Il numero 49 della rivista Zapruder, intitolato “Stati di agitazione. Territori, autogoverno, confederalismo” offre uno sguardo sia geografico che temporale sul lungo ’68, con una prospettiva storica che si estende dagli inizi degli anni ’60 al presente e una prospettiva spaziale che decentra l’Europa e invece si sofferma sugli affascinanti rapporti politici e culturali che si intrecciano nel sud globale sulla scia delle rivoluzioni anticoloniali. Le linee chiave del numero sono due: la prima, la ricchissima impollinazione delle idee terzomondiste attraverso periferia e metropoli; la seconda, la radicale messa in questione della “forma-nazione” tramite esperimenti politici che rifiutano la statualità in quanto portatrice di colonialismo.
Fedele all’approccio redazionale di Zapruder che mira a cogliere la “storia in movimento” è anche la scelta dei saggi: mentre alcuni sono più storiografici, altri sono veri e propri manifesti politici, come le parole e immagini di Nodo solidale sul collettivo messicano “Codedi” e i saggi sul movimento curdo. Il numero arricchisce la notevole e crescente bibliografia sul terzomondismo e la decolonizzazione, un nesso storico-epistemologico legato al retaggio (spesso nostalgico) della conferenza delle nazioni non allineate a Bandung, Indonesia nel 1955. Il numero però aggiunge una chiave di lettura importante al dibattito perché cerca di tracciare una storia “minoritaria” di questo periodo e ne individua gli echi nel presente.
Innanzitutto, i curatori Andrea Brazzoduro, Tommaso Frangioni e Alessandro Santagata dichiarano specificamente il modo in cui intendono affrontare la mappatura dei “long sixties” a livello planetario: non vogliono fare una storia sulla globalizzazione dei movimenti, appiattendone e uniformandone il resoconto, ma piuttosto pongono l’attenzione sull’eterogeneità delle esperienze di lotta, pur ambendo a fornire un quadro di analisi dettagliato e sintetico. Diversi saggi trattano un aspetto meno studiato della creazione degli stati postcoloniali, cioè che la formazione dello stato indipendente dopo la fine del colonialismo privilegiò una versione egemonica dell’identità nazionale che fu a scapito delle minoranze etniche e linguistiche delle regioni interessate. I due esempi trattati nel numero sono l’Algeria e la Libia, dove la comunità amazigh (berbera) ha condotto una lotta a livello politico e culturale per riaffermare la propria identità contro lo statalismo autoritario dei regimi che si sono susseguiti nei due paesi. Questo fatto porta a riflettere sulla diversa ricezione del messaggio rivoluzionario del terzomondismo in Europa e nel mondo colonizzato, una questione che non è stata molto discussa dagli storici dei global sixties. Come scrive Chiara Pagano nel suo saggio ‘La comunità amazigh e questione nazionale in Libia’, “Se in occidente l’antimperialismo si articolava come controcultura, negli stati postcoloniali si rivelò invece una delle cifre distintive della cultura nazionalista maggioritaria” (94). Gli amazigh che risiedevano in Libia al tempo dell’occupazione italiana non erano “anticoloniali” nel senso stretto della parola, perché gli italiani, usando il metodo del divide et impera, avevano cercato di dare importanza alla loro cultura e alla loro lingua, rendendoli partecipi delle limitatissime forme di autogoverno concesse alla popolazione locale sotto il regime coloniale. Questo fece sì che i berberi della Libia si pronunciassero a favore della continuazione dei rapporti con l’Italia nel nuovo assetto postcoloniale e postbellico che le Nazioni Unite stavano cercando di stabilire nell’ex colonia; in tal modo diventarono invisi al nuovo regime libico post-indipendenza. Storie come queste, di coloro che sono rimasti ai margini della decolonizzazione ed esclusi dalla formazione dello stato nazionale, sono un esempio di ciò che i curatori chiamano “’laboratori’ a cui i movimenti internazionali guardano con grande attenzione” (7). La lotta amazigh, profondamente transnazionale, è il tema di ben tre saggi del numero (uno di essi è un’intervista di Brazzoduro alla cantante amazigh Nesrine Chimouni). Il panarabismo, un movimento sviluppatosi in seno ai movimenti anticoloniali del Medio Oriente, rivela la sue falle e le sue miopie; contro un’identità araba omogeneizzante che prevaleva nel Front de libération nationale algerino, Marisa Fois, nel suo saggio sulle comunità amazigh in esilio, osserva che il movimento amazigh, già nel 1949 reclamava un’Algeria per tutti gli algerini: “’L’Algeria non è né francese, né araba, né cabila né turca; ma appartiene a tutti gli algerini’” (44).
