto che ogni anno vengono trasferite alle famiglie circa 9 miliardi di euro, sotto forma di  sussidi per l’inoccupazione (Aspi, Naspi, mobilità, indennità di disoccupazione, varie forme di cassa integrazione, ecc), al netto dei trasferimenti previdenziali.  Se la misura di reddito minimo di base incondizionato va a sostituire l’80% di tali trasferimenti[5], come esito di una ristrutturazione e semplificazione del sistema degli ammortizzatori sociali oggi tra i più iniqui e distorti a livello europeo, a favore di un’unica misura, ne consegue che il costo netto si aggira in una forbice tra 8 e 23 miliardi di euro (al netto della proprietà della casa). Si tratta di una cifra impegnativa ma abbordabile, anche tenendo conto degli effetti indiretti di una simile misura, in grado di favorire processi di autofinanziamento.

Facciamo, infatti, riferimento all’aumento del moltiplicatore del reddito grazie all’aumento della propensione marginale media al consumo (in seguito al trasferimento di reddito verso famiglie e individui che consumo quasi interamente il proprio reddito[6]) e all’incremento della domanda aggregata. In presenza di un’imposizione fiscale progressiva, ne conseguirebbe un aumento delle entrate fiscali superiore alla crescita del PIL con un positivo effetto anche sulla riduzione del rapporto debito/Pil.

La proposta qui presentata sacrifica quindi il requisito dell’universalità immediata dell’accesso alla misura di reddito di base, mantenendo però inalterato il principio di non chiedere in cambio nessun tipo di contropartita e obbligo comportamentale (disponibilità al lavoro o alla formazione, in primo luogo) o di consumo e consentendo, comunque, un livello di reddito tale da garantire una maggior libertà di scelta e di rifiuto.

Ma è proprio questo potenziale incremento di libertà, che deriva dall’incondizionalità, che spaventa e che porta a preferire in modo strumentale proposte di reddito fortemente condizionate, selettive, inadeguate (è questo infatti la filosofia effettiva del Rei[7]) al fine di perseverare il controllo sulla vita degli individui, favorirne la dipendenza e la ricattabilità in nome del business della governance della povertà[8].

 

Note                    

[1] Per approfondimenti, si veda A. Fumagalli, Economia Politica del Comune, DeriveApprodi, Roma, 2017, specialmente cap. 5.

[2] Sul concetto di reddito di base come reddito primario, si veda Carlo Vercellone, Andrea Fumagalli, “Reddito di base come reddito primario”: http://www.bin-italia.org/un-reddito-di-base-come-reddito-primario/, luglio 2013 e Andrea Fumagalli,  “Il reddito minimo (incondizionato) come reddito primario e non pura assistenza: alcuni elementi per una teoria della sovversione e della libertà” in Bin-Italia (a cura di), Un reddito garantito ci vuole! Ma quale?, Quaderni per il reddito n. 3, Roma, 2016, pp. 115-120. Riguardo invece il dibattito relativo al rapporto tra reddito di base e nuove tecnologie, si rimanda a Bin-Italia (a cura di), Reddito garantito e innovazione tecnologica. Tra algoritmi e robotica, Asterios, Trieste, 2017.

[3] Ibidem, pag. 116.

[4] Vedi P. Van Parjs, Y. Vanderborght, Il reddito di base. Una proposta radicale, Il Mulino, Bologna, 2017: http://www.bin-italia.org/reddito-base-proposta-radicale-libro-van-parijs/

[5] Tenendo conto, che alcune indennità di inoccupazione possono raggiungere livelli superiori alla soglia di povertà relativa.

[6] Il moltiplicatore del reddito è definito dal apporto [1/(1-c)], dove “c” è la propensione marginale al consumo, ovvero l’incremento del consumo C all’aumentare del reddito Y (C/Y). Se aumenta il reddito delle persone più povere , l’aumento dei consumi sarà più che proporzionale di quanto non avvenga in caso di aumento del reddito delle fasce più ricche, con l’effetto che un euro di investimento o di spesa pubblica farà incrementare il Pil in misura maggiore.

[7] Sul tema, si rimanda ai vari articoli contenuti in questo QR, in particolare al contributo di Roberto Ciccarelli.

[8] Marco Fama, Il governo della povertà ai tempi della (micro)finanza, Ombre Corte, Verona, 2017.