Sono arrivato a Pechino e mi hanno messo in quarantena. Da quel momento, da giornalista sono diventato “la notizia” che nessuno ha voluto farsi scappare: la Cina, focolaio del virus, mette in quarantena l’untore proveniente dall’Italia, anzi dalla Lombardia, anzi dalla periferia sud-est di Milano che si allunga pericolosamente verso il Lodigiano impestato. “Ma che faccia tosta, questi cinesi; anzi no, bravi loro, mica scemi come noi che abbiamo chiuso la stalla quando i buoi erano già scappati”.

Quando un giornalista diventa la notizia non è mai bene, perché si finisce in un circolo vizioso autoreferenziale che ti fa perdere di vista quello che succede “là fuori”. Per porvi rimedio, cercherò di collegare al contesto più ampio la piccola disavventura che mi ha trasformato da merce svalutata sul mercato del lavoro a merce spettacolare.

Chi ha deciso per la mia forma blanda di arresti domiciliari – quattordici giorni in tutto, con l’obbligo di segnalare la mia temperatura corporea due volte al giorno e il consiglio di areare i locali di tanto in tanto – non è stato un organo di pubblica sicurezza, bensì il wuye, l’amministrazione condominiale. Sono loro che hanno interpretato ed eseguito le ultime disposizioni della municipalità di Pechino, decidendo che in quanto proveniente da un’area infetta dovessi “prendermi cura di me” per un paio di settimane, chiuso in casa; sono loro che mi hanno fatto firmare le scartoffie in cui davo il mio consenso (e se non l’avessi dato? In questo caso i cinesi hanno una formula prêt-à-porter: mei banfa, cioè, non c’è soluzione, è così, punto); sono loro – nella persona del solerte impiegato Chen Qu – che due volte al giorno mi scrivono su WeChat per sollecitarmi l’invio della temperatura corporea, così come sono loro che mi hanno procurato il termometro per misurarla. Io speravo mi dessero la pistola a infrarossi, invece mi hanno rifilato quello tradizionale che si infila sotto l’ascella o altrove. Pazienza.

Vivo in una comunità residenziale (shequ) di una ventina di palazzine alte diciotto piani. Luigi Tomba ha scritto un intero libro (The Government Next Door; Neighborhood Politics in Urban China) sulle relazioni sociali, le pratiche di potere e la creazione di consenso nelle nuove comunità recintate urbane cinesi, dove il ceto medio tende a trincerare se stesso e i propri interessi immobiliari.

In questi cluster urbani le autorità cinesi di livello superiore delegano ormai da tempo le funzioni di governance quotidiana alle amministrazioni di condominio, il cui status tra pubblico e privato è estremamente opaco e flessibile. Un tempo erano composte soprattutto da comitati di residenti su base volontaria; con la graduale apertura al mercato immobiliare, a cavallo tra anni Novanta e nuovo secolo, diventano sempre più agenzie che hanno la doppia funzione di mantenere il controllo sociale e offrire servizi, in quello che è stato definito “comunitarismo autoritario”. Non è un semplice scambio basato sull’interesse – io ti offro servizi condominiali e proteggo la tua proprietà immobiliare, tu paghi e fai il bravo – bensì una relazione continua. Nella frequentazione quotidiana, si elabora per esempio il concetto di suzhi, qualità, così preziosa per il nuovo ceto medio urbano in quanto lo distingue dalla popolazione migrante e dai contadini: come si vive confortevolmente, quali comportamenti sono dignitosi, quale automobile è più cool, come si taglia il pelo al cagnolino (che deve essere piccolo, perché quelli grossi possono stare solo oltre il quinto anello). Qui si elabora anche il patriottismo che colma il vuoto lasciato dalla fine dei valori maoisti, con le bandiere appese sui caseggiati durante le feste comandate. Qui tutti guardano tutti e l’amministrazione governa con flessibilità.

