Questo articolo esce anche sul sito  di Obsolete Capitalism, che ringraziamo.

Partiamo dal tuo primo libro pubblicato nel 2009, The Spam Book da te curato in collaborazione con Jussi Parikka. Si tratta di una antologia che riunisce diversi autori che si cimentano, come recita il sottotitolo, con ‘la faccia oscura della tecnologia’. Perché sentivi l’impellenza di indagare, al tuo debutto come autore e curatore, il lato malvagio della cultura digitale? Lo spam vissuto come intruso, eccesso, minaccia, anomalia – ma anche come opportunità. Lì incontri il virus, cioè il paradigma della ‘devianza elettronica’ che dal 2009 in poi, accompagna spesso il tuo itinerario di ricerca…

Ricordo che io e Jussi immaginavamo, scherzando, The Spam Book come un’antitesi di Road Ahead di Bill Gates, ma la nostra prospettiva del lato oscuro non era tanto quella di un lato negativo e «malvagio». Ci siamo focalizzati su oggetti digitali che altrimenti erano oscurati dai discorsi sulla sicurezza e sul panico epidemiologico che li rendevano «malvagi». Dunque la nostra introduzione, in realtà, mirava a sfidare questa discorsività degli oggetti malvagi; questi sono oggetti anomali ed eventi che sembrano turbare le norme dei network corporate. Stavamo cercando anche di allontanarci dalla sintassi linguistica del virus biologico, che ha definito al tempo gran parte del dibattito sul contagio digitale, intrappolando l’anomalia digitale nella metafora biologica dell’epidemiologia e del neo-darwinismo. È qualcosa a cui ho cercato di restare fedele in tutto quello che ho scritto in materia di virus, anche se in The Spam Book, per certi versi, abbiamo fatto ricorso comunque alla metafora biologica. Nonostante ciò, abbiamo cercato di capovolgerla, anziché porre l’accento sugli elementi più maligni (spam, virus e worm) come minacce anomale, abbiamo guardato alla topologia virale delle reti in termini di horror autodistruttivo o di autoimmunità. In altre parole, è la stessa rete concepita per condividere informazioni, a diventare un vettore di contagio autodistruttivo. Ma, al di là di questo, l’anomalia è anche costitutiva della cultura delle reti. Per esempio, il virus informatico stabilisce cosa si può e non si può fare su una rete. In un testo successivo abbiamo anche affrontato i modi in cui la scrittura di spam e virus aveva condizionato le pratiche di marketing online.

[1] In questo contesto eravamo interessati al potenziale di una topologia virale dell’incidente.[2] Digital Contagions di Jussi Parikka si rifaceva al rovesciamento, effettuato da Paul Virilio, della binarietà implicita di materia ed incidente;[3] mentre io mi occupavo, in un articolo su Transformations, di topologia degli incidenti.[4] Entrambi stavamo tentando di prendere le distanze dai principali schieramenti sorti all’interno del dibattito  – per esempio: le meraviglie della condivisione online contro i rischi degli spam – e volgere invece la nostra attenzione alla capacità vettoriale delle reti digitali in cui prosperavano vari incidenti.[5]

Il 2012 è l’anno di pubblicazione di Virality, Contagion Theory in the Age of Networks. Si tratta di un libro importante, non solo per te come autore, ma per tutti noi perché aiuta a focalizzare dal punto di vista filosofico, sociologico e politico, con l’aiuto di Tarde e Deleuze, la viralità come teoria sociale nel nuovo dominio digitale. Dal virus, come oggetto di ricerca, all’azione virale, cioè la diffusione come capacità del sociale, nell’era delle reti, di produrre e subire affetti, fino al contagio come teoria ipnotica di comportamenti collettivi. Riguardo al fenomeno virale intensivo, e al relativo controllo del contagio, che tipo di movimento, o scambio, possiamo ipotizzare si svolga tra le reti e i soggetti?

Prima di rispondere nello specifico a queste domande, occorre che sottolinei quanto importante è stato Tarde per questo libro. Anche le teorie di Deleuze e Guattari vengono lette attraverso il loro omaggio a Tarde. La sua teoria del contagio mi ha aiutato ad evitare metafore di carattere biologico, come il meme, che vengono discorsivamente applicate in contesti non-biologici. Ma ancor più cruciale è il modo in cui egli apre uno spazio critico in cui la separazione tra natura e cultura può collassare.

