Ho pensato di non valere più nulla – Donna indebitata, colloquio privato.

 Nelle note che seguono si propone di innestare una critica del sesso/genere (il binomio allude alla complessità di un problema che, in questa sede, non si può sviluppare oltre) all’interno di un ragionamento sul debito e sul reddito. Con ciò non s’intende sezionare il corpo sociale per rielaborare una sorta di fenomenologia sessuata dell’indebitamento pubblico e privato, ma, piuttosto, interrogarsi sul nesso strutturale e sistemico che esiste tra i dispositivi di soggettivazione e le forme di accumulazione e sfruttamento nel contesto del capitalismo finanziario.

Da questo punto di vista, la tesi secondo cui «cominciare dal debito significa rendere l’economia immediatamente soggettiva»1 può essere accolta a patto di attribuire corpo e carne alle differenti posizioni soggettive. Infatti, seppure l’argomento implichi una concezione del debito come assemblaggio socio-macchinico la cui universalità consiste proprio nella capacità di attivare processi di “sussunzione differenziale”, una sua maggiore esplicitazione non è superflua. In che modo, dopo tutto, la sintesi tra un regime discorsivo economico (il debito) e un regime discorsivo morale (la colpa o il peccato) potrebbe andare al di là dal costituire una semplice retorica persuasiva, se non fosse installato nella relazionalità materiale che costituisce i soggetti?

La connotazione morale del debito – che si esprime nelle proiezioni speculari del successo e del fallimento, del merito e della colpa – costituisce un violento e pervasivo fattore di assoggettamento affatto connotato dal punto di vista di genere: senza la produzione di un “soggetto in-generato” (si ricorre alla formula di De Lauretis in quanto rende conto del dinamismo e della conflittualità radicate in ogni formazione soggettiva)2 la “presa” del debito non sarebbe semplicemente possibile. D’altro canto, il nesso tra l’efficacia del debito come dispositivo moralizzante e la produzione di norme di genere è sancita persino dal Codice civile, dove è scritto che «nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia» (art. 1156 del Cod. Civ., approvato con R.D. 16.03.1942, n. 262). Con disarmante chiarezza, la norma elegge il buon padre di famiglia a figura paradigmatica dell’uomo medio e stabilisce che la diligenza ne sia la misura. Non a caso, infatti, la violenza radicata nell’economia del debito si manifesta chiaramente nelle punte estreme della reazione alla crisi – o, sarebbe meglio dire, della mancanza di reazione collettiva alla crisi – da cui emergono avvinghiate la figura del breadwinner che si uccide (e/o uccide) per la colpa e la vergogna di non saper sostenere il proprio ruolo sociale, e quella della vedova (e/o vittima di femminicidio). Del resto, nulla si addice più del lutto all’austerità.

Per richiamare, variandola, una felice espressione di Lea Melandri, si può dunque affermare che l’infamia del debito è originaria, ovvero che il dispositivo del debito si radica in uno spazio opaco in cui «la sopravvivenza economica e la sopravvivenza affettiva sono indistinguibili».3 Questo spazio, oggi, viene mobilitato per scaricare sulla dimensione micro-politica gli effetti devastanti dell’austerity – eufemismo anglofono sotto cui si cela un vero e proprio programma predatorio di accumulazione originaria. In questo contesto, il modello riproduttivo viene ibridato e completamente finanziarizzato: mutui, welfare domestico, indebitamento economico-affettivo reciproco e così via. Il posizionamento del capitale è al tal punto esplicito che nessuno si vergogna a parlare di micro-credito (una vera “infamia originaria” le cui conseguenze sociali sono evidenti su scala globale): l’indebitamento minuto, diffuso e massivo in cui si esprime il radicamento nella struttura molecolare della soggettività dei dispositivi di estrazione del valore e dello sfruttamento.

Se questo è il piano, il discorso critico e le pratiche devono cominciare anche da lì: dai legami e dalla loro trasformazione antagonistica. Di fronte a questo schema di assoggettamento, infatti, diventa ineludibile la progettazione di macchine di dis-identificazione che possano interferire con la performance eteronormativa dell’uomo-impresa.4 Se il “senso comune” eteronormativo conduce all’equazione del successo con il progresso (in senso lineare), con l’accumulazione (capitalistica) e la famiglia (più o meno patriarcale), la condotta morale (la diligenza) e la speranza, si tratta di promuovere altre forme di senso comune, subalterne, queer o contro egemoniche che valorizzino le discontinuità, la cooperazione, gli stili di vita non riproduttivi e improduttivi, la critica, il “no future”, che facciano del fallimento un’arte.

In questo senso, la proposta politica del reddito di base universale e incondizionato in quanto riappropriazione diretta della rendita è uno strumento potenzialmente in grado di agire, simbolicamente e materialmente, sui dispositivi della colpa e della vergogna, scartando contemporaneamente l’etica capitalistica e il suo contraltare di compatibilità, il lavorismo. Del resto, la prima rivendicazione di un reddito sganciato dal lavoro si può rintracciare già nel lavoro politico dei gruppi di «Lotta femminista» e dei «Comitati per il salario al lavoro domestico» nel corso degli anni Settanta. Se, infatti, il salario veniva inteso principalmente come strumento di emancipazione delle donne dalla fabbrica del lavoro riproduttivo, il salario al lavoro domestico diventava spesso un vero e proprio «salario contro il lavoro domestico»: un salario politico, che sfidava radicalmente l’organizzazione di tutto il lavoro reclamando la centralità della riproduzione e la sua socializzazione.

Anche oggi, l'(auto)inchiesta sulla vita e sui modi in cui le soggettività sono interpellate, mobilitate e messe al lavoro, la rivendicazione di un reddito per l’autodeterminazione, forme di sciopero sociale, la sperimentazione di forme di commonfare (dalla questione abitativa fino alla costruzione di strutture di sostegno per gli individui indebitati e/o espulsi dal lavoro che siano anche un sostegno biopolitico contro l’ingiunzione al lavoro) diventano quindi proposte politiche difficili da immaginare e articolare separatamente. Infatti, di nuovo, sia nel movimento femminista sia nel movimento queer, si torna a ragionare di riproduzione sociale, seppur con accenti diversi.5 Come scrive Daniela Pellegrini, «alle donne perciò non basta più che venga riconosciuto valore monetario al loro “in più” di lavoro, come per esempio il lavoro di cura, di relazioni umane, di volontariato assistenziale, di gratuità legata al proprio essere corpo e materia non inscritta nel gioco del mercato dei valori culturali, ma hanno in mente e in prospettiva qualcosa che possa darne segno e vita differente, così da mutare il valore stesso dell’esistenza. E non solo per loro, ma per tutta la specie».6

1 M. Lazzarato, La fabrique de l’homme endetté. Essai sur la condition néolibérale, Amsterdam, Paris 2011, p. 31.

2 Si veda: T. De Lauretis, Sui Generis. Scritti di teoria femminista, Feltrinelli, Milano 1996.

3 L. Melandri, L’infamie originaire. Pour en finir avec le Coeur et la Politique, des femmes, Paris 1979, p. 19.

4 Vedi P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica alla razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma, 2013.

5 Si vedano, per esempio, la proposta di creare una Cassa/Fondo nazionale nel percorso post-Paestum http://paestum2012.wordpress.com/2013/11/24/lea-melandri-incontro-23-novembre-bologna-donne-che-sostengono-la-liberta-delle-donne/ e la discussione sulla riappropriazione del welfare nel Sommovimentonazioanale transfemministaqueer http://sommovimentonazioanale.noblogs.org/files/2014/01/report-tavolo-neomutualismo.pdf

6 D. Pellegrini, Una donna di troppo. Storia di una vita politica “singolare” , Franco Angeli, Milano, p. 197

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