Ecco la fiera con la coda aguzza

Che passa i  monti, e rompe i  muri e l’armi:

Ecco colei che tutto il mondo appuzza!

Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;

E accennolle che venisse a proda,

Vicino al fin dei passeggiati marmi.

E quella sozza immagine di froda

Sen venne, e arrivò la testa e il busto;

Ma in su la riva non trasse la coda.

La faccia sua era d’uom giusto,

Tanto benigna avea di fuor la pelle;

E d’un serpente tutto l’altro fusto.

(Dante, Inferno, canto XVII)

 

Prologo

Nel 1969, un po’ a sorpresa, la chiesa cattolica decise di declassare San Giorgio; ora, nella liturgia, la memoria a lui dedicata è solo facoltativa, non più obbligatoria. La ragione del provvedimento trova la sua radice nell’assenza di fonti storiche certe che lo riguardino e possano essere di supporto al culto dei fedeli. Esiste infatti unicamente una Passio Sancti Georgii che riporta dati biografici e descrive episodi significativi della sua vita; ma già nel 496 il Decretum Gelasianum aveva bollato l’opera come apocrifa. Per quanto ne sappiamo nacque in Cappadocia e morì giovane, nel 303,  in Anatolia; oggi sarebbe un suddito del perfido Erdogan, tiranno poco incline a trattar bene tipi come lui. Ma anche sotto Diocleziano non gli andò meglio, e ci rimise la testa. Nonostante la degradazione pontificia, il culto di San Giorgio gode ancora di ottima salute presso tutte le chiese cristiane, d’oriente e d’occidente; l’indipendentismo popolare catalano, durante le proteste,  invoca a gran voce Jordi chiedendo la sua protezione contro la monarchia spagnola. In Inghilterra e in Portogallo, a Genova Ferrara e Reggio Calabria, in centinaia di località dei cinque continenti, il 23 aprile si festeggia questo battagliero tropeoforo (il vittorioso), patrono di chi si batte contro i soprusi. Secondo la leggenda (o secondo la storia per chi crede) in una cittadina libica, Silena, c’era un drago che viveva nel lago e che aveva l’abitudine di uccidere gli abitanti con il suo alito mefitico, pretendendo sacrifici umani per limitare i danni. San Giorgio, simbolo della fede che trionfa sul maligno, uccise, come noto, il mostro, salvando l’immancabile principessa che stava per essere immolata. Durante il Medio Evo il delta del Po, infestato dalla malaria e veicolo di contagio, era considerato una terra del drago; nella bassa padana numerosi devoti imploravano San Giorgio, eletto patrono in più parti, perché li liberasse dalle angherie della belva prodigiosa e al tempo stesso li guarisse dalle conseguenze del miasma. Per questo è ancora oggi il santo protettore contro  ogni epidemia (e a maggior ragione contro ogni pandemia, Covid compreso) e contro ogni genere di Draghi.

Il dispotismo si va consolidando

È mia convinta opinione che sia improprio ricondurre nella categoria dello stato di eccezione il costante stravolgimento delle regole e del diritto positivo, ad opera del governo in carica e delle istituzioni pubbliche o private. Per quanto possa assumere caratteristiche di continuità prolungata, in contrasto con la pretesa temporaneità, uno stato di eccezione prevede comunque, per sua stessa definizione, la contestuale esistenza, almeno astratta, di un contrapposto  stato di diritto, sospeso o perfino abrogato, ma pur sempre reale. In assenza di un puntuale riferimento al sistema complessivo infranto viene meno anche la sua eccezione, per mancanza di regola.

Il dispotismo non si cura invece di giustificare le proprie decisioni rispetto a norme che non intende minimamente riconoscere quale limite a quanto programmato come necessario all’esecuzione di un determinato programma politico, economico o sociale. Non riconosce neppure la supremazia di valori etici o religiosi, sindacali o libertari, si muove parallelamente indifferente, pronto a sbarazzarsi degli ostacoli che si parano dinnanzi al risultato da conseguire. Gli ostacoli sono solo ostacoli, non meritano rispetto perché in nessun caso possono elevarsi al rango di regole cui ci si deve piegare. Il primo pilastro del dispotismo è la certezza dell’impunità, mentre lo stato di eccezione presuppone invece la consapevolezza della violazione, dunque il riconoscimento della norma violata. Il secondo pilastro del dispotismo sta nell’assegnare a chi è preposto alla esecuzione delle leggi la possibilità di farle, interpretarle, cancellarle o anche soltanto eluderle, con totale discrezione e a piacimento, senza rendere conto a nessuno, se non sulla base di un mero rapporto di forza. La polizia ha il compito di assicurare il sicuro prevalere del governo in caso di conflitto, di vittoria delle forze dell’ordine costituito e imposto dalla cabina di comando. Chi dispone della forza effettiva sufficiente ad assicurare la coincidenza fra potere legislativo e potere esecutivo è un tiranno; ogni collettività che lo accetta vive nel dispotismo e conseguentemente soffre di una condizione servile. La differenza fra uno stato di diritto e uno stato dispotico non sta nell’esservi o meno leggi scritte e stabilite, ma piuttosto nella possibilità o impossibilità di eseguirle, a prescindere dalla volontà di chi compone la cabina di comando.

In questo tempo di transizione l’opzione dispotica del capitalismo contemporaneo si va consolidando, quasi ovunque e pur fra mille inevitabili contraddizioni, con una brusca accelerazione dopo la crisi finanziaria iniziata con il crollo dei mutui subprime. Da allora è entrato in vigore quello che Mario Draghi ha definito pilota automatico, ovvero l’imposizione del medesimo programma di governo qualunque sia l’esito delle elezioni, in ogni singolo paese. Fu proprio Draghi ad inviare la lettera segreta in base alla quale fu modificata la costituzione italiana, mediante introduzione dell’obbligo di pareggio del bilancio; in quel frangente fu avviato lo smantellamento sistematico del vecchio welfare e della struttura articolata di diritti della comunità. Trattandosi di un tragitto a guida di un pilota automatico non può stupire il varo del governo di unità nazionale, presieduto da un Draghi mai eletto dai cittadini-sudditi, con la partecipazione di partiti apparentemente incompatibili, riuniti in branco e in perenne dissidio fra loro per la spartizione: una fungaia di gaglioffaggine e di birboneria. La pandemia è stata l’occasione, colta con indubbia destrezza, per imporre una brusca accelerazione al processo in corso, per consolidare l’affermarsi del nuovo ordine, del moderno dispotismo. Con formidabile disinvoltura, il 9 dicembre 2021, l’ineffabile Draghi è intervenuto in videoconferenza al Summit for Democracy affermando che la pandemia era stata colta come una opportunità , l’occasione per trasformare l’assetto produttivo e rilanciare l’economia (intendeva naturalmente il profitto). Il vecchio stato di diritto e la democrazia storica del secolo scorso si apprestano all’archiviazione; la loro antitesi fascista si avvia verso il medesimo destino. Diverse articolazioni del comando si affacciano al prossimo orizzonte.

La molla di questa riorganizzazione del potere è la paura: paura della malattia, paura della povertà, paura delle conseguenze legate a una qualsiasi ribellione dissenziente. Draghi è l’ambizioso prepotente ministro che rappresenta compiutamente il progetto dispotico; si mostra con il volto rassicurante e benigno per meglio nascondere la terribile violenza dello scontro in atto, dentro la pandemia, dentro la transizione.

Il trattato del Quirinale: la firma

Nella mattinata del 26 novembre 2021 Draghi e Macron si sono incontrati al Quirinale, ospiti di Mattarella; il trattato bilaterale è stato sottoscritto per parte italiana dal solo Mario Draghi, mentre per parte francese hanno apposto la firma in quattro (oltre a Macron due ministri e il presidente dell’esecutivo). Il testo delle intese era ancora ignoto, i due rami del nostro parlamento non avevano ricevuto alcuna informazione, nonostante ripetute richieste di poter conoscere e discutere almeno le linee generali dell’accordo. A leggere la stampa nazionale, e in generale ad esaminare i commenti giornalistici dell’evento, si è portati a dare per acquisito il contenuto di questo trattato bilaterale, a ritenerlo anzi ormai irreversibile, dunque in vigore. In realtà le cose stanno diversamente, almeno in apparenza. Secondo la Costituzione formale la firma di Mario Draghi non basta affatto; è necessaria una legge con la quale il parlamento autorizza il Presidente della Repubblica a ratificare il testo e fino ad allora le clausole sono prive di efficacia (articolo 80 e articolo 87 comma 8 della carta). Ma secondo la prassi introdotta dal dispotismo vigente questo procedimento di ratifica è un semplice scontato percorso amministrativo, che si conclude invariabilmente con l’approvazione (meglio: che si deve concludere). Infatti uno dei più qualificati esponenti del centro destra, l’europarlamentare Antonio Tajani (vicepresidente del partito popolare europeo), cedendo alla sincerità, ha rintuzzato le critiche di chi lamentava l’assenza di preventiva discussione prima di un atto così importante; secondo lui non c’era nulla di strano nel tenere senatori e deputati all’oscuro, posto che la loro funzione è solo quella di ratificare, non altra. E senza alcun dibattito, all’unanimità (Lega e Leu affratellati), l’esecutivo già il 3 dicembre 2021 ha predisposto il disegno di legge governativo con cui le Camere, a capo chino e in silenzio, approveranno l’operato del banchiere che le dirige e comanda.

Il trattato del Quirinale: il contenuto

L’accordo bilaterale si compone di 12 articoli, non ha scadenza prefissata, per essere rimosso occorre un preavviso semestrale. La portata è di notevole ampiezza; spesso si tratta di impegni programmatici con pochi vincoli, ma su alcuni punti il carattere operativo risulta disegnato con una certa chiarezza. La prima caratteristica che merita attenzione è quella di non contenere riferimenti testuali ai poteri dei due parlamenti; protagonista assoluto è sempre l’esecutivo. L’articolo 1 (titolo: affari esteri) prevede non solo una consultazione rafforzata fra governi, ma anche una non meglio specificata azione comune in Nordafrica, nel Sahel, nell’area del Corno. Considerando la situazione attuale di quei territori dobbiamo ritenere, difficilmente sbagliando, che si alluda ad una costante pianificazione di interventi bellici, non necessariamente coinvolgendo ONU e NATO. Saranno chiamate missioni di pace, o magari verranno qualificati come contratti commerciali, ma la sostanza non cambia: senza lo schioppo al seguito non si fanno affari esteri ! Ne abbiamo conferma passando all’articolo 2, titolato “sicurezza e difesa”. Qui si parla senza veli di missioni coordinate e, con espressa allusione anche alla NATO, di sinergia militare. Il quarto capoverso introduce al rafforzamento della cooperazione nell’industria militare, con scambio di personale e mutuo addestramento; il settimo capoverso impegna i due paesi a consentire transito e stazionamento di forze armate nel proprio territorio. Le intenzioni dei contraenti non paiono per nulla pacifiche, l’opzione bellica emerge come una scelta voluta e connessa a quella di politica estera, non di sola difesa ma di potenza.

I successivi articoli 3 e 4 (affari europei; giustizia, politiche migratorie, affari interni) sono in sintonia logica con i due introduttivi, con il rafforzamento della moneta unica e con il sistema elaborato a Schengen, rinviando ad altro capo la migrazione vera e propria (articolo 10).

Il nucleare convitato di pietra nel Trattato

L’articolo 5 (cooperazione economica, industriale e digitale) enuncia il carattere strategico della transizione verso il digitale, e al tempo stesso pone il passaggio in stretta connessione con l’opzione liberista; l’articolo 6 (sviluppo sociale, sostenibile, inclusivo) contiene una scelta, in verità assai chiara, di auspicabile decarbonizzazione. Ma al tempo stesso evita accuratamente ogni impegno certo sulla decisiva questione climatica (e ambientale), lasciando come traguardo il lontano 2050. L’abbandono del carbone  non è peraltro accompagnato da alcun chiarimento, necessario e doveroso, sul tema spinoso dell’energia nucleare, lasciando dunque ben aperta la porta ad un suo recupero anche in terra italiana.

Del resto la pressione francese per la costruzione di centrali atomiche non è mai venuta meno nel tempo. Nonostante il referendum 8-9 novembre 1987 (un chiaro 70% in favore del blocco e del divieto) il governo Berlusconi, con il decreto legge 25.6.2008 n. 112, aveva nuovamente rimosso l’ostacolo autorizzando, e anzi programmando, l’uso dell’atomo per produrre energia. Nel febbraio 2009 fu siglato un accordo italo francese (Berlusconi-Sarkosy) per realizzare quattro reattori da 1600 megawatt ciascuno, con tecnologia di terza generazione EPR. Ma ancora una volta un referendum sbarrò la strada al progetto nucleare; nonostante il boicottaggio mediatico non solo fu raggiunto il quorum contro le aspettative ma ben 27 milioni di cittadini (il 94%!) si schierarono con il voto per un definitivo divieto. Ricordate il referendum greco? La volontà popolare lascia indifferente il Draghi, che non nasconde affatto l’intenzione di usare energia atomica; il suo ministro, Roberto Cingolani, lo ha detto apertamente e, insieme a lui, una pattuglia di scienziati a libro paga va spiegando che sono venute meno le ragioni di preoccupazione, che il nucleare è ormai sicuro, pulito, ecologico. L’omissione non è dunque per niente casuale; e il parlamento si guarda bene dal disturbare il manovratore.

L’uso dello spazio

Sempre connesso a ricerca, digitale e guerra è il successivo articolo 7 (titolo: spazio). Macron e Draghi concordano sulla necessità di un uso comune dello spazio, e in particolare della base europea di Kourou, in Guyana francese. Kourou è utilizzata dall’intera Unione e dall’agenzia spaziale comunitaria; ma è in territorio francese, costruita dai francesi. Interessante, nel testo, è il riferimento espresso ai vettori Vega (italiano) e Ariane (francese); attualmente l’accesso europeo allo spazio ha necessità di usare Soyuz, fornito invece dalla Russia, e questo pone un problema non piccolo di natura politico-militare. L’intesa sembrerebbe aprire la via ad un patto, nel breve periodo, fra Italia, Francia e Germania, patto auspicato dalla direttrice strategica  di Ariane Group, Morena Bernardini (italiana, ma di nomina francese, ora al vertice, e a soli 36 anni); solo così diventerebbe, infatti, possibile contrastare Space X di Musk e Blue Origin di Bezos nel controllo tecnologico dello spazio. Qui si affida in sostanza a strutture private d’impresa (Avio, Thales, Ariane ecc.) la gestione dello spazio, con tutti i risvolti sulla comunicazione, sulla guerra, sul clima. Basti pensare che Arian Group fornisce, in via esclusiva, a Macron i missili necessari per poter puntare e utilizzare le testate nucleari della Francia; guerra, comunicazione e questione climatica vengono consegnate per intero al controllo privato. Per un tipo come Mario Draghi è come invitare un’oca a bere!

Cultura e ricerca

Gli articoli 8 e 9 regolano cultura e ricerca; hanno per titolo “istruzione e formazione, ricerca e innovazione” il primo e “cultura giovani e società civile” il secondo. Sono un inno alla mobilità delle nuove generazioni, al volontariato, alla cooperazione, alla ricerca. Ma le strutture che dovrebbero favorire questo rinascimento e questa primavera delle idee vengono concepite senza lasciare alcuna autonomia, nella distribuzione delle risorse, negli indirizzi di lavoro teorico, e conseguentemente nell’elaborazione del pensiero. L’organizzazione in concreto (collegata al successivo articolo 11: “organizzazione”) conduce anzi ad una palese direzione del doppio esecutivo nei due paesi, con un coordinamento nel controllo dei due governi in carica. Più che il Rinascimento l’operazione ricorda il vecchio Minculpop, il Ministero della Cultura Popolare durante il ventennio, ora riproposto in salsa mista italo-francese.

Anche la “cooperazione transfrontaliera” di cui al successivo articolo 10 pone il controllo ministeriale e il tema della sicurezza al centro della norma programmatica. Il terzo comma è il cuore della norma: la cooperazione deve essere approfondita in materia di sicurezza, in particolare attraverso scambi di personale e favorendo la realizzazione di operazioni comuni e coordinate. Ovvero, senza finzioni, vengono previsti veri e propri rastrellamenti congiunti delle due polizie per bloccare la migrazione fra i due paesi, che i gendarmi francesi da anni ormai contrastano sia sconfinando sia usando la mano pesante. La prima vittima ideologica del Trattato, ancora non in vigore, è stata Emilio Scalzo, l’attivista NO TAV di Bussoleno, estradato in Francia per subire un processo legato alle manifestazioni di solidarietà con i migranti in cammino verso la frontiera. Il messaggio è stato poi ribadito l’otto dicembre a San Didero, ove è previsto il nuovo aeroporto collegato alla Torino-Lione: i gendarmi hanno colpito i 5000 manifestanti con manganelli, idranti e lacrimogeni. L’attacco al movimento popolare della Val di Susa è ben visibile anche nel successivo quarto comma, che impegna a realizzare la mobilità ferroviaria (con le buone maniere oppure, occorrendo, con quelle cattive come appunto avvenuto a San Didero). Sarà il ministero a presiedere i comitati di cooperazione e gli organismi di osservazione territoriale, cui le istituzioni locali sono invece chiamate solo a partecipare (presumibilmente nel senso di collaborare ed eseguire). L’organizzazione (articolo 11) è affidata a un vertice del solo esecutivo, senza controllo parlamentare, con cadenza annuale, e una concertazione elaborata dai ministri dei due paesi ai margini del vertice , in una zona d’ombra più adatta alla congiura che alla valutazione trasparente. Misteriosi segretari generali dei ministeri avranno infine il compito di attuare le decisioni mediante un comitato strategico paritetico degno di un romanzo scritto da George Orwell.

Ovviamente il disegno di legge eviterà di indicare i costi dell’eventuale richiesta ratifica; del resto l’attuale ministro economico, Daniele Franco, era stato ragioniere generale, addetto alla verifica di spesa, fra maggio 2013 e il maggio 2019, per ben sei anni e questo per Draghi è sufficiente. Il prosieguo (non certo ma almeno possibile) lascia intravedere uno scenario davvero degno di questo consolidato dispotismo: Mario Draghi, eletto Presidente della Repubblica, andrà a ratificare il Trattato così che per la prima volta la firma di un’intesa fra stati porterà una sola firma, la sua; e il suo centurione, Daniele Franco, nominato (sempre da Draghi) primo ministro sarà per la prima volta l’ex ragioniere generale di lungo corso (il controllore) a capo dell’esecutivo (il controllato). Viva l’Italia!

Per (momentaneamente) concludere

Mario Monti, intervistato, si è lasciato scappare quel che pensano i tipi come lui, e quel che Draghi ha tutte le intenzioni di mettere in atto: meno democrazia! Per gestire la transizione bisogna sottrarre alle moltitudini gli spazi di libertà per evitare che dentro quegli spazi possano allignare dissenso e protesta. La differenza fra Draghi e Monti, entrambi primi ministri scelti per tenere sempre acceso e protetto il pilota automatico, è semplice: il secondo incautamente lo ha detto , il primo, più astuto, invece lo ha fatto . E non ha alcuna intenzione di smettere nel prossimo futuro. Osserva, sornione, i singoli plotoni di lamentosi dissenzienti, si assicura che siano sostanzialmente disarmati o comunque non in grado di nuocere davvero, sorride, li ignora e tira dritto per la sua strada. Il fedele cane bracco ungherese è assai più pacifico del suo compaesano, Viktor Orban, poco affidabile e per questo escluso dal Summit for Democracy; a modo suo contribuisce a rafforzare l’immagine del padrone. Anche il bracco sogna i giardini del Quirinale. Papa Pio II, Enea Silvio Piccolomini, aveva coniato secoli addietro un grazioso aforisma per questi soggetti avvezzi a mostrare un volto rassicurante e comprensivo, per meglio colpire a guardia altrui abbassata: chi ha del pane mai non gli manca il cane.

Draghi, al momento, è l’unico a non commentare la decisione di Maurizio Landini  e Pierpaolo Bombardieri (segretario Uil, nomen omen), ovvero l’annuncio dello sciopero generale. Non ha fatto una piega, lasciando ai ministri camerieri il compito di redarguire i ribelli.  Il presidente dell’autorità garante per l’esercizio del diritto di sciopero, il professor Santoro Passarelli, è prontamente intervenuto per bacchettare i ribelli, intimando loro di adeguarsi alle regole (cfr. Corriere della Sera, 10 dicembre). Dimostrandosi un maestro di umorismo sarcastico l’illustre giurista di regime ha sottolineato che il 16 dicembre, giorno di sciopero, coincide con la scadenza finale dell’ultima rata IMU, un servizio essenziale di riscossione che deve essere assicurato come indispensabile. Il pagamento telematico o lo slittamento di un giorno non gli sono neppure passati per la mente come soluzione alternativa: anche questa è una conferma del dispotismo in atto.

Il segretario della Cisl (Luigi Sbarra, detto Gigi) non ha perso l’occasione di genuflettersi, ma si sbaglia di grosso se spera di ricavarne un vantaggio. Il bracco ungherese ha segnalato al suo padrone (nella lingua dei bracchi con cui i due comunicano segretamente) il proverbio toscano catalogato da Angelo Monosini (255) e assai calzante per tutti e tre i sindacalisti: il cane rode l’osso  perché non lo può inghiottire . Vedremo che accadrà il 16 dicembre visto che Cgil e Uil hanno confermato lo sciopero; ma il primo ministro non pare particolarmente inquieto, quale che sia la partecipazione all’astensione dal lavoro. Per Draghi l’opinione dei lavoratori non conta nulla, le loro   sofferenze sono solo un danno collaterale irrilevante.

Nel primo dopoguerra i proletari napoletani, di fronte alla prepotenza e ai soprusi, usavano l’espressione adda venì Baffone (se si preferisce addavenì Baffone); invocavano cioè l’intervento di un prodigio, di un vendicatore senza macchia e senza paura. Avevano in mente la figura di Giuseppe Stalin, il capo dei comunisti, il nemico giurato dei capitalisti. Certamente la scelta di un simile protettore, vista oggi, lascia perplessi. Ma in quel tempo di guerra fredda pareva naturale. In ogni caso servì a tenere uniti i lavoratori, era il simbolo di resistenza, di una possibile riscossa, di una provvidenza rossa, ma pur sempre di una provvidenza.

Archiviato Baffone dalla storia rimane, inossidabile, San Giorgio. Speriamo. Chi meglio di lui potrà abbattere il Draghi?

Adda venì San Giorgio!

 

Immagine in apertura: “San Giorgio in lotta col drago” di Vittore Carpaccio, “Ciclo di S. Giorgio degli Schiavoni”, 1502-7, Scuola di San Giorgio degli Schiavoni, Venezia