Riportiamo la traduzione dall’inglese (a cura di Michela Pusterla e Franco Palazzi e rivista dall’autrice) dell’articolo “On quitting. The labour of academia” di Francesca Coin, originariamente apparso alcuni giorni fa su Ephemera – Theory and Politics in Organization.
Negli ultimi anni, si è assistito a un evidente incremento della “quit lit”, un nuovo genere di letteratura fatto di rubriche ed editoriali che raccontano le ragioni per le quali gli accademici – con o senza posto fisso – lasciano il mondo universitario. Questo articolo esamina l’impatto dell’accademia neoliberale sulla soggettività. Nell’università neoliberale, la soggettività è intrappolata in una rete di aspettative contrastanti: da un lato, ci si aspetta che si rispettino standard elevati di concorrenza, dall’altro, il corpo vive la competizione come una forma incentivata di abuso di sé. In questo contesto, abbandonare l’accademia non significa semplicemente dimettersi da un incarico: è un sintomo dell’urgenza di creare uno spazio tra il discorso neoliberale e la percezione di sé, un atto di ribellione volto ad abdicare alla logica competitiva dell’accademia neoliberale e ad abbracciare valori e principî di altro tipo.
Introduzione
Il 3 maggio 2013, Keguro Macharia ha scritto un pezzo per The New Inquiry intitolato “On quitting”. Era un pezzo coraggioso e dolorosamente bello che partiva da una diagnosi: «disturbo bipolare, un’oscillazione tra periodi di attività frenetica e periodi di profonda depressione» (Macharia, 2013). Si tratta di una condizione perfettamente compatibile con il calendario accademico – aggiungeva Macharia – nel quale si alternano raffiche di produttività intellettuale, quasi indotte farmacologicamente, e stati quasi catatonici di esaurimento e ritardi prolungati.
«Trascorro gloriose giornate estive a letto, incapace di muovermi, incapace di mettere insieme l’energia per accendere il ventilatore, incapace di farmi una doccia, incapace di pensare. Trovo conforto in romanzetti trash e libri per bambini. La lettura tiene in piedi qualcosa, un debole tremolio di qualcosa. Può essere molto peggio di quanto non confesserò mai. E poi peggio ancora.» (Macharia, 2013)
La storia di Keguro Macharia è una storia di salute mentale e di produzione accademica. La storia di un uomo nero negli Stati Uniti post-razziali che, semplicemente, non è stato in grado di sopportare la violenza continua della modernità occidentale. Un posto fisso e una posizione prestigiosa «danno vantaggi immensi… Stare in un ente di ricerca offre privilegi e apre molte porte: da qui, lo sguardo è sempre verso l’alto» (Macharia, 2013). Eppure, il perseguimento dell’eccellenza trasuda tossicità e inquietudini.
Ho letto varie volte l’articolo di Keguro Macharia. Era dolorosamente familiare. Mi riportava in un territorio perturbante, attraente e repellente allo stesso tempo, come un dolore che conoscevo fin troppo bene. Ho fatto il dottorato negli Stati Uniti: sono arrivata nell’estate del 2001, poche settimane prima del crollo delle Torri Gemelle e poche settimane dopo il G8 di Genova. Nonostante il tremendo shock causato dall’Undici settembre alla psiche collettiva, erano anni di conformismo accademico e di competizione. La generazione Occupy doveva ancora nascere, le tasse elevate e il debito studentesco venivano ancora dipinte come responsabilità individuali, i dottorandi insegnavano a tempo pieno come una forza lavoro a buon mercato e sottopagata e, soprattutto durante i primi anni della mia esperienza, i fantasmi dell’Undici settembre perseguitavano ancora i pensieri notturni. Nonostante i suoi contorni razziali, nella storia di Keguro Macharia c’erano parole che mi rimescolavano l’anima. Mi ricordavano dinamiche di competizione e coercizione che andavano oltre i confini razziali – gesti di violenza interpersonale così violenti che il mio corpo rispondeva ai ricordi di quegli anni con spasmi di ansia e repulsione.
Ho amato le parole di Keguro Macharia per lungo tempo, la sua evocazione poetica dei nostri segreti più oscuri e delle nostre fragilità più vergognose, eppure ci sono voluti anni per capire perché mi sentivo così vulnerabile ed esposta quando ero una dottoranda negli Stati Uniti. Tutto quello che potevo dire è che la richiesta di efficienza e funzionalità aveva reso la mia vita disfunzionale. Per me, La virtù dell’egoismo (1999, Virtue of selfishness 1964) di Ayn Rand e l’impossibilità di co-operare si erano tradotte in un sensazione cronica di pericolo. Come affermano John T. Cacioppo e William Patrick nel loro bellissimo libro Solitudine (2009, Loneliness 2008), la concorrenza nuoce alla nostra capacità di relazionarci e fidarci gli uni degli altri. Nel mio caso, tutto questo si traduceva in lunghi periodi di silenzio durante i quali avevo solo paura; paura delle persone, paura del giudizio, dell’ostilità e delle ritorsioni. Mi tornava in mente un articolo di Tom Terez (2001) nel quale si descrive un’azienda che fa ricerche di mercato dove la direzione ricorre all’intimidazione e alla punizione per implementare l’efficienza. «“Avete visto tutti quei ratti?”, aveva detto un dipendente guardando il programma televisivo Fear factor, nel quale le persone venivano immobilizzate a turno in una fossa con centinaia di topi. “È così che mi sento quando sono al lavoro”, aggiunge. “È così spaventoso”» (Terez, 2001). Anche io mi sentivo così. Stare in quello spazio competitivo creava un senso di tensione come se dei topi mi stessero strisciando addosso. Per diversi anni ho sedato l’ansia nel cibo, con una sorta di bulimia seguita da momenti di autocondanna. Appena ho finito il dottorato, ho lasciato gli Stati Uniti con un biglietto di sola andata per Bangkok, dopo aver ridotto la mia vita a uno zaino nel tempo di una settimana. Allo stesso modo, Keguro Macharia si è licenziato, ha lasciato gli Stati Uniti ed è tornato in Kenya.
Alcuni anni dopo mi sono resa conto che la faccenda non riguardava solo me e Keguro Macharia. Decidere di andarsene era una tendenza diffusa nel mondo accademico e riguardava tanto i docenti a contratto più sfruttati quanto coloro che avevano un posto fisso. Di fatto, l’esaurimento e l’auto-abuso erano sintomi di un conflitto molto più ampio di quanto potessi capire allora. La transizione dal capitalismo industriale al capitalismo cognitivo aveva trasformato le università nella nuova frontiera dell’accumulazione, il terreno di alimentazione destinato a produrre capitale umano, valore e verità (Coin, 2014; 2017). In un contesto di crisi segnata dalla transizione al post-fordismo, le università erano diventate la “gallina dalle uova d’oro” destinata a riportare il tasso di profitto ai livelli di molti anni prima. Le università erano gradualmente diventate imprese di mercato gestite secondo una governance neoliberale, in base alle aspettative degli investitori e a una cultura imprenditoriale. Il soggetto accademico era a un’impasse. Da un lato, si trovava a essere “capitale fisso” responsabile della crescita economica e, allo stesso tempo, non era altro che un bandolo di speranze e desideri che volevano esprimersi. Nel mondo dell’accademia neoliberale, la soggettività era diventata un campo di battaglia. Mentre il capitale usava la precarizzazione per controllare la soggettività e succhiare innovazione come in una sorta di crowdsourcing, il soggetto accademico continuava ad agognare uno spazio di autodeterminazione, una ricerca che non accetta di essere messa da parte per mere ragioni di riconoscimento sociale o sicurezza economica.
Questo articolo analizza le ragioni di chi abbandona il mondo accademico, il crescente disagio dei lavoratori cognitivi i cui valori etici, bisogni materiali e ideali sociali sono sempre più in contrasto con l’imprenditore atomizzato dell’università neoliberale. Negli ultimi anni, si è assistito a un apparente incremento della “quit lit”, un nuovo genere di letteratura fatto di rubriche ed editoriali che raccontano le ragioni per le quali gli accademici – con o senza posto fisso – lasciano il mondo universitario. Queste rubriche trasformano l’atto di lasciare l’accademia in un processo politico nel quale il soggetto abbandona la sua logica competitiva per abbracciare una lealtà di fondo a valori e principî diversi. Nel mondo accademico neoliberale, il soggetto è chiamato ad abbracciare i valori imprenditoriali come propri. Negli ultimi tempi, molti accademici hanno sentito un conflitto crescente tra la loro etica e l’insieme di compiti costantemente misurati e burocratizzati che riempiono la loro vita. Si tratta di un fenomeno ambivalente: da un lato, descrive una scelta spesso operata in isolamento che segnala un senso di impotenza di fronte alle crescenti richieste dell’accademia neoliberale; allo stesso tempo, esprime il desiderio di ribellarsi ai suoi valori. In quanto simbolo del rapporto difficile tra lavoro accademico e tensioni organizzative della governance neoliberale, la scelta di andarsene può essere interpretata come un segno di debolezza di fronte alle richieste invasive del mercato della ricerca e insieme come un tentativo di interrompere il discorso neoliberale e le sue strutture autoreferenziali. Margaret Thatcher diceva: «L’economia è il metodo: l’obiettivo è cambiare l’anima». In questo contesto, “smettere” può essere inteso come un atto spontaneo di disobbedienza: una decisione politica volta a creare uno spazio per l’espressione di sè.
Questo articolo inquadra la scelta di abbandonare l’accademia all’interno del tentativo neoliberale di catturare il general intellect e usarlo come fonte di innovazione. In questo contesto, l’articolo guarda al doppio legame che il soggetto accademico si trova a fronteggiare. Espressione della necessità di esprimere un altro sé, smettere può essere interpretato come l’ultima risorsa per risolvere la lacerazione tra ciò che le persone sono chiamate a fare e ciò che desiderano fare. Allo stesso tempo, è l’inizio di un discorso collettivo teso a trasformare un conflitto interiore in un’alternativa politica.
Il ritorno dell’apatia nel mondo accademico
Partiamo dall’inizio. E’ alla fine degli anni Sessanta che lo scopo dell’istruzione superiore ha iniziato a cambiare. Durante una conferenza stampa di Ronald Reagan il 28 febbraio 1967, un mese dopo l’inizio del suo mandato, il governatore repubblicano della California assicurava tutti che “non c’è nessuno in questa amministrazione che intenda fare qualcosa di dannoso per l’istruzione. Ma – aggiungeva – crediamo che ci siano alcuni lussi intellettuali dei quali forse potremmo fare a meno” (Reagan, 1967). Quando gli fu chiesto di definire la nozione di “lusso intellettuale”, Reagan fece l’esempio di un corso di quattro crediti dell’Università della California – Davis che insegnava come manifestare e organizzare una manifestazione (Berrett, 2015). “Immagino che mostrare un cartello durante un picchetto sia come, oh, equivalente a un sacco di altre cose che si imparano naturalmente”, disse , “come imparare a nuotare cadendo dal molo. I contribuenti”, concluse, “non dovrebbero sovvenzionare la curiosità intellettuale” (Reagan, 1967; Berrett, 2015). Cosa stava accadendo?
Come scrive Andrew Ross nel suo libro Creditocrazia (2015, Creditocracy 2014), in quegli anni «la popolazione con una formazione universitaria meritava un’attenzione particolare» (2014: 103). Il funzionamento efficace di un sistema politico democratico richiede infatti «una certa apatia e un certo non coinvolgimento da parte di alcuni individui e gruppi», affermava Samuel Huntington in La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale (1977, Crozier et al., 1975: 169).
Il primo segnale del cambiamento profondo in atto fu il crescente disagio dell’amministrazione Reagan nei confronti della concezione progressista dell’educazione come bene pubblico destinato ad ampliare la capacità di tutte e tutti di accedere alla conoscenza e produrla (Caffentzis, 2005). Come suggerito dall’analisi del capitalismo cognitivo (Vercellone, 2007), lo sviluppo dello scetticismo politico verso un uso emancipatorio della conoscenza riflette la crisi dello sviluppo capitalistico. Durante gli anni del fordismo, lo sviluppo progressivo del capitalismo è stato il cuore propulsivo di una crescita senza precedenti della scienza e della tecnologia che ha creato le condizioni per lo sviluppo della produzione di massa. Allo stesso tempo, tale attività intellettuale senza precedenti ha nutrito la generazione più informata della storia umana. Alla fine degli anni Sessanta, la crescita scientifica e tecnologica del capitalismo industriale si arrestò. L’enorme crescita della composizione organica del capitale non era più in grado di «succhiare il plusvalore dal lavoro della classe operaia» (Marazzi, 2011: 30). Per dirla con il Gramsci dei Quaderni del carcere, «nel lungo periodo la composizione organica del capitale cresce a tal punto che il tasso di profitto diminuisce anche se il tasso di sfruttamento aumenta» (1975, Prison notebooks, 1971: 280). In questo contesto, l’antagonismo sociale ha assunto la forma di un conflitto tra conoscenza come innovazione e conoscenza come potere (Vercellone, 2007). In altre parole, la conoscenza non era più considerata un bene comune inteso a creare cittadini consapevoli e una società libera, ma un bene privato strumentale alla crescita economica. In questo senso, sovvenzionare la conoscenza era utile solo nella misura in cui produceva un impatto percepibile sull’innovazione e sulla competitività. Come sosteneva Milton Friedman a partire da Il capitalismo e la libertà (2010, Capitalism and Freedom, 1962), l’istruzione superiore ha alcune esternalità positive e molte negative. Inoltre, la conoscenza è un lusso intellettuale ad alto costo politico. La conoscenza ha prodotto cittadini indisciplinati e disordini sociali non necessari. In sintesi, bisognava far sì che la conoscenza divenisse accountable – responsabile. Da allora, la ristrutturazione dell’istruzione superiore cominciò a echeggiare una vecchia profezia marxiana secondo la quale:
«al di là di un certo punto, lo sviluppo delle potenze produttive diventa una barriera per il capitale; dunque il capitale una barriera per lo sviluppo delle potenze produttive del lavoro. Giunto a questo punto, il capitale, cioè il lavoro salariato, entra, rispetto allo sviluppo della ricchezza sociale e delle forze produttive, nello stesso rapporto del sistema corporativo, della servitù della gleba, della schiavitù, e come catena viene necessariamente tolto
La soggettività come campo di battaglia
Dopo gli anni Settanta, lo scopo dell’educazione è cambiato. In quegli anni, l’amministrazione Thatcher chiedeva la riforma dei curricula come reazione pubblica contro le proteste degli studenti (Ferlie e Andresani, 2009). Contemporaneamente, il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan diventava tristemente famoso per le sue condanne alle proteste degli studenti, sostenendo che “gli hippies, i radicali e i sostenitori di discorsi osceni” sarebbero dovuti essere “presi per la collottola e buttati fuori dai campus, in via definitiva” (Ferlie e Andresani, 2009: 180; vedi anche Clabaugh, 2004; Turner, 1966). In linea con l’argomento principale della teoria del capitale umano e della crescita endogena, gli interventi politici si sono focalizzati sull’incentivazione della produzione di innovazione, e hanno preso in considerazione la possibilità di sincronizzare la produzione accademica con le esigenze del mercato (Livingstone, 1997: 5). Lentamente, la chiusura della produzione accademica è diventata la strategia incaricata di alimentare la crescita economica e i tassi di occupazione. L’ipotesi era che la crescita potesse essere infinita se si fossero sfruttate efficacemente le capacità umane. Dal momento che le istituzioni accademiche smettono di ricevere un ampio sostegno dai fondi pubblici, gli attori privati si sono sempre più interessati alla ricerca che potesse avere un impatto positivo sul mondo delle imprese. Lentamente, le università sono diventate responsabili della fornitura di innovazione e capitale umano in base alle richieste del mercato, favorendo lo sviluppo dell’innovazione come forza produttiva diretta. In questo contesto, la soggettività è diventata un campo di battaglia, il target delle tecnologie che costringevano ogni individuo a implementare le proprie prestazioni all’interno del grande commercio globale di talenti e competenze.
A partire dagli anni Ottanta e Novanta, la riforma neoliberale dell’istruzione globale ha sostenuto la ristrutturazione internazionale dell’intera catena logistica dell’istruzione dall’alto verso il basso, ripensando gli insegnamenti, stabilendo nuovi obiettivi di ricerca, filtrando i programmi di studio internazionali e trasformando la ricerca in una forma di deliverology, una produzione di risultati a cottimo per il committente, concetto utilizzato dall’amministrazione Blair per dimostrare i progressi dei servizi pubblici nel fornire risultati consolidati – possiamo dire, ricerca on demand. Dalla scuola elementare all’istruzione universitaria, i programmi di studio sono stati ridefiniti in base a obiettivi didattici specifici e ai risultati di apprendimento desiderati. Anche le pratiche di ricerca hanno subìto una profonda trasformazione, facendo affidamento a diverse tecnologie per misurare le prestazioni accademiche al di là dei confini nazionali, ma in ultima analisi affidandosi a metri di valutazione per enumerare, classificare, raggruppare e classificare la produttività, con l’obiettivo ultimo di collocare ogni individuo e istituzione in una gerarchia che permettesse agli investitori di limitare i finanziamenti a quei progetti che rispondono alle esigenze del mercato (Arrow, 1975; Morrissey, 2013). Gli strumenti di valutazione sono stati spesso spiegati come una tecnologia di governo capace di produrre soggetti performanti e imprenditori-di-se-stessi (Rose e Miller, 2008).
La nozione di controllo di Deleuze facilita un’analisi degli effetti della governamentalità sul soggetto, evidenziando come il riconoscimento e il merito spesso si traducono sul corpo in fonti di auto-abuso. In Poscritto sulle società di controllo, Deleuze (1990) usa la nozione di «salario al merito» per descrivere la trasformazione della soggettività nella società di controllo. Parafrasando l’espressione di Deleuze, potremmo sostenere che il capitalismo accademico ha fatto affidamento su finanziamenti esterni per guidare la transizione dal capitalismo industriale a quello cognitivo. Dagli anni Ottanta, «il lessico finanziario, le grammatiche e i giudizi si sono infiltrati nell’istruzione superiore, trasformando l’ insegnamento e la ricerca in risultati calcolabili in termini finanziari» (Rose, 1999: 152). Questo processo equivaleva a «un riesame e, in ultima analisi, un rifiuto di concetti e credenze tradizionali profondamente radicati» (Mokyr, 2003: 36), un processo nel quale la conoscenza può essere validata solo se riflette le priorità del mercato. Che si tratti di ricercatori che competono per le borse di studio, di studenti che si contendono i prestiti o di diciassettemila università che competono per il credito di reputazione, la valutazione agisce come un filtro, «un dispositivo di screening, in quanto seleziona individui con capacità diverse, trasmettendo poi le informazioni a chi vuole comprarne il lavoro» (Arrow, 1973: 194). Attraverso la valutazione, il capitale misura, confronta, classifica, convalida o respinge le forme di comportamento in base alla loro capacità di raggiungere i suoi obiettivi. Così facendo, esso
«riduce il tempo di lavoro nella forma necessaria per aumentarlo nella forma superflua; pertanto pone il superfluo sempre più come condizione – questione di vita o di morte – per il necessario. Da un lato, quindi, richiama alla vita tutti i poteri della scienza e della natura, come combinazione sociale e rapporto sociale, per rendere (relativamente) indipendente la creazione della ricchezza dal tempo di lavoro che vi si dedica. Dall’altro lato, vuole usare il tempo di lavoro come metro di misura per le forze sociali gigantesche così create, e limitarle entro i limiti necessari per mantenere il valore già creato come valore». (Marx, 1973: 706)
Ci troviamo nel bel mezzo del cosiddetto “Frammento sulle macchine” nei Grundrisse di Marx, e ci sembra normale perché è un’esperienza quotidiana per molte e molti di noi. La trasformazione del lavoro accademico in un’occupazione precaria vincola la ricerca del finanziamento al raggiungimento di obiettivi prestabiliti. L’introduzione di sovvenzioni, prestiti o risorse esterne riduce al minimo il tempo di lavoro retribuito mentre aumenta al massimo il lavoro superfluo, facendo sì che il capitale agisca come una soggettività di comando, imponendo il lavorare il più possibile come unica condotta in grado di garantire l’accesso al credito. In questo contesto, l’autosfruttamento si definisce come una forma meritoria di comportamento. A queste condizioni, la soggettività è costretta a costituirsi secondo le priorità del mercato e allo stesso tempo è lesionata da un costante processo di auto-abuso.
Imprigionata in una rete di aspettative contrastanti su come bisogna essere, la soggettività è legata a un doppio vincolo, obbligata a essere all’altezza di standard elevati di concorrenza e allo stesso tempo incapace di soddisfarli o, per dirla con Mark Fisher, «buona a nulla» (2014). In questo contesto, la diagnosi di disturbo bipolare di Keguro Macharia non sembra un’eccezione, ma piuttosto il simbolo dell’era neoliberale. Come spiega Mark Fisher (2014), la logica neoliberale sostiene che «ogni persona ha il potere di diventare ciò che vuole essere», mentre la stessa popolazione che ha tutta la sua vita ha ricevuto il messaggio che può fare tutto ciò che vuole, sente «la convinzione di fondo che siamo tutti unicamente responsabili della nostra miseria e quindi la meritiamo». La costruzione della soggettività è divisa tra un comando coercitivo che pone il riconoscimento del mercato come ricompensa per la competizione e l’esperienza introiettata che percepisce il merito come «una forma di auto-abuso glorificata e socialmente accettabile» (Beusman, 2013).
Disfare l’accademico/a neoliberale
Con il tempo è diventato chiaro che il problema non eravamo semplicemente io e Keguro Macharia. Dimettersi era una tendenza diffusa nel mondo accademico, legata a doppio filo allo sfruttamento dei precari così come dei docenti di ruolo. Negli ultimi anni sono state rese pubbliche centinaia di lettere di dimissioni, parte delle quali è stata raccolta da Sydni Dunn (2013) in un Google doc a libero accesso. La domanda è: perché tanti accademici saltano giù dalla torre d’avorio – perché lasciano quello che è considerato uno dei lavori più prestigiosi al mondo?
Come sostiene Scott Burns (2014) in un suo articolo, la situazione attuale richiede che i ricercatori dedichino una parte crescente del loro tempo a ottenere finanziamenti. In linea con quanto accennato in precedenza, l’esternalizzazione del finanziamento riduce il lavoro nella sua forma necessaria e lo incrementa in quella superflua, trasformando così il lavoro non retribuito in una componente strutturale dell’accademia neoliberale sia per il personale fisso che per quello precario. Autrici come Rebecca Shuman e Katie Ropie, che hanno scritto eloquentemente della ristrutturazione neoliberale dell’accademia, hanno sostenuto che l’università si stia trasformando in un mercato del lavoro incentrato di fatto sullo sfruttamento (Collier, 2013). Gli studenti di dottorato, i post-doc e i professori a contratto spesso prestano servizio per molte ore nella speranza di ricompense nebulose, come diventare coautori di articoli, ricevere lettere di referenza o vaghe promesse di lavoro futuro. In questi casi, i lavoratori con contratti a termine si trovano spesso di fronte un sovraccarico di lavoro, ricompense insufficienti e una precarizzazione crescente (Malesic, 2016). Allo stesso tempo, sono costretti a utilizzare il lavoro non retribuito come assicurazione contro la disoccupazione futura (Ross, 2014). Intrappolato nella necessità di essere competitivi sul mercato del lavoro, un contingente crescente di dottorandi e docenti a contratto contrae debiti per esternalizzare le attività di riproduzione sociale, liberando (buying) così tempo per competere ancora di più (Rampell, 2013). La contrazione di debiti per far svolgere ad altri compiti noiosi e non qualificati diventa un’opportunità per acquistare più tempo per attività di maggior valore nel futuro. Questa situazione paradossale è emblematica del patto di sfruttamento che struttura l’accademia neoliberale, che prospera sulla precarizzazione per garantire l’efficienza mentre non lascia ai lavoratori e alle lavoratrici precari/e altra scelta che quella di lavorare il più possibile per aumentare le proprie speranze di futuri guadagni. Nel frattempo, un professore a contratto che tiene svariati corsi per mettere insieme uno stipendio e lotta per trovare il tempo di pubblicare in modo da non trovarsi in svantaggio sul mercato del lavoro può scivolare sul piano inclinato del debito. In questo contesto, il lavoro universitario può condurre a un circolo vizioso di sovraccarico ed esaurimento, producendo una tremenda lacerazione all’interno della soggettività accademica. Lo scarto costante tra stress organizzativo e valori personali comporta burn-out e conflitti interiori, in particolare per quegli individui che percepiscono il proprio impiego come una passione o un atto d’amore (Malesic, 2016; Maslach, 2003).
Negli anni Settanta, Silvia Federici ha sostenuto che una delle principali sfide della campagna per il Salario al lavoro domestico consistesse nel fatto che lo sfruttamento delle donne veniva appunto presentato come “atto d’amore”, in quanto attributo naturale della personalità femminile. In altre parole, il lavoro domestico era una predisposizione:
«una caratteristica naturale del nostro corpo e della nostra personalità femminili, un bisogno interiore, un’aspirazione che si presume provenga dalla profondità del nostro carattere di donne. [Difatti], il lavoro domestico doveva essere trasformato in un attributo naturale piuttosto che venire riconosciuto come contratto sociale, perché sin dall’inizio del progetto capitalistico per le donne questo lavoro era destinato a non essere pagato». (Federici, 1975: 2)
Allo stesso modo, il lavoro intellettuale è spesso presentato come un tratto della personalità del soggetto accademico, una necessità interiore e persino un’aspirazione connaturata al suo carattere. Per quanto tale occupazione possa aver invaso la dimensione affettiva delle nostre esistenze, le sue condizioni materiali possono essere talmente esigenti da renderlo una passione difficile da sopportare.
Soprattutto per i e le docenti part-time o a contratto che non hanno alcuna indennità, nessuno studio dove lavorare e spesso nessun rimborso per le proprie spese, dimettersi dal proprio incarico alle volte può rivelarsi più vantaggioso di rimanere. Secondo un recente rapporto dell’Università della California – Berkeley, un quarto di tutti i docenti a tempo determinato e delle loro famiglie sono iscritti a programmi di assistenza pubblica, facendo affidamento sugli assegni alimentari o su Medicaid per riuscire a coprire le spese essenziali (Jacobs et al., 2015): va aggiunto che in molti casi l’organico precario supera quello stabile (Erwin e Wood, 2014). In generale, la dilagante perdita di tutele e la persistente pressione finanziaria hanno messo a dura prova i singoli, spesso portandoli a ridurre le loro spese, a cercare un secondo impiego e, in ultima istanza, a sfruttare i weekend e le ferie per guadagnare di più o portare a termine il proprio lavoro. In questo senso, si sostiene spesso che lavorare nell’accademia abbia un pesante impatto sulle relazioni, conducendo alla disgregazione della propria comunità relazionale e a lunghi periodi di isolamento. Più che un a “atto d’amore”, il lavoro accademico talora somiglia a una relazione tossica, un sistema di sfruttamento caratterizzato da aspettative elevate e prospettive incerte. L’università neoliberale usa la promessa di una futura occupazione come valuta affettiva per il lavoro non retribuito (Bascetta, 2015). Eppure, allo stesso tempo, più che di un vero e proprio progetto per il futuro tale promessa ha il sapore un dispositivo di presa dell’anima (soul-sourcing), un gancio che vuole catturare il desiderio e trasformarlo in una leva di sfruttamento.
Nel 2014 Maurizio Lazzarato ha scritto una critica della nozione di governamentalità che parla direttamente del rapporto tra soggetto accademico e l’università neoliberale. Facendo riferimento all’analisi foucaultiana del neoliberismo, Lazzarato (2014) ha sostenuto che sia necessario ripensare la nozione di “imprenditore di se stesso”, cioè quell’individuo in cerca di soddisfazione nel proprio lavoro. A partire dagli anni Ottanta, il concetto di governamentalità è stato talvolta interpretato esteticamente, alla stregua di una raffinata descrizione dell’imprenditore di se stesso. Tuttavia, la soggettività neoliberale non rappresenta un sottoprodotto naturale del biocapitalismo, né si tratta di una mutazione ontologica. È piuttosto il risultato della coercizione e del ricatto. Il soggetto accademico ha una routine lavorativa irrealistica, ventiquattro ore al giorno per sette giorni su sette, costellata da sovraccarico costante ed esaurimenti frequenti. Agisce come impresa il cui desiderio di autorealizzazione si traduce nell’essere costantemente frustrati dal senso di insoddisfazione e da un carico di lavoro ingestibile. Quello che intendo fare qui è prendere le distanze da quelle letture della governamentalità che considerano la concorrenza come un tratto interiorizzato e libero dalla coercizione. Come lo stesso Lazzarato ha sostenuto altrove,
«Diventare capitale umano o imprenditore di sé significa assumersi i costi e i rischi di un’economia flessibile e finanziarizzata, costi e rischi che non sono solo – tutt’altro – quelli dell’innovazione, ma anche e soprattutto quelli della precarietà, della povertà, della disoccupazione, di un sistema sanitario carente, della sca