Recensione del libro di Giorgio Griziotti, Neurocapitalismo. Mediazioni tecnologiche e linee di fuga, Mimesis edizioni, Milano 2016, pag. 254, euro 20. In aggiunta il video di una conversazione con l’autore, Giorgio Griziotti, a cura Officina Multimediale.

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Il collettivo Ippolita, gruppo mediattivista italiano particolarmente interessante, in un recente saggio intitolato Metamorphosis scrive: “L’utile delle agenzie di pubblicità, proprio come il profitto di tutte le imprese sul web 2.0, dipende quasi interamente dalla capacità di sviluppare tecnologie di controllo. Il controllo sociale viene quindi presentato come l’unico modo per innovare, svilupparsi, in futuro. Ma che cosa viene controllato, esattamente, oggi? Le nostre identità e il modo in cui cambiano”. Gli algoritmi di profilatura delle tecnologie digitali si nutrono di biodiversità umana la quale si ritrova incanalata e integrata “in uno spazio Panopticon, completamente trasparente, dove siamo chiamati ad agire pubblicamente”. Da alcune settimane gli analytics di Facebook hanno sviluppato questa vocazione al controllo e alla profilazione, intesi come meccanismi economici sottostanti l’innovazione, inserendo emoticon che consentiranno di ottenere una sentiment analysis automatizzata. Un’analitica delle reazioni degli utenti a diversi tipi di contenuti e il loro livello di empatia.

Benvenuti nel presente, dunque, per chi ancora avesse qualche dubbio sulla realtà contemporanea dei sistemi di accumulazione. Lasciamoci alle spalle le letture nostalgiche (e in fondo rassicuranti) legate alle forme tradizionali, storiche, di divisione del lavoro, si tratti di divisione sessuale o di separazione tra lavoro materiale e lavoro intellettuale: nelle interfacce tecnico-linguistiche che tutti indistintamente usiamo, diviene sempre più limpida la funzione trasversale del processo produttivo della comunicazione sociale a cui tutti siamo chiamati a partecipare, il grande game globale distopico e estrattivo basato su forme nuove di inclusione differenziale del lavoro. Allora, per capire meglio la complessità di tali processi può risultare estremamente utile la lettura di un libro appena pubblicato da Mimesis, Neurocapitalismo. Mediazioni tecnologiche e linee di fuga. L’autore, Giorgio Griziotti, attivista interno al dibattito neoperaista con Uninomade ed Effimera, ingegnere informatico, ha condotto innanzitutto un’analisi fondamentale che ricostruisce dall’interno lo sviluppo dell’invenzione tecnologica applicata al produrre (che cosa significa questa parola, oggi?). Una vera inchiesta, o meglio con-ricerca, che richiama alla mente gli studi condotti da Andrew Ross, nei primi anni Duemila, nelle dot.com.

Si sviscerano qui i passaggi di una rivoluzione profondissima che descrive l’impatto delle TIC (Tecnologie dell’informazione e della comunicazione in inglese Information and Communications Technology con acronimo ITC) su tutte le produzioni, “soprattutto su quelle materiali e industriali”. Produzione di innovazione tecnologica nell’economia della conoscenza collegata al ruolo del general intellect marxiano, la cerniera che unisce le variegate forme del lavoro nella ri-produzione del presente. Tra queste pagine si dipana in modo straordinariamente efficace il business process articolato dal capitale contemporaneo che ha significato, per il lavoro vivo, “obbligo di interazione con la macchina informazionale che è costrittiva, articolata, stimolante e irritante allo stesso tempo”. Così, spesso, tali processi di rengineering “generano la resistenza dei lavoratori a causa dei sentimenti di perdita di libertà e di captazione di valore e di sapere”.

Una storia epica e tutt’altro che lineare, asettica e pacificata come la si vorrebbe descrivere, sventolando solo le agiografie colorate della creatività e dell’invenzione collaborativa e partecipata, delle start up e della economia sharing e open. Viene restituita nei suoi percorsi tecnico-economici e nei suoi riverberi sociali, accompagnati “dall’evoluzione del controllo e dell’assoggettamento dei produttori cognitivi tramite una nuova gerarchia e nuovi metodi di comando che tentano di entrare nell’intimità dei sottoposti generando effetti patogeni diffusi: la moda del suicidio l’ha definita con incosciente cinismo Didier Lombard ex presidente e amministratore delegato di France Telecom, in seguito incriminato per mobbing”.

Siamo ancora negli anni Ottanta quando comincia ad affacciarsi l’assillo di disporre di dati per profilare il cliente e orientarne sentimenti e scelte, ovvero ciò che oggi fb aggiorna in emoij per la like economy e che si serve delle immense mappature ricavate dall’uso delle app dei cellulari, dei Gps, delle email. C’è qui un nodo, centralissimo, squisitamente contemporaneo: la ricerca di informazioni riguardanti affetti e vita delle persone produce profitto (Griziotti scrive, giustamente, rendita), “entra in contraddizione con la pauperizzazione, la precarizzazione e la soppressione delle spese sociali

[…], tuttavia i dati raccolti permettono di perseguire l’obiettivo strategico di assicurare la riproduzione del sistema stesso”. L’estrazione di valore dai processi ri-produttivi dei soggetti sociali consentita dalle interazioni in rete garantisce al sistema di mantenersi saldamente in piedi, ignorando bellamente i problemi relativi alla crisi della misura salariale o al declino dei consumi generati dalla precarizzazione e dall’impoverimento di massa: l’applicazione delle tecnologie al processo ri-produttivo accorda la più immediata e diretta socializzazione del lavoro mai vista e i profitti conseguenti, senza alcuna necessità di mediazioni, prima di tutto salariali (“Espropriazione del lavoro in rete”). Siamo, perciò, alla tensione volontaria nello spendersi dentro un lavoro che ha perso del lavoro la forma, dunque in regime di gratuità e tra indici di disoccupazione crescenti che non hanno più effettivo significato: “in the economy of digital profiling we are simultaneously goods, and producers and consumers of goods” (nell’economia basata sulla profilazione digitale siamo contemporaneamente merci, e produttori e consumatori di merci), ci ricorda, ancora, Ippolita.

Mentre le società di servizi informatici imparano a modulare le proprie attività in funzione di uno sfruttamento del lavoro cognitivo in rete dove anche la divisione internazionale del lavoro tende a cambiare connotati (“è più facile assumere un indiano che un francese. Innanzitutto perché parla bene l’inglese e non conta le sue ore di lavoro”), “la schizofrenia anima il settore delle SSII (Société de services en ingénierie informatique), spiega l’autore: “da un lato esse nascono per concepire strumenti di controllo e recinzione in rete, dall’altro devono mantenere aperti tutti i boccaporti per utilizzare il massimo del free software e open source”.

Si apre così la seconda parte del libro sul Vivere, tra ricostruzioni storiche e teoriche sulle narrative del biopotere e sul potenziale dello sviluppo e delle tecnologia e la realtà materiale a cui la cura della austerità imposta dalla finanza cerca di piegare i corpi. Corpi che soffrono i sintomi di una società ansiogena che lascia “segni sulla pelle e nella carne”, nella relazione tra sistema nervoso, sistema immunitario, sistema endocrino, capacità riproduttiva e l’interattività di canali comunicativi, diversi tra loro, che sollecitano senza sosta il nostro universo sensoriale. Costretti a sanguinare, titola uno dei paragrafi del capitolo e la metafora, o lo slogan, usato da Marco Philopat come titolo del suo noto romanzo sul punk milanese, assume qui i connotati complessi di un sistema che prova a liberarsi anche dei margini da cui muovere contro il controllo sociale. Il concetto di bioipermedia apre un campo di analisi e visioni sulla mescolanza di stimoli che riguardano sia la vita personale che la vita lavorativa, nell’interazione continua “tra corpi e sistemi nervosi organici con il mondo, tramite dispositivi mobili, applicazioni e infrastrutture reticolari”. Qualifica dunque un tipo particolare di dispositivo che sostanzialmente determina e spiega, a un tempo, la condizione umana attuale e risponde a urgenze biopolitiche.

In tutto questo decisiva risulta la formazione operaista dell’autore che invita, nonostante tutto, ad analizzare sempre in profondità gli assetti sociali ed economici, nel correre di tutto il testo: c’è un luogo apparentemente insostenibile dove la finanza pretende di condurci, non è oscuro e misterioso, a noi del tutto sconosciuto né inattaccabile. È lì che abita il potere del capitale contro il quale già abbiamo combattuto.

Tra i due spazi saldati del lavoro e della vita, del produrre e del vivere nel regime di biopolitica o della sussunzione vitale nella bioeconomia, per dirla con Fumagalli, dopo lo svelamento abbiamo dunque la necessità di operare una profanazione radicale che disconfermi la bio-sottomissione. Una pratica, dunque, ecco che cosa serve. Sarà allora Organizzarsi, al riflessivo (e non “organizzare” “perché non implica per forza un fine o un obiettivo e vuole evitare qualsiasi presupposto ideologico”) la terza parte del libro: pur orfani di classe, strappati a una storia che prometteva di avere esiti meno deprimenti ma che costituisce, comunque, un bagaglio straordinario, sapendo che, ancora una volta, non ci sono scorciatoie possibili, vengono analizzate le iniziative di cooperazione “che tentano non solo di creare alternative sul terreno ma uno spazio-tempo dove i modi di funzionamento collettivo provano a neutralizzare i processi di controllo del capitalismo cognitivo”.

Termini come alienazione, reificazione, sfruttamento hanno più senso oggi di ieri e sta a noi ritrovare la strada “nell’intersecarsi di produzione, politica e vita”, per usare le parole di Tiziana Terranova dalla bella prefazione al libro. Il rapporto tra l’affermarsi dello sfruttamento dell’intelligenza collettiva e la richiesta di un reddito universale, tra le istanze di una diversa politica ambientale e le possibilità aperte dalle monete complementari rappresentano la tensione verso “un’organizzazione postcapitalista ad alta flessibilità e a bassa dipendenza” verso cui provano a guidarci le pagine di Griziotti: cercare nel comune l’istinto di una sopravvivenza postcapitalista che spinga, infine, a pretendere la restituzione di ciò che è stato sottratto all’uso comune e a ideare altre forme di scambio, di relazione, di socialità, di vita.

 

 

Immagine in apertura: “L’uomo con la macchina da presa” di Dziga Vertov, 1929.

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