Nella fase di crisi, come quella che stiamo vivendo, è a questo livello che si vede la mobilitazione di massa, cioè la modalità tipica con cui la Cina affronta le emergenze. “I tempi di sospensione della normalità sono quelli che meglio di altri illuminano l’ordinario”, scrive Pietro Saitta. È interessante comprendere cosa ci dica la mobilitazione antivirus – cioè l’emergenza – della società cinese.

Mentre ero in italia, a inizio febbraio, un amico mi ha mandato la foto del cortile della sua comunità residenziale mentre i condomini facevano la fila all’ufficio del wuye per ritirare i fogliettini rosa che fanno da lasciapassare per entrare e uscire dal perimetro, dato che chi non ce li ha, l’estraneo, non può più entrare per ragioni di sicurezza sanitaria. Le persone in fila indossavano tutte rigorosamente la mascherina e stavano a due metri di distanza l’una dall’altra. Lì mi è apparsa chiara la novità di questa mobilitazione di massa: è una “mobilitazione a non mobilitarsi”. Cioè, a stare distanti, rinchiusi, possibilmente soli, circondati da un alone di igiene esasperata (e qui bisognerebbe forse rileggere Georges Bataille). Va detto che siccome in Cina le cose sono sempre fatte un po’ chabuduo – “più o meno” – di quell’immagine mi colpiva anche il fatto che i solerti impiegati del wuye avessero sbattuto in mezzo al cortile un paio di divani pulciosi e scassati, affinché gli anziani potessero sedersi mentre facevano la fila, annullando così la distanza di sicurezza.

Come scrive Li Zhiyu nel saggio che compare nella raccolta “Afterlives of Chinese Communism” (ANU Press – Verso Books, 2019), “Mobilitazione (dongyuan) è un concetto fondamentale nella politica cinese contemporanea. Indica l’uso di un sistema ideologico da parte di un partito o regime politico per incoraggiare, o costringere, i membri della società a partecipare a determinati obiettivi politici, economici o sociali, al fine di raggiungere la centralizzazione su larga scala e lo spiegamento di risorse e forza lavoro”.

Originata negli anni Trenta e condivisa da comunisti e nazionalisti in un quadro di guerra civile e conflitto con i giapponesi, la mobilitazione di massa viene poi trasferita dal Partito comunista vittorioso dopo il 1949 all’amministrazione politica, economica e sociale. In una struttura a cerchi  concentrici che parte dal segretario del Partito al centro, si influenzano, guidano, penetrano e organizzano gli strati sociali che erano precedentemente rimasti estranei al processo politico. Ma il partito di Mao ha anche fiducia nelle masse, si affida a loro, le organizza “per creare il ‘vasto oceano’ in cui affogare il nemico. Era questa la differenza maggiore tra il Partito comunista e il Guomindang, che nel suo modello di mobilitazione si affidava più ai quadri militari e all’apparato statale. E che infatti finirà per “affogare” nell’Oceano creato dai comunisti.

Per mobilitare le masse bisogna suscitarne il sentimento.

Nel 2002, Elizabeth J. Perry scrive un saggio dal titolo Moving The Masses: Emotion Work In The Chinese Revolution, in cui analizza proprio la “mobilitazione di massa delle emozioni” e offre una limpida descrizione di cosa significhi quando ricostruisce una sessione di lotta durante il movimento di riforma agaria (fine anni Quaranta): una vera e propria messa in scena teatrale per condannare il latifondista nemico di classe.

«La folla silenziosa si concentrò verso il punto in cui si trovava l’imputato … I contadini ascoltavano ogni parola ma non rivelavano alcuna emozione … nessuno si muoveva e nessuno parlava. “Avanti, chi ha prove contro quest’uomo?” Di nuovo ci fu silenzio. Kuei-ts’ai, il nuovo vicepresidente del villaggio, lo trovò intollerabile. Saltò in piedi, colpì Kuo Te-yu sulla mascella con il palmo della mano. “Di’ all’assemblea quanto hai rubato”, gli ingiunse.