Dunque per rispondere alla vostra domanda sul campo digitale e sul controllo, occorre considerare che Tarde concepiva il contagio come incidente. Nonostante esso sia l’elemento principale che dà vita alla socialità, a tal punto che anche quando cerchiamo di andare controcorrente rimaniamo comunque in un certo senso prodotti dell’imitazione, Tarde non offre molte speranze riguardo ai modi in cui questi contagi possono essere controllati o contenuti. Egli cita brevemente lo sviluppo o il nutrimento dell’imitazione, ma non sviluppa l’argomento. Tuttavia, Virality arricchisce il pensiero di Tarde con la teoria degli affetti (alcuni lo ritengono infatti un teorico degli affetti ante litteram), addizione che produce diversi effetti. Quando noi aggiungiamo alla sua nozione di folla i concetti di atmosfere affettive  – che comprendono il ruolo dell’umore, dei sentimenti e delle emozioni, e la capacità di preparare il terreno e far maturare un impeto d’animo – vediamo allora emergere un nuovo tipo di potere nella dinamica del contagio.

Se da una parte non dobbiamo perdere di vista l’«incidente» di Tarde, dall’altra dobbiamo anche rilevare che un contagio affettivo imprevedibile possa essere attivato, al fine di ottenere un certo effetto. Detto brutalmente, non possiamo causare viralità o avviarla semplicemente premendo un pulsante, ma la possiamo perturbare o spingere verso potenziali stati di divenire vettoriali. Questo mostra come piccoli cambiamenti possano diventare grandi mutamenti; per esempio, il modo in cui la produzione di un certo stato d’animo può eventualmente territorializzare un network. In ogni caso, ogni eccesso contagioso potenziale è un ritornello che potrebbe collassare in qualsiasi momento in una imprevedibile via di fuga.

La svolta affettiva, sebbene abbia consentito nuove prospettive critiche su come le cose si potrebbero diffondere in rete, ha viceversa fatto emergere venditori digitali e strateghi politici che attuano strategie di emotional branding e marketing esperienziale – e dunque sono particolarmente attenti agli stati d’animo degli utenti. L’intera economia dei “like” dei social media è progettata, ovviamente, sulle emozioni. L’esperimento di contagio emotivo condotto immoralmente da Facebook nel 2014 è un esempio di quanto possano arrivare lontano questi tentativi di indirizzare gli «incidenti» del contagio.[6

Nel 2017, a cinque anni di distanza da Virality, esce The Assemblage Brain, giusto all’alba di un nuovo cambio paradigmatico in politica. Abbiamo infatti avuto negli Stati Uniti – presi come benchmark dello sviluppo attuale delle élite occidentali e come metafora stessa del potere – il passaggio dalla presidenza di Obama a quella di Trump: ambedue hanno utilizzato i network per diffondere il proprio messaggio politico lontano dalla tradizione, utilizzando ciò che tu hai chiamato ‘political unconscious’. Dal tuo punto di vista di studioso del contagio e dell’utilizzo politico dei network, che lezioni ne trai?

Nel Regno Unito stiamo ancora discutendo su quale tipo di distopia stiamo vivendo: 1984 di Orwell, o Il nuovo mondo di Huxley? Quindi è buffo che qualcuno abbia definito il mio libro come un romanzo distopico. “Sicuramente tutte queste cose terribili non sono ancora successe, no?” “È solo un monito su dove potremmo finire in futuro.” Non ne sono così sicuro. Cito alcuni romanzi che hanno ispirato la società del controllo di Deleuze, ma per molti versi credo di aver sottovalutato quanto le cose siano davvero peggiorate.

È un panorama complesso, ma stanno emergendo alcune trame familiari. Lo spostamento populista delle masse verso destra è stato in parte visto come una reazione di classe alle vecchie élite neoliberali e alla loro economia contraddistinta da bassi salari e da grandi ricchezze per pochi. Abbiamo sperimentato questa ricaduta anche qui nel Regno Unito con la Brexit. Alcuni elementi della classe operaia sembravano tifare con veemenza per Farage. La Brexit è stata, forse, un efficace virus fabbricato sull’emotività. Sicuramente ha scatenato un certo tipo di incoscienza politica, andando ad attingere ad un orribile mix di nazionalismo e razzismo sotto quello che sembrava uno slogan emancipante, anche se in ultima analisi si è rivelato oppressivo: “Riprendiamoci il nostro paese”. Infatti, i dati mostrano che sui social media sono stati condivisi molti più messaggi per il “Leave” che per il “Remain”.

