Pubblichiamo il testo integrale della relazione tenuta da Federico Zappino il 22 marzo 2016 in occasione dell’ultimo incontro del ciclo “A proposito di gender. Modelli familiari, ideologie, diritti”, organizzato da Palazzo Ducale – Fondazione per la Cultura (Genova) e dalla redazione della rivista “About Gender. Rivista internazionale di studi di genere”
Sono molto grato alla redazione della rivista “About Gender” e alla Fondazione per la Cultura – Palazzo Ducale di Genova per questo invito. L’intervento di Sara Garbagnoli è stato come sempre esaustivo e puntuale al punto che risulterebbe superfluo se ora mi dilungassi sulle traiettorie e sui motivi per i quali la parola “gender” è entrata prepotentemente nel dibattito pubblico, accademico e mediatico, specialmente nell’ultimo anno. Inoltre, mi sembra che gli incontri che hanno preceduto questo nostro incontro, che è l’incontro conclusivo, abbiano offerto, a quanti li hanno seguiti, una panoramica direi abbastanza ampia sulle questioni satellitari al “gender”. Non sono sicuro di condividere il sottotesto “politico” di molte delle posizioni espresse, ma avrò modo di spiegare meglio il perché, direttamente o indirettamente, nel corso del mio intervento.
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Ho intitolato questo intervento Sovversione dell’eterosessualità. E vorrei assumere, come punto di partenza, un fatto accaduto di recente. Nel febbraio scorso, una persona che conosco, un’attivista, mi ha scritto un messaggio per informarmi del fatto che la copertina di un libro, Fare e disfare il genere di Judith Butler, fosse stata proiettata su un maxischermo a uno dei convegni dei Giuristi per la vita, in Abruzzo. Iniziamo allora con l’inquadrare meglio i protagonisti di questo incontro, quali sono le loro istanze e cosa vogliono ottenere.
Fare e disfare il genere è forse uno dei libri più importanti e noti di Judith Butler, la quale è a sua volta una delle filosofe più note, a livello internazionale. Si tratta di un libro uscito nel 2004, negli Stati Uniti, con il titolo Undoing Gender, e dopo dieci anni, nel 2014, è uscito in italiano, per l’editore Mimesis, il quale ha affidato a me la traduzione e la curatela Giuristi per la vita, invece, è una delle tante associazioni e gruppi di pressione di matrice neofondamentalista presenti in Italia che, in modo particolare, e particolarmente tenace, conduce la battaglia contro la “teoria del gender” e contro l’“ideologia del gender”. Lottare contro la teoria e contro l’ideologia del gender, secondo i Giuristi per la vita, significa – leggo dal loro sito[4]: Solo per tracciare alcune ipotesi circa l’efficacia e il potere delle azioni di questo gruppo di pressione neofondamentalista, mi limito a ricordare che in tanti consigli comunali, e anche regionali, la difesa della “famiglia tradizionale” (qualunque cosa significhi) dall’“ideologia omosessualista” o dalla “teoria del gender” (qualunque cosa significhino, anche loro) è, effettivamente, argomento di discussione (ricorderete, forse, la scritta “Family Day” apparsa sul palazzo della Regione Lombardia, a gennaio scorso). Ricordo, in secondo luogo, che il parlamento italiano non si è mai dotato, nonostante le numerose pressioni dal basso, di una legge che introducesse l’aggravante per omo-lesbo-transfobia – e possiamo anche avere delle riserve nei riguardi di questi tipi di azioni positive, per i più svariati e raffinati motivi filosofico-giuridici; a contare, però, ai fini di questo discorso, è che non è stato nessuno di questi raffinati motivi a impedire finora l’introduzione dell’aggravante, nessuna disputa tra questa o quella concezione del diritto, perché l’unico motivo è stato, ed è, la tutela del privilegio eterosessuale. Ricordo, inoltre, che tanti genitori hanno effettivamente scaricato e presentato agli uffici scolastici il modulo di consenso informato circa eventuali programmi di “educazione alle differenze”. E ricordo, infine, che il ddl Cirinnà, che già non prevede, fin dall’inizio, l’universalizzazione dei diritti acquisibili attraverso il matrimonio, e che dunque già nasce animato dall’idea di creare un ghetto giuridico per le coppie non-eterosessuali, non è ancora stato approvato in via definitiva alla Camera e, sicuramente, qualora venisse approvato, sarebbe monco della stepchild adoption, già affossata al Senato – e ciò significa che questa legge manterrebbe inalterata la supremazia del modello familiare e dei ruoli genitoriali fondati sull’eterosessualità obbligatoria. Tutto ciò è per dire che anche se l’operato delle associazioni e dei gruppi di pressione neofondamentalisti può sembrarci folkloristico, o un anacronismo liquidabile come un inciampo nel progresso universale della Ragione, di fatto sortisce conseguenze materiali nella vita di moltissime persone e costituisce l’indicatore della persistenza di un privilegio che smentisce l’andamento lineare della storia e che da più parti si vuole mantenere inalterato per motivi di varia natura – motivi che vanno dall’acquisizione del consenso politico delle destre xenofobe e razziste, all’intreccio di poteri e interessi religiosi ed economici, allo sfruttamento e alla manipolazione dell’omo-lesbo-transfobia, che è ancora assai radicata nella nostra cultura e ciò, dal mio punto di vista, poiché tale cultura è intrinsecamente eteronormativa[5]. Come dicevo, in ogni caso, nel corso di quel convegno dei Giuristi per la vita (e immagino che la cosa si ripeta anche nei vari altri loro convegni), venne proiettata la gigantografia della copertina di Fare e disfare il genere e venne ribadito con assoluta certezza che “la teoria del gender esiste” e che fosse custodita proprio tra quelle pagine. Non è mio interesse verificare la tenuta, o la precisione teoretica, o filologica, di questa affermazione; non è certo dai Giuristi per la vita che dovremmo farci dettare i motivi delle nostre riflessioni o delle nostre analisi filologiche. E il motivo per cui non mi interessa sottilizzare sul loro scarso rigore filologico (perché dovrei attendermelo?) è, in parte, di tipo biografico. Fin da bambino mi sono abituato a sentirmi dare del “frocio” o della “mezza femmina” e ciò che ho imparato, nel corso di quelle varie interpellazioni “althusseriane”, tutt’altro che indolori, era che assumere l’offesa, senza andare per prima cosa a denunciarla all’autorità, e usarla per farci qualcosa, per trasformarla in una soggettività, fosse maggiormente potenziante – e anche eccitante, e anche un po’ perverso, là dove ciò significa anche “doloroso”, e anche “violento” – rispetto alle precisazioni circa il fatto se “frocio” e “mezza femmina” costituissero i modi più appropriati per definire la mia identità di genere e sessuale, o quella che percepivo come tale. Anche perché la prima volta che sentii la parola “frocio”, pronunciata dal mio compagno di classe Marco, e rivolta a me, avvenne, direi, prima di capire cosa significasse – a differenza di Marco, che a sette anni già la conosceva – e anche molto prima dell’idea di percepirmi come un soggetto sessuato e sessuale (ciò non significa, ovviamente, che il mio processo di genderizzazione e di sessualizzazione non fosse già in atto). Dunque io non saprei dire, francamente, se la “mia” identità sia antecedente a quell’interpellazione da parte di Marco, né sono nella condizione di dire se la “mia” intera soggettività sia disgiungibile da quella scena di interpellazione, dalle risate di alcuni, che vi fecero da corollario, ma anche dai silenzi, e dalla paura, di certi altri, e dai rimproveri dell’insegnante, allertata da altri compagni, e dalla sanzione disciplinare nei riguardi di Marco – o se invece, da questa scena, la “mia” soggettività, tutt’oggi, totalmente, dipenda. Solo molto tempo dopo, in concomitanza con le prime letture dei libri di “teoria del gender” di Judith Butler e di Eve Kosofsky Sedgwick, venni a scoprire che queer designasse un insulto trasformato in soggettività, in sapere e in strumento di provocazione, e di lotta: l’assunzione politica dello stigma e la sua reimmissione nell’ordine del discorso, come ciò che consente di aprire lo spazio della critica, della risignificazione e della trasformazione. Scoprii che ciò che facevo anche io, in altri termini, non fosse affatto originale: lo avevano fatto direi molte altre persone, prima di me, e aveva un nome – e, anche in quel caso, era un nome che non avevo deciso. Tutto ciò è per dire che mi interessa assumere politicamente questa interpellazione da parte dei Giuristi per la vita, benché non sia rivolta a me, o lo sia in minima parte, capire cosa farne, e sfruttarla pretestuosamente per dire un po’ di cose che mi va di dire. Si tratta di un’interpellazione alla quale è sottesa un’informazione che, se la osservo con le lenti del ricercatore, in parte potrei definire fondata, e in parte no. Ma non è mio interesse, come ho detto, stare qui a precisare, se la teoria del gender custodita tra le pagine di Fare e disfare il genere coincida con ciò che i Giuristi per la vita credono, o hanno capito, che sia. In altre parole, mi sembra poco importante precisare se Fare e disfare il genere ritenga o no che le aggravanti per omo-lesbo-transfobia o il riconoscimento delle unioni civili o l’universalizzazione del matrimonio (argomenti che pure vengono affrontati nel testo) debbano costituire le ambizioni finali e necessarie della politica transfemminista e queer. Ciò che mi interessa, piuttosto, è domandarmi per quale motivo i Giuristi per la vita sentano il bisogno di ribadire, anche attraverso la proiezione di immagini, l’esistenza di una teoria del gender. In secondo luogo, mi interessa articolare una risposta politica a questa domanda. Forse sentono l’esigenza di rivendicare l’esistenza della teoria del gender perché qualcuno l’ha negata? È ovviamente una domanda retorica, alla quale la mia risposta è sì. Si tratta peraltro di una risposta che, a luglio scorso, ho avuto modo di articolare meglio insieme – e in buona parte grazie – a Deborah Ardilli, con la quale abbiamo firmato l’articolo La volontà di negare. La teoria del gender e il panico eterosessuale, apparso sulla rivista indipendente “il lavoro culturale”[6], e di recente tradotto da Gianfranco Rebucini per la rivista francese “Contretemps”[7]. Ne La volontà di negare, denunciamo come politicamente inefficace quell’atteggiamento difensivo, da parte di molti esponenti del pensiero critico, dell’associazionismo e della politica progressista, volto a contrastare la crociata contro la “teoria del gender” attraverso la negazione dell’esistenza sia della teoria del gender sia dell’ideologia del gender. In quell’articolo, argomentiamo non solo in favore di una maggiore efficacia politica della rivendicazione dell’esistenza della teoria del gender (qualunque cosa sia), ma cerchiamo anche di dimostrare che essa, in parte, sia effettivamente esistente e che sia possibile farla coincidere grosso modo con la teoria della performatività del genere di Judith Butler, e ciò per motivi intrinseci a quella stessa teoria; si tratta peraltro di una teoria che viene esplicitamente menzionata in molti testi redatti dalle gerarchie vaticane, le quali – come ricorda Sara Garbagnoli[8] – restano le principali responsabili della crociata. In quell’articolo, inoltre, rigettiamo la coincidenza, tesa a calmare le acque, che in molti hanno stabilito tra la “teoria del gender” e gli “studi di genere”. Tale coincidenza rivela non solo delle imprecisioni metodologiche, in quanto manca di distinguere tra l’approccio induttivo (proprio della teoria) e l’approccio deduttivo (proprio delle scienze empiriche, tra cui anche le scienze sociali), ma è anche politicamente fuori asse. Sottesa agli studi genere e alla modalità con cui questi vengono evocati nel discorso pubblico difensivo, infatti, è una – ormai rassicurante – concezione della costruzione culturale del genere che, della teoria, recepisce selettivamente un solo aspetto: quello relativo alla de-naturalizzazione dei ruoli di genere. La nostra posizione, al contrario, è che re-inscrivere nella cultura ciò che “precedentemente” era assegnato alla natura non è un’operazione di successo, almeno per due motivi. In primo luogo, perché l’eterosessualità obbligatoria può rafforzare la propria egemonia proprio attraverso strategie di de-naturalizzazione, ripresentandosi appunto come l’imperativo ineluttabile della cultura (l’eterosessualità, oggi, resta egemonica e normativa anche e soprattutto in quanto de-naturalizzata e secolarizzata). In secondo luogo, perché significa neutralizzare la portata critica e trasformativa della teoria, nella misura in cui questa 1) mette in primo piano la domanda intorno alla violenza, alle forclusioni, alle cancellazioni che definiscono – limitandolo – il campo dell’intelligibilità culturale e 2) individua esattamente in quei luoghi di abiezione le occasioni di attivazione politica e di ri-articolazione dell’ordine simbolico[9]. “Teoria del gender” è pertanto il nome che ne La volontà di negare riconosciamo – in modo kitsch, pretestuoso, rabbioso – allo sforzo di sostituire la routine di una rilevazione passiva dei rapporti di forza (“A quali tipi di classificazione sociale dà luogo la differenza sessuale?”) all’incredulità che motiva la domanda autenticamente critica: “Perché il sesso deve dare luogo a una qualsiasi classificazione?” In quell’articolo, per finire, non ci limitiamo a rivendicare – politicamente e teoricamente – la teoria del gender, ma cerchiamo anche di suggerire che a tale teoria sia intrinseco un afflato ideologico, e rivendichiamo anch’esso. “Ideologia”, infatti, non significa soltanto “manipolazione”, “imposizione”, “falsa coscienza”, “lavaggio del cervello”. “Ideologia” è un concetto decisamente più stratificato, ve lo potrebbe confermare un qualunque ricercatore in storia del pensiero politico[10]. E rigettarlo a priori, oggi, significa tra l’altro accodarsi acriticamente a quella retorica ingannevole, neoliberale, della “fine delle ideologie”, dell’epoca “post-ideologica”, mancando così di vedere uno dei luoghi dell’assoggettamento e le possibilità di occuparlo e risignificarlo, innanzitutto mediante l’indisponibilità a rendere compatibile il portato critico e trasformativo di una teoria (o di un insieme di teorie) con un ordine del discorso che la vorrebbe necessariamente neutrale rispetto ai fini. Come se non sapessimo, infatti, che anche il neoliberismo – ad esempio – è un’ideologia, nella quale sono confluite teorie di tipo filosofico (su tutte, l’ontologia liberale dell’individuo sovrano e proprietario; la razionalità illuministica) ed economico (l’avversione liberista nei riguardi del welfare; il laissez-faire contrapposto al controllo statale), ed è precisamente l’ideologia che ha portato a compimento l’afflato normativo di tali teorie, al punto da essersi affermata come razionalità, come ordine naturale delle cose, al punto da autodefinirsi “post-ideologica” e da essere addirittura creduta. E come se non sapessimo che anche l’eterosessualità è un’ideologia, sostenuta in modo più o meno esplicito da scienze, teorie, o pseudo tali[11]: è un’idea di soggetto, un paradigma di relazione tra i generi e di relazione in generale, un progetto di società, rivelatosi particolarmente utile alla trasmissione della proprietà (e all’affermazione dell’istituto proprietario), al controllo della capacità riproduttiva, innanzitutto del corpo delle donne, e al contenimento e alla patologizzazione della sessualità al di fuori della coreografia etero-riproduttiva. E anche l’eterosessualità è un’ideologia che ha portato a compimento i propri fini, al punto da persistere anche a prescindere dalla persistenza, o meno, di quei presupposti: la straight mind, la razionalità eterosessuale di cui ci parla Monique Wittig, continua a essere egemonica, anche tra chi non ha grosse proprietà da difendere o trasmettere, anche tra chi non si sposa o non costituisce una famiglia nucleare, anche tra chi non vuole, o non può, far figli e anche tra chi non ha alcuna concezione moralistica o limitante della (propria) (etero)sessualità e della (omo)sessualità (degli altri). Possiamo dire che il venir meno di quei presupposti – un venir meno che in parte è frutto di processi di liberazione politica e in parte è semplicemente indotto dalla precarizzazione[12] – abbia eroso l’eterosessualità obbligatoria, e in particolar modo l’eterosessualità come prerequisito della sana e robusta costituzione maschile? La risposta mi sembra scontata. Un conto, infatti, è riuscire a leggere il fenomeno dell’omo-lesbo-transfobia come ciò che colloca gli altri e le altre in una posizione di svantaggio, e a contrastarlo anche attivamente (talvolta moralisticamente). Un altro conto è riuscire a leggere il modo in cui, entro un determinato dominio di privilegio e valore, si diventa soggetti privilegiati, e accettare che questo processo di comprensione, che può comportare la destabilizzazione di alcuni dei presupposti sui quali si fonda la propria autopercezione, sia il prerequisito (non la garanzia) per una sovversione dell’eterosessualità obbligatoria, innanzitutto perché sottrae dalla riproduzione acritica di quelle norme il cui effetto di inclusione e appartenenza, per alcuni, coincide con l’esclusione di altr*. Come si fa a trasformare il mondo in un modo in cui le norme che privilegiano alcuni non siano esattamente quelle che svantaggiano altr*? Come si fa, in altri termini, a trasformare il mondo in un modo in cui le norme che lo governano non siano di nessuno? Se possiamo accettare che di norme sia forse impossibile fare a meno, queste, di certo, non dovrebbero essere ritenute norme accettabili. Le norme sono accettabili solo se servono a sancire e a governare l’apertura e la moltiplicazione, non a naturalizzare la chiusura e la divisione – e spero che siano evidenti la logica proprietaria sottesa alla “chiusura” e alla “divisione”, e il modo in cui questa logica informa la percezione che abbiamo di ogni cosa, a partire dal nostro corpo e dalle relazioni che attraverso il corpo intratteniamo. Nel rivendicare, dunque, l’ideologia del gender – e ogni processo di rivendicazione, in parte, è un processo di invenzione – intendiamo dire che essa miri alla sovversione dell’ideologia eteronormativa, ossia alla sovversione degli schemi di intelligibilità, di possibilità e di realtà che la norma eterosessuale informa. In modo detrattivo, Marx impiegava il concetto di “ideologia” per definire gli schemi di intelligibilità, di possibilità e di realtà informati dalla classe dominante. Si tratta di una definizione di “ideologia” accreditata, e non ho alcuna intenzione di metterla in discussione: proprio questa definizione marxiana, peraltro, ci consente di definire anche l’eterosessualità nei termini di una ideologia. A differenza di quanto pensava Marx, tuttavia, io non sono sicuro che l’opposto dell’ideologia dominante siano la “concreta” e “univoca” “materialità dei fatti”, la “realtà” autentica o un modo “anti-ideologico” di leggere i rapporti di forza, o la storia. Piuttosto, penso che l’opposto dell’ideologia dominante sia un’altra ideologia, minoritaria, dato che anche “la concreta materialità dei fatti”, anche la “realtà” e la “storia” (per quanto mi sia chiaro a cosa Marx si riferisse), non hanno voce propria, ma necessitano di parole e concetti con cui essere lette, comunicate, contestate, sovvertite e ri-organizzate altrimenti. E tutto ciò è già parte dell’ideologico, dal momento che i concetti e le immagini con cui leggiamo, comunichiamo, contestiamo, sovvertiamo e ri-organizziamo altrimenti la “realtà”, proprio come il concetto stesso di “realtà”, non li abbiamo decisi, ma sono già lì sulla scena, e molto spesso, direi, sono stati forgiati da chi ha più potere di noi. Mario Mieli, in questo senso, era un* buon* marxista: all’ideologia eterosessuale contrapponeva quella che considerava una concreta materialità dei fatti, consistente in una sessualità originariamente libera dall’artificio degli orientamenti sessuali, libera da vincoli, una transessualità originaria che parla con voce propria e che occorre recuperare. Se non fosse che anche Mieli avesse una concezione negativa, marxista appunto, del concetto di “ideologia”, si potrebbe definire Elementi di critica omosessuale un trattato di ideologia frocia, perché non si limita a descrivere in cosa consista questa libertà originaria, né a contemplarla come l’età dell’oro perduta, ma offre meticolose indicazioni pratiche, parodiche e provocatorie su come distruggere la norma eterosessuale, e su come riconquistare la libertà. Per ironia della sorte, la teoria del genere di Butler revoca in dubbio proprio quanto di più concreto, univoco, materiale e non-ideologico possa esservi – ossia la “materialità” del corpo sessuato – ed è proprio questo uno dei motivi principali per cui spaventa così tanto le gerarchie vaticane, le destre e i neofondamentalismi. Il significato del corpo – e se il corpo ha un “significato” e diventa un “significante”, ciò significa che esso cessa di essere esclusivamente e univocamente “materiale” – viene individuato come il pilastro dell’eteronormatività, e costituisce l’assalto all’ultima frontiera della “realtà” eteronormativa. Ai Giuristi per la vita, d’altra parte, non saranno sicuramente sfuggiti quei passi di Fare e disfare il genere nei quali, solo per citarne alcuni, Butler parla di una “teoria che cerca di comprendere le condizioni in cui sia possibile realizzare una trasformazione sociale del genere” (p. 88); oppure, nel capitolo dedicato al caso di David Reimer, di una “teoria del genere […] che mira a mettere in evidenza la cornice disciplinare [eteronormativa] entro cui si sviluppa il discorso della narrazione e della comprensione di sé” (p. 120); e ancora, verso la fine del libro, quei passi in cui Butler scrive di voler “sottoporre a revisione Gender Trouble, il testo in cui ho presentato per la prima volta la mia teoria del genere” (p. 302), risalente al 1990 – e testo in cui Butler si schiera contro i presuppositional terms della letteratura femminista, sostenendo che il paradigma eterosessuale sia il postulato fondamentale contro cui combattere. Questo postulato, infatti, non è sostenuto solo dalle concezioni “essenzialiste” del rapporto tra sesso e genere, ma anche da quelle “costruttiviste” che si fondano sulla dicotomia sesso/genere (sex/gender). Per tali concezioni, infatti, il genere sarebbe una costruzione sociale, e dunque mutevole a seconda delle epoche, delle culture e delle latitudini; il sesso, invece, non solo resterebbe saldamente vincolato alla biologia – aspetto che di per sé sarebbe innocuo –, ma dietro alla presunta neutralità delle chiavi di lettura forgiate da secoli di discorso teorico e scientifico (eteronormativo) pretenderebbe di derivare il suo significato e la sua “normale” funzione. È dunque una dicotomia rassicurante, quella sesso/genere, dato che lascia perfettamente intatto il significato eteronormato del “sesso”, e in fondo comoda un po’ a tutti – comodissima, peraltro, alle politiche identitarie, alla tolleranza gay friendly, nonché alle retoriche neoliberali del fattore D, del diversity management, del pinkwashing, dell’omonazionalismo. Ciò che tale dicotomia mancherebbe di cogliere, in sostanza, è che la supposta autoevidenza del corpo sessuato come fatto materiale prediscorsivo e preideologico occulterebbe quanto profondamente la sua produzione avvenga per mezzo del discorso eteronormativo. Si pensi, solo per fare un esempio, alle attuali denunce della maternità surrogata come ultima ed eclatante frontiera dello sfruttamento del corpo delle donne. Al di là dell’opinione personale che si possa avere di tale pratica, per quale motivo, secondo i suoi detrattori e le sue detrattrici, solo la messa a valore dell’utero e della capacità riproduttiva costituirebbe l’indicatore più osceno dello sfruttamento del corpo delle donne? Perché l’utero e la vagina sì e invece il polmone dell’operaia della petrolchimica o le braccia, le gambe e il tempo della badante (che non a caso è quasi sempre una donna) o l’intera vita della ricercatrice precaria no? È evidente come dietro a questa obnubilazione nella lettura dei rapporti di forza sia all’opera una concezione eteronormativa del corpo[13]. E l’elemento di novità della teoria del gender di Butler consiste proprio nel ruolo che ella accorda alla performance eteronormata dei generi e degli orientamenti sessuali nella costruzione retroattiva del corpo sessuato – di ciò che Marx, e i marxisti, definirebbero “concreta e univoca materialità dei fatti”. Mettendo in discussione l’univocità del significato dei sessi, Butler concepisce il corpo come ideologicamente costruito dal discorso regolativo dell’eterosessualità obbligatoria e trasformato nel luogo attraverso il quale si cristallizzano, si producono e ri-producono – e si occultano – le prime e più fondamentali forme di limitazione, di esclusione, di gerarchizzazione. **** Gramsci, a differenza di Marx, ci pensò due volte prima di attribuire al concetto di ideologia un significato esclusivamente negativo o non produttivo, e lo risignificò nei termini di “strumento di organizzazione delle classi sociali oppresse e subalterne”, le quali ambiscono evidentemente alla realizzazione di un’altra idea di realtà, diversa da quella della classe dominante. In modo non dissimile da un’altra definizione gramsciana di “ideologia”, rinvenibile nei Quaderni del carcere – “la fase intermedia tra la filosofia e la pratica quotidiana” –, ne La volontà di negare proponiamo di comprendere l’ideologia (del gender) nei termini di una “teoria che si fa prassi”. Tale ideologia, infatti, è già parte del modo di vedere la realtà delle soggettività oppresse dal regime dell’eterosessualità obbligatoria, e ciò per il semplice fatto che tali soggettività hanno prodotto delle teorie e dei saperi con cui prendere posizione, e che dunque mirano alla realizzazione di qualcosa. Tale ideologia ambisce non alla realizzazione di un mondo in cui la soggettivazione non-eterosessuale sia maggiormente “accettata”, bensì alla realizzazione di un mondo in cui l’eterosessualità non costituisca più la porta d’accesso al campo della “realtà” e dell’intelligibilità, né il parametro di valutazione di ogni processo di soggettivazione e di ogni possibilità di relazione. Salvo rare eccezioni che faccio anche fatica a immaginare, infatti, per tutte le persone non-eterosessuali[14] il piano di immanenza dell’eterosessualità obbligatoria costituisce ancora oggi, ancora adesso mentre stiamo parlando, la scena della loro emersione sessuata e sessuale – e la presa di distanza da quella scena è, spesso, carica di odio, di paura, di normalizzazione, di rabbia, di senso di rivalsa. Non è da sottovalutare, pertanto, quanto tutto ciò si ripercuota, sotto forma di melanconia, sulla psiche e sulla vita e sull’azione politica delle soggettività non-eterosessuali. Ma non è nemmeno da sottovalutare, al contempo, quanto quella scena di emersione riferisca di un’interdipendenza che, forse, potrebbe essere percorsa contromano e usata contro se stessa. Le soggettività non-eterosessuali inevitabilmente emergono in seno al paradigma dell’eterosessualità obbligatoria; parte del modo di definire l’eterosessualità obbligatoria, pertanto, è ciò che intrinsecamente stimola e sollecita ciò che a essa apparentemente si oppone, e ciò che ne svela l’instabilità delle fondamenta. Come si fa a espungere la violenza, la rabbia, la normalizzazione, da questa scena, e a trasformare tutto ciò in pura apertura, in pura possibilità? D’altronde, un mondo in cui la soggettivazione non-eterosessuale sarebbe maggiormente “accettata” è già, in parte,