Diversi saggi del numero sottolineano lo sfaccettato retaggio del ‘68 globale; in primis, quello di Xosé M. Nuñez Seixas, ‘Dieci, cento, mille fronti: Terzomondismo, anticolonialismo ed etnonazionalismo nell’Europa occidentale’, in cui l’autore esamina l’apporto del messaggio rivoluzionario terzomondista ai movimenti di autonomia subnazionale in Europa. Nuñez Seixas esamina il modo in cui il concetto di “colonialismo interno”, mutuato dalle riflessioni di Frantz Fanon, Amilcar Cabral, Mao Tse Tung, et alii, fu ripensato in relazione alle minoranze etniche, regionali e linguistiche dell’Europa Occidentale come i Paesi Baschi, la Galizia e la Sardegna, all’indomani della seconda guerra mondiale e all’inizio del progetto di integrazione europea che nasceva in quegli anni. Nel suo saggio storicamente ampio e dettagliato, Nuñez Seixas giustamente osserva che la svolta del pensiero terzomondista rispetto all’Euromarxismo fu che “la teoria della liberazione dei popoli doveva comprendere la dimensione individuale dell’identità nazionale negata o disprezzata dalle nazioni colonizzate” (16-17). Questo aspetto, che costituisce la più importante innovazione del terzomondismo, è stato fondante per gli studi postcoloniali, elaborato in particolare da Robert Young (cf. Postcolonialism: An Historical Introduction). La diffusione dei movimenti anticoloniali fu globale; il Vietnam, l’Algeria, Cuba e in seguito la Palestina assursero a simbolo della lotta contro il capitalismo occidentale imperialista, exempla da emulare da parte delle minoranze europee di paesi che spesso erano anche potenze coloniali. In particolare, ciò che attraeva i movimenti autonomisti europei era il socialismo pensato in due fasi: la prima, nazional-popolare, in cui la conquista della sovranità era la condizione indispensabile per la trasformazione sociale; e la seconda, quella socialista. “La sovrapposizione dello schema centro-periferia con quello di classe e l’autodefinizione delle nazioni da liberare come colonie interne sembrava permettere il superamento del dilemma tra classe e nazione” (Nuñez Seixas 20). Tuttavia, Nuñez Seixas sottolinea anche gli effetti limitati dell’esempio terzomondista; per lo più, il colonialismo interno “era un’interpretazione europea di modelli e fenomeni africani, asiatici e latinoamericani” (27). Questo è sicuramente vero, però è anche importantissimo ricordare l’effetto dirompente che ebbero ideologie politiche maturate fuori dall’Europa su movimenti di rinnovamento sociale e politico all’interno dell’Europa stessa. Questo fatto viene spesso dimenticato quando si fa la storia delle idee politiche, che tende a porre l’accento sui flussi epistemologici che vanno dal nord al sud globale, spesso disconoscendo e dimenticando che il sud globale ha fornito forti lezioni agli europei.
Accanto all’anticolonialismo, l’autonomia è un’altra parola chiave del numero, che percorre come un filo rosso diversi saggi raccolti qui. Dilar Dirik traccia il pensiero filosofico-politico di Abdullah Öcalan, leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). La sua teorizzazione antistatalista vuole ripensare la società curda secondo i concetti ancestrali di comunità in un’ottica democratica, progressista, femminista, ma fermamente anticapitalista e antimoderna. L’ idea del confederalismo e dell’opposizione allo stato si ricollega ai saggi di Pagano e Fois sulle minoranze etniche in rapporto ai movimenti anticoloniali, che spesso privilegiavano i gruppi egemonici nel pianificare il futuro stato-nazione.
I saggi sugli esperimenti di autonomia in Messico rivestono un particolare valore documentario e di dichiarazione di intenti. “Global (e local) sixties. La re-existencia zapatista e il ’68 messicano”, di José Ricardo Robles Zamarripa, contiene sia un’articolazione dell’ideologia zapatista, ponendo l’accento sull’esperienza locale di questa lotta, sia una riflessione sui rapporti che intercorsero fra lo zapatismo e altri movimenti autonomi in Messico e l’effetto del ’68 sulla società messicana nel suo insieme. Come fa anche il saggio di Nuñez Seixas, Robles Zamarripa nota dei parallelismi e riavvicinamenti fra le lotte studentesche messicane e gli zapatisti, ma riconosce anche le “disconnessioni” a livello sociale e ideologico fra la mainstream messicana e i movimenti popolari. Tutto ciò alimenta il quadro di un ‘68 “minore” rispetto alle narrazioni egemonizzanti di quell’era, che rischiano di diventare una storia delle classi borghesi in fase di rinnovamento culturale e sociale, piuttosto che di un movimento interclassista sostenuto da movimenti autonomisti nelle cosiddette “periferie” del mondo.
Algeria, Libia, Messico, Kurdistan: tutti terreni e focolai di lotta che non si fanno facilmente cooptare all’interno di una interpretazione nazionalista unitaria, come si diceva. Non poteva mancare un saggio sulla Palestina; Daniela Galiè esamina l’evoluzione del combattente politico palestinese dagli anni ‘60 del terzomondismo a oggi. Galiè analizza diversi materiali stampati (manifesti, riviste, pamphlet) di gruppi appartenenti all’OLP, riproducendo immagini iconiche volte ad ottenere il sostegno locale e globale per la causa palestinese. Durante gli anni ‘60 e ‘70, il combattente era noto come “fedayn”, con un’enfasi sull’aspetto laico e attivo delle sue azioni, simile ad altri combattenti terzomondisti come i guerriglieri cubani e vietnamiti. Galiè ricorda la profonda influenza della guerra vietnamita sull’OLP, che si richiamò esplicitamente a questa resistenza per propagare la causa palestinese a livello internazionale. Più tardi, però, dopo l’invasione del Libano da parte di Israele nel 1983, il movimento palestinese assunse il motivo del “martirio come simbolo di sofferenza collettiva” (108) e c’è il passaggio da “fedayn”, termine con forti connotati politici, a “shahid”, con forti connotati di fede. Infatti, come ci fa notare l’autrice, “shahid” in arabo non vuol dire solo chi muore combattendo per la propria fede, ma anche “l’innocente spettatore, perfino disarmato, che rimane ucciso per mano del nemico” (Galiè 108). Dalla solidarietà terzomondista il movimento palestinese gradualmente passa alla solidarietà panislamica.
La figura del partigiano è un personaggio di spicco nel numero; la sezione “Luoghi” contiene un saggio affascinante di Eric Gobetti sugli italiani che combatterono a fianco dei “partizani” yugoslavi durante l’occupazione nazifascista del Montenegro. Gobetti racconta la genesi del suo documentario “Partizani”, che si avvale di una rarissima pellicola girata all’epoca della lotta partigiana. Questo e un altro saggio di Federico Goddi e Alfredo Mignini sull’ambigua figura di Francesco Zani, un ufficiale fascista che si dichiarò partigiano alla fine del conflitto e che fu accolto fra le fila del PCI, sottolineano l’approccio metodologico di Zapruder, che mette la storia sotto l’obiettivo del presente e che ricupera momenti frammentari e oscurati del passato in chiave militante ma sempre rigorosamente documentata. Qui, come diceva Giovanni Pirelli, la ricerca stessa diventa una forma di lotta; i saggi di Zapruder sicuramente seguono questa indicazione di metodo.