Tuttavia, quelli che si sono affrettati a scaricare la colpa su una classe operaia bianca sonnambula che si sarebbe coalizzata contro l’élite neoliberale, hanno interpretato male ciò che è successo. La Brexit ha rappresentato un’ampia attrattiva emotiva per tutti quei nazionalisti delusi, appartenenti a qualsiasi classe sociale, che temevano che il paese avesse perso la sua identità a causa del libero movimento di persone. Questa accelerazione verso destra è stata, ovviamente, manovrata dai raggiri di una sospetta coalizione globale di politici fascisti e capitalisti – élite come Farage, Johnson e Gove qui, e gli «zucconi» di Trump negli USA.

Cosa possiamo imparare dal ruolo che i media digitali hanno giocato in questo raggiro? Stiamo già capendo molto sull’azione delle filter bubbles che propagano queste suggestioni tendenziose – fake news comprese. Dobbiamo prestare maggiore attenzione anche a ciò che riguarda le tecniche di condizionamento dei comportamenti sviluppati dalla Cambridge Analytica e ai network di destra che connettono tale minacciosa coalizione globale al miliardario americano Robert Mercer. Evidentemente, chi afferma che l’analisi comportamentale di dati personali raccolti attraverso i social media possa portare alla manipolazione di massa, probabilmente esagera; tuttavia, queste manipolazioni potrebbero influenzare in modo ridotto e mirato, e portare a qualcosa di più grande. I teorici digitali dovrebbero concentrarsi anche sull’efficacia del supporto che Trump dà ai bot di Twitter, e agli affetti che egli genera con la sua rozza schiettezza da troll senza filtro.

Tuttavia, non possiamo ignorare gli incidenti di tale influenza. Di recente, mi sto chiedendo se stiamo assistendo a una svolta negli eventi. Certamente qui nel Regno Unito, dopo le elezioni politiche, UKIP appare come una forza politica esausta, almeno per ora. Il BNP, il partito nazionalista inglese, è collassato. I Tories ne escono estremamente indeboliti. Se da un lato non possiamo ignorare l’aumento del numero di crimini d’odio estremi commessi da simpatizzanti dell’estrema destra, dall’altro lato, nonostante si fosse sull’orlo della disperazione e molti sentissero un dolore insopportabile, c’è di nuovo speranza. “Riprendiamoci il nostro paese” è stato sostituito dal nuovo speranzoso tormentone “Oh Jeremy Corbyn!”.

Si possono fare alcuni paragoni con l’inaspettata vittoria elettorale di Obama. Una buona parte dell’affetto per Obama nacque da piccoli post emotivi sui social media. Analogamente, la recente carriera politica di Corbyn è emersa da una serie di eventi quasi accidentali, a partire dalla sua elezione come leader del partito, fino all’ultimo risultato elettorale. L’opinione pubblica, che prima era inconsciamente e masochisticamente a favore dell’austerità, ora gli si è rivoltata contro. L’incendio shock della Grenfell Tower pare aver avuto sulla austerity dei conservatori lo stesso impatto che l’uragano Katrina ebbe sul poco empatico G.W. Bush.

È interessante come la campagna di Corbyn sia riuscita a cavalcare l’onda dell’opinione dei social media con alcuni messaggi edificanti e positivi costruiti su idee programmatiche, al contrario dell’allarmismo della destra. I Tories hanno speso un milione di sterline in pubblicità negativa su Facebook, mentre il Labour si concentrava sul produrre video positivi, motivanti e condivisibili. Lo slancio è poi arrivato anche da programmatori, designer, ingegneri UI/UX che lavoravano su app; loro hanno galvanizzato il supporto sul campo.

Veniamo ora al tuo ultimo libro The Assemblage Brain. Prima ancora di partire con le domande specifiche, vorremmo chiederti che cos’è per te la ‘neurocultura’. Dato che è evidente che tu non affronti la neuroculture – o almeno non solo – dal punto di vista biologico, o psicologico, o – cosa abbastanza comune negli ultimi anni – da quello dell’economia e del marketing. Che approccio hai dunque usato per definire e delineare la neuroculture, e in particolare, ciò che tu chiami ‘neurocapitalismo’?

