#omaggio a Toni Negri 18

Gennaio 1999. Toni sta a poca distanza dal ghetto, nei pressi dell’isola Tiberina. L’appartamento è su due piani, dopo un dedalo di corridoi e scalette interne e di cavedi fioriti. Mi siedo ad aspettare. La sera torna in carcere e passa la notte in cella a parlare con i suoi compagni. Il pomeriggio spesso ha sonno e dorme. Guardo i libri e i fascicoli sugli scaffali. Seguo percorsi mentali che mi sono familiari. Individuo da qualche parte una vecchia e sdrucita edizione dei Quaderni Rossi.

Penso alle elettrizzanti conferenze a Genova, nella sede di Potere Operaio in Via Rayper a Sampierdarena, non lontano dalla casa di via Paolo Reti dove Gianfranco Faina lo ospitava durante le sue puntate genovesi, all’epoca dell’intervento operaista sulle fabbriche. E poi a Balbi, quell’ultima volta che attraverso la sua lettura Lenin ci sembrò attuale; il tempo de La Fabbrica della strategia. E ancora: quel testo, La teoria capitalistica dello stato nel ‘29: John M. Keynes, che devo aver letto più di dieci volte procedendo oltre quel sorprendente e plastico passaggio iniziale: “Paradossalmente il capitale si fa marxista, o almeno impara a leggere Das Kapital: naturalmente dal suo punto di vista. Che, se è mistificato, non è perciò meno efficace.”

In margine al primo seminario dell’Autonomia operaia, a Padova nell’agosto 1973, sono stato alla festa per il suo quarantesimo compleanno, al Mondo de qua, una cicchetteria tra il Brenta e il Bacchiglione; è un ricordo di polenta bianca e di costicine sulla graticola mentre, al di là del fumo spesso, appaiono i volti accesi di Emilio Vesce, di Toni Liverani, di Roberto Ferrari, di Gianfranco Pancino, di Giorgio Ferrari.

Qualche tempo dopo ci saremmo reincontrati a Genova, assieme proprio a Gianfranco Faina e altri compagni, in una pizzeria di Piazza Barabino, ovviamente a Sampierdarena; col pretesto di Balbi Rossa occupata avevo organizzato quel convivio con l’obiettivo ingenuo e impossibile di tentare la riunione di due fervide intelligenze; e anche di capire fino a che punto si rivelassero diverse le anime che mi avevano affascinato al tempo della lettura di Classe Operaia. Quando io e Stefania lo andammo a trovare a Milano nel 1975 e mangiammo da lui con Paola un piatto di risi e bisi preparato dall’Armida, non mi riconoscevo più nell’idea egemonica dell’Autonomia che Toni stava proponendo in quel momento. Quel giorno, dopo aver constatato da parte sua un cortese disinteresse per le mie candide lamentazioni ed essere stato spiazzato da alcune sue domande (“ma tu sai che ora Oreste e Gianfranco lavorano assieme?”: no, non lo sapevo, e comunque non mi interessava), deluso e furente avevo accostato il suo fare alla prassi disinvolta e inadeguata del mio dirimpettaio Giuseppe Mazzini (allora abitavo di fronte alla casa natale del filosofo patriota).

Ma poi eccomi per strada nel 1976 a Padova, dove ero soldato trasmettitore alla caserma Pierobon, fermo ad ascoltarlo davanti alla Feltrinelli che esponeva le copie fresche de Il Dominio e il Sabotaggio.
Ho ancora a casa i libri che quello stesso anno fregai a Scienze Politiche: il Rosdolsky, il Rosenberg. La facoltà in quei giorni era una città aperta.
Di lì a poco avrei ricominciato a incontrarlo con frequenza in Via Disciplini a Milano. Ormai i colloqui erano sempre più a bassa voce, si parlava solo nei bar, fuori dalle sedi.

E infine il 1977, l’anno della svolta, con Bifo nella casa parigina di Guattari.

E poi, e poi sono a Montecatini, nella casa colonica di Gianni Giovannelli, dopo il 7 Aprile e il 17 Maggio dell’anno terribile, dopo il carcere e la sua elezione al Parlamento, con i nostri figli piccoli a cui tanto s’interessò al punto di citarli nel Diario di un’evasione.

E infine sono a Parigi, la prima volta dopo la restituzione del passaporto, forse nel 1994, con Sandro Mezzadra e Agostino Petrillo.
Arriva tossicchiando e tossendo. Mi rassicura subito: sta bene, ha fatto un check-up a Padova che glielo ha confermato. Colpisce come sempre la sua nervosa e perpetua vitalità. Si manifesta curioso, ama ascoltare. Ha il dono di una testa viva e agitata come quella di uno splendido animale immaginario e di una voce penetrante e fresca. Il resto è risucchio, contorsione nervosa, la gravosa conquista di quanto di essenziale e illuminante serva per leggere e andare oltre; la fatica del pensare esibita e offerta con le istruzioni per il montaggio.

Mi trovo a parlargli dal mio sottosuolo, l’inferno della produzione di merci mentali. Indosso abiti notarili, l’ultima delle mie tute di lavoro. Sono un trans-broker. Un autosfruttato pieno di risorse incontrollabili. Si accende la prima sigaretta e cominciamo. Sono io che devo parlare, lui non sa più com’è questo paese, ha bisogno di tante testimonianze, così mi dice. Fumo un po’ delle sue sigarette, gli dico che ho poche speranze nel breve periodo, il ceto politico di governo è troppo gaglioffo e incollato allo stato, sono anni che i conflitti vengono burocraticamente aggirati, la sinistra è la vera forza conservatrice di questo paese, la critica è socialmente monetizzata, lo stato finanzia all’eccesso lo stallo sociale. Non c’è opposizione possibile, l’Italia è il paese dove meglio i nostri corpi possono vivere ma dove peggio le nostre anime non potrebbero trovarsi.

Già, l’Italia è il paese dove meglio si può vivere, mi dice Toni, ma prima di capire perché si corrompono le nostre anime, o i nostri cervelli, visto che noi –mi guarda sorridendo- visto che noi siamo materialisti, occorre sapere da dove viene tutta questa ricchezza, come viene prodotta e come viene distribuita. Beh, la risposta è lo Stato, certo, e ora anche l’Enalotto aggiungiamo assieme e ridacchio anch’io come lui. È tempo comunque di una nuova inchiesta, prosegue. È inutile e dannoso accontentarsi del fatto che la nostra esperienza evidentemente –qui scandisce e si percuote le palme come quella sera in bilico sul marciapiede di Via Boccaccio a Milano – la nostra esperienza, il pensiero critico di cui fummo capaci, riuscì a centrare la previsione e a delineare il nuovo paradigma produttivo. L’ordine del ragionamento va invertito. Oggi si tratta di porsi il problema di organizzare le lotte dei lavoratori delle imprese di pulizia, dei camerieri, dei pony. Il nostro riferimento devono essere le lotte di classe in Francia negli anni 90.

Ribatto: io non credo che le lotte di queste figure c’entrino molto con quello che possiamo fare, noi dobbiamo lavorare sulle condizioni di sviluppo di un nuovo pensiero critico. È una nuova e provocatoria battaglia delle idee quella che dobbiamo lanciare, chi se ne frega se i temi coincidono in larga parte con quelli per i quali abbiamo combattuto, purché non ci sia compiacimento alcuno. È la critica del lavoro e dello Stato ciò che dobbiamo riprendere, ora che tutti – dai disoccupati agli operai a Rifondazione all’Ulivo ad Alleanza Nazionale – usano gli stessi codici, le stesse categorie mentali, hanno gli stessi paradigmi mentali, che si tratti di lottare per l’occupazione o di dare un lavoro a più gente possibile.

Le lotte sono tutto, mi dice, non commettere l’errore di sottovalutarle, sono loro il nostro metodo. Beviamo una grappa. Arrivano numerose telefonate. A tutte risponde la sua compagna. Se si tratta di giornalisti ogni possibilità di dichiarazioni è negata recisamente. Gli chiedo del suo lavoro in semilibertà. Poi finisce che gli racconti di vecchie storie. Parliamo di Gianfranco Faina e anche di Giuliano Naria (“tanto affetto per lui, però a Trani fu un po’ stronzo a schierarsi con loro”). “Tieniti in contatto con Sandro, lui è spesso qua, ti dirà lui”. Ci abbracciamo con affetto.

Nel 2017, quando a Genova organizzammo come Archimovi la mostra sugli Anni del Sessantotto, Toni è stato sorprendente e superbo, nonostante le sue precarie condizioni di salute. Venne da solo in treno da Parigi e visitò la mostra. Poi chiese un paio di ore di pausa in albergo per lavorare a una cosa che stava scrivendo. Nel tardo pomeriggio partecipò alla tavola rotonda con Guido Viale e Luciana Castellina. Non pago di ciò, chiese di intervenire in un incontro con i giovani e i compagni del CSO Zapata, mostrando di gradirlo di più dell’evento ufficiale di poco prima. Rimase fino a tardi, accettando e valorizzando nelle risposte ogni domanda, con l’evidente scopo di scuotere le coscienze e di invitarle all’azione celato dietro il sipario della propria curiosità… avvolto nel suo cappotto, stretto nella sua sciarpa.

Un uomo, un compagno indimenticabile. Commovente, esemplare, irresistibile. Il pensiero rivoluzionario non può finire perché ricomincia sempre.

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