Lo schiaffo fece vibrare la folla. Era come se una scintilla elettrica avesse fatto tendere tutti i muscoli. Mai nessun contadino a memoria d’uomo aveva colpito un funzionario …

La gente nella piazza osservava affascinata, come se stesse guardando uno spettacolo. Non si rendevano conto che, affinché la trama si svolgesse, loro stessi dovevano salire sul palco ed esprimere ciò che avevano in mente. Dopo una notte di incontri tesi in cui “alcune persone erano così eccitate che non dormirono affatto”… il giorno seguente “centinaia di accuse” furono lanciate contro gli obiettivi scelti dal partito, che furono poi portati in un campo ai margini del villaggio e fucilati.»

Con le riforme di mercato di Deng Xiaoping, dopo il 1979, la mobilitazione di massa su larga scala diventa retaggio del passato. Li Zhiyu osserva che nella Cina contemporanea, nei momenti in cui richiede una partecipazione popolare organizzata, il governo in genere emette ordini amministrativi e offre incentivi materiali ai partecipanti. Una “mobilitazione in stile decreto amministrativo” che sopisce le passioni, metta al centro il Partito divenuto tecnocratico più che le masse, sposa le esigenze del ceto medio nascente e si limita ad alcune occasioni ben determinate. Una di queste è proprio la crisi.

«Lo stato mobilita il Partito, l’amministrazione e le forze armate per coordinarsi strettamente con le forze sociali nelle operazioni di emergenza e nel contenimento delle crisi». E Li Zhiyu cita le risposte all’epidemia di SARS del 2003 e al terremoto di Wenchuan del maggio 2008 come gli esempi recenti più notevoli di mobilitazione guidata dall’amministrazione.

La SARS nel 2003, il SARS-CoV-2 oggi. Cos’è cambiato?

La mia impressione è che la “mobilitazione a non mobilitarsi”, porta a compimento il processo di rimozione dalle emozioni. Non credo al prevalere della paura, del panico, non l’ho visto nella gente costretta in casa a Wuhan, non l’ho visto nei miei vicini, non lo vedo in me: è la mobilitazione del mei banfa, “non c’è soluzione”, è così, è rassegnata.

È il trionfo della “mobilitazione in stile decreto amministrativo” che, a differenza del 2003, ha però una componente tecnologica molto più avanzata. L’impiegato/funzionario non deve neanche più passare da casa per registrare la mia temperatura corporea; gliela comunico io due volte al giorno con WeChat. Organizzare i rifornimenti non è un problema: esistono mille app per avere il cibo direttamente alla porta di casa.  Di fianco all’unico cancello del mio shequ, hanno allestito una serie di scaffali dove le diverse compagnie di delivery lasciano pacchi e pacchetti. Il kuaidi – il pronto consegna – arriva, ti telefona, molla il pacchetto sullo scaffale che espone il nome della sua compagnia e se ne va; tu scendi, raccatti e torni a casa.

In tempi di coronavirus, tutto sembra abbastanza efficiente, addirittura comodo. Io, l’appestato presunto che comunque può circolare all’interno del compound per la sua ora d’aria quotidiana, scendo e trovo il pacchetto con il mio numero di casa e d’appartamento: 1-808, che per inciso in cinese è pure un numero fortunato. Sorge tuttavia spontaneo chiedersi se l’emergenza non stia dando occasione di sperimentare nuove forme di organizzazione umana.

Lo dico così, come l’ho pensato, un’intuizione buttata giù senza alcun approfondimento.

Il capitalismo ha una grande capacità adattativa, diciamo che ha un eccellente sistema immunitario. Sta già lavorando per garantire la riproduzione di se stesso in condizioni mutate, acquisendo anche alcuni vantaggi: dai profitti dei prodotti farmaceutici al delivery che si ferma alle porte della comunità residenziale, cioè la negazione del contatto umano mentre si garantisce il flusso di merci; fino al telelavoro come forma di regolamentazione che garantisce lo sfruttamento continuo dell’individuo monadizzato (anche se all’inizio sembra bello perché lavori da casa facendo le tue cose).

Dobbiamo capire se saremo in grado di adattarci anche noi, quali forme organizzative saremo in grado di darci in queste mutate condizioni.

 

 

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