L’idea su cui si fonda il libro viene principalmente dalle critiche alle citazioni estemporanee dei neuroni specchio già presenti in Virality. Sia Tarde che Deleuze si sono confrontati approfonditamente con le scienze neurali, e io ho seguito la stessa traiettoria trans-disciplinare. Tuttavia, questo confronto con la scienza non si presenta senza problemi. Così ho trascorso un po’ di tempo a pensare come il mio lavoro si potesse legare alla scienza, così come all’arte. C’erano delle contraddizioni da conciliare. Da una parte, avevo seguito la neuro-traiettoria di Deleuze, ma dall’altra, il pensatore critico che è in me non era a suo agio a causa del ruolo che la scienza gioca nei circuiti culturali del capitalismo. Non scenderò troppo nel dettaglio, ma il libro comincia considerando quello che sembra un ritorno sui propri passi di Deleuze e Guattari nel loro canto del cigno Cos’è la filosofia? In breve, come sostiene Stengers, la filosofia della contaminazione nei loro lavori iniziali viene verosimilmente sostituita da un annuncio quasi biblico: “non mischiarti!” Ma sembra che la ricomparsa di confini disciplinari aiuti noi a comprendere meglio come superare le diverse enunciazioni della filosofia, della scienza e dell’arte, e infine produrre, con il metodo dell’interferenza, un tipo di filosofia, di scienza e di arte non localizzate.

Cos’è la Filosofia? di Deleuze e Guattari è principalmente un’opera sull’incontro tra cervello e caos. È un resoconto contro-fenomenologico alla Whitehead di come il cervello metta in discussione tutta la nozione di materia e di cosa nasca da lì. Penso che il tema del libro ci rimandi anche al Bergson anti-locazionista di Materia e Memoria. Pertanto, in parte, The Assemblage Brain è un libro di neuro-filosofia. Esplora la tesi del cervello emozionale e la natura profondamente ecologica della creazione di senso non-cognitiva. La prima parte, però, traccia una traiettoria neuro-politica del controllo che lega le neuroscienze al capitalismo, particolarmente evidente nella svolta emotiva che vediamo nella gestione del lavoro digitale e nelle nuove tecniche di marketing, così come nel ruolo dei prodotti neuro-farmaceutici nel controllo dell’attenzione.

Si può quindi dire che il neuro-capitalismo è iniziato con l’annuncio di G.W. Bush relativo agli anni novanta come decennio del cervello (Decade of the Brain). Da quel momento, gli investimenti del governo e delle industrie nelle neuroscienze hanno ecceduto quelli nella genetica, e si sono diffusi in ogni sorta di applicazione commerciale. Ora, è proprio sul lato “scientifico“ della formazione discorsiva delle neuroscienze che dobbiamo concentrarci.[7] Ma come procedere? Dovremmo analizzare questo discorso? Certamente il problema con l’analisi dei discorsi è che essa stronca frettolosamente la scienza, accusandola di fabbricare fatti concreti a partire dai risultati ipotetici della sperimentazione, anziché cercare di comprendere le implicazioni della sperimentazione stessa. Per sfidare il neuro-capitalismo, a mio parere, dobbiamo prendere sul serio sia la sperimentazione concreta che quella ipotetica. Invece di concentrarci troppo sul creare una distanza critica, dobbiamo chiederci che cosa la scienza stia cercando di rendere funzionale. Per esempio, la teoria critica deve relazionarsi con la neuro-economia e con le successive affermazioni che sono state fatte sul ruolo che le neuro-sostanze hanno nella relazione tra emozione e scelta, tra dipendenza e uso della tecnologia, e tra attenzione e consumo. Essa deve anche mettere in discussione l’estensione con la quale la svolta emozionale nelle neuroscienze è stata integrata nei circuiti culturali del capitalismo. Occorre che la teoria critica si domandi perché i neuroscienziati, come Damasio, vengano pagati per fare discorsi di apertura alle conferenze di neuromarketing!

Ancora Spinoza: dopo “Che cosa può un virus?” – in Virality – sei passato a “Che cosa può un cervello?” in Assemblage Brain. Ci puoi raccontare il tuo passaggio d’interesse dal virus al cervello e, allo stesso tempo, cosa ti permette di raggiungere, all’interno del tuo itinerario di ricerca, l’interrogativo di Spinoza: Che cosa può un corpo? Quale potenziale creativo attribuisci al cervello? E quali ‘incidenti nascosti nel cervello stesso’ – per usare la prospettiva di Virilio – risiedono nel tuo domandare ‘Che cosa si può fare a un cervello?’ in quanto pericolo insito nella sostanza neurale applicata allo sviluppo tecnologico? La linea del fronte sembra passare oggi nella zona cerebrale dell’individuo e nei processi di soggettivazione sottoposti a un diagramma regolante di tipo neurale…

Si, la seconda parte del libro si concentra sul potenziale liberatorio di ecologie legate all’attività neurale. Non intendo solamente la plasticità del cervello. Non sono così convinto dall’idea di Malabou che possiamo liberare il cervello arrivando a conoscerne il potenziale plastico.[8] Questo fa senz’altro la sua parte, ma rischiamo di trasferire semplicemente la sovranità del sé alla sovranità del sé sinaptico. Sono meno interessato al senso della personalità derivata linguisticamente che troviamo qui, in cui ci si aspetta che il simbolico ci possa spiegare chi siamo (il sé che dice “io”). Sono più interessato all’avvertimento di Malabou che la plasticità del cervello rischi di essere presa in ostaggio dalle nozioni neoliberali di flessibilità del lavoratore individualizzate.[9] Il testo di John Protevi, ispirato a Spinoza, riguardante le adunate naziste di Norimberga, acquista maggiore importanza in questo libro.[10] Esistono diversi tipi di potere sensoriale che producono sia dei seguaci del nazismo ancor più passivi e sonnambuli, sia un potenziale collettivo incline all’azione antifascista. Entrambi agiscono su una popolazione tramite registri affettivi, che non sono necessariamente positivi o negativi, ma sono piuttosto stimoli sensoriali che producono certi stati d’animo. Dunque, Protevi trae utilmente spunto dalla neuroscienza sociale di Gilles Deleuze e Bruce Wexler per sostenere che la soggettività sia sempre costruita (o in divenire) in modi profondamente razionali. Attraverso la nostra relazione con chi si prende cura di noi, per esempio, possiamo vedere come la soggettività sia una produzione multipla, mai scontata – piuttosto una proto-soggettività in formazione. Infatti, la cura in sé è un’azione estremamente sensoriale e relazionale. Il problema è che l’educazione dei nostri sensi avviene in sistemi sempre più caratterizzati dal disinteresse; da Norimberga all’Era dell’Austerità. E non si tratta solo di paura. I nazisti si focalizzano sulla gioia e sul piacere (Freude) che agiscono sullo stato d’animo di una popolazione; questa azione produce sentimenti razzisti e un senso di superiorità sufficienti a preparare la guerra e l’Olocausto. Il capitalismo, analogamente, agisce per pacificare i consumatori e i lavoratori; agisce per mantenere “tutti felici nel presente”, malgrado la pulsione inconscia, l’obsolescenza e lo spreco, nonché il disinteresse verso il degrado ambientale. In condizioni estreme, nei campi di concentramento nazisti, coloro che provavano empatia erano quelli che avevano più probabilità di morire. I sentimenti erano completamente azzerati. Nei casi citati, ritroviamo sempre questi sistemi di potere che agiscono contro ogni attenzione e cura; in essi, ogni volta, viene negata la capacità collettiva di accedere al potere. Nonostante ciò, i cervelli sono profondamente ecologici. In momenti di estrema privazione sensoriale, essi cominciano a creare immagini e suoni. Un cervello socialmente isolato ne immagina altri. In questo contesto, è interessante come Wexler ci riporti alla crucialità di relazioni imitative. Ancora una volta, troviamo qui una relazione imitativa che ignora il senso linguistico di una personalità interiore (una relazione di interiorità) e punta invece a comprendere il senso relazionandosi con l’esterno. Senza dover ricorrere ai neuroni specchio, mi sembra che ci sia un’argomentazione forte in favore dell’imitazione sotto forma di relazione affettiva, che può funzionare su entrambi i versanti dei registri affettivi di Spinoza.

Parliamo ora di Controllo specializzato e ‘neurofeedback’. Il neuro-soggetto come schiavo futuro dal comportamento sedato. È possibile addestrare, o comunque correggere, il cervello? Ritorniamo di nuovo alla diade politica e neurocultura. È paradossale quanto l’amministrazione Trump sia già organicamente neuro-politica. La Neurocore, ad esempio, è un’azienda di Betsy DeVos, ministra dell’istruzione nella nuova amministrazione Trump. È specializzata in neuro-feedback, una tecnica in cui una persona impara a modulare, e dunque a controllare, funzioni cerebrali interne, o esterne, come alcune interfacce cervello-computer. Neurocore afferma che è in grado di manipolare positivamente gli impulsi elettrici delle onde cerebrali. Cosa ci possiamo aspettare dalla ricerca di benessere mentale attraverso il neurofeedback e/o dalla manipolazione cerebrale auto-regolata o digitalmente auto-potenziata, in politica e nella società più in generale?

Certamente le affermazioni fatte da queste aziende che si occupano di addestramento del cervello sono solo neuro-speculazioni che fanno leva sull’effetto novità e che cercano il successo negli affari. Sono imprenditori a caccia di soldi. Tuttavia ritengo che questo focus sull’ ADHD (Disturbo da Iperattività e Deficit di Attenzione) sia interessante; risponde anche alla domanda precedente rispetto all’essere neuro-tipici. Neurocore, come altre imprese simili, afferma di essere in grado di trattare i vari sintomi del disturbo dell’attenzione applicando la neuroscienza. Ciò significa fare una diagnosi attraverso un EEG (elettroencefalogramma) – ossia guardando alle onde cerebrali associate con l’attenzione, o la disattenzione – e poi l’applicazione di tecniche di neurofeedback non invasive, piuttosto che intervenire con dei farmaci. Attraverso la stimolazione di certe onde cerebrali potrebbe essere possibile produrre un certo grado di cambiamento comportamentale, analogamente a quello che hanno fatto Pavlov o Skinner. Ma a parte queste rivendicazioni specifiche, c’è una relazione generale e politica tra gli ambienti sensoriali del capitalismo[11] e certi stati somatico-cerebrali. Credo che queste relazioni siano cruciali per comprendere la natura paradossale e distopica del neuro-capitalismo. Per esempio, molti ritengono che l’ADHD sia legato ad un malfunzionamento dei recettori della dopamina e che possa essere diagnosticato attraverso certe onde cerebrali (esiste negli USA una diagnosi attraverso EEG certificata dalla FDA, US Food and Drug Administration), ma la condizione stessa è un mix paradossale di attenzione e disattenzione. Da un lato, le persone con ADHD sono distratte da ciò a cui neuro-tipicamente ci si aspetta facciano attenzione, come la scuola, il lavoro, pagare le bollette, ecc. e, dall’altro lato, sono super-attente alle cose che vengono ritenute distrazioni, come i videogiochi e altre ossessioni, su cui loro trascorrono una quantità di tempo sproporzionata. Qui c’è un chiaro tentativo di manipolare certi tipi di attenzione attraverso modi diversi di stimolazione sensoriale. Tuttavia, ciò che è neuro-tipico a scuola, sembra contrastare con ciò che è neuro-tipico in un centro commerciale. Disattenzione, distrazione, disorganizzazione, impulsività e irrequietezza sembrano essere prerequisiti comportamentali dell’iper-consumo. Non sorprenda dunque che ADHD, OCD e la demenza diventino parte della strumentazione del neuro-venditore; in altre parole, il consumatore viene modellato da una serie di patologie neurologiche e diventa il consumatore sbadato, la cui attenzione viene sempre messa alla prova, e i cui slanci compulsivi risultano essenziali per sviluppare un’ossessione per i marchi (brand obsession). Tutto questo si collega alla tesi di Deleuze sulla società del controllo, alla sua identificazione del marketing come il nuovo nemico, e della potenziale infiltrazione di neuro-farmaci e onde cerebrali come la nuova frontiera del controllo. Nel libro cerco di risalire alle origini della tesi della società del controllo, che si può ritrovare chiaramente nelle distopie di Burroughs — e implicitamente in Huxley. Si può rintracciare un evidente scambio paradossale tra libertà e schiavitù, gioiosa imposizione e oppressione. In breve, le distopie più efficaci sono sempre quelle travestite da utopie.

Che cos’è allora il cervello «concatenato»? Convochi al capezzale di questo cervello del futuro una precisa linea di pensiero che tocca Bergson, Tarde, Deleuze, Guattari, Whitehead, Ruyer e Simondon. A un certo punto scrivi ‘ogni cosa è in potenza un «divenire cervello»’ Perché? E che tipo di interferenze invochi contro il modello cibernetico della mente che sembra oggi prevalente?[12]

Sebbene non menzioni molto Whitehead nel libro, credo che la sua idea di una teoria della natura non biforcata sia il punto di partenza per il cervello «concatenato». Certamente, quando arrivo a discutere La Piega di Deleuze, Whitehead è presente in tutto tranne che nel nome. C’è questa bellissima citazione che ho utilizzato in un recente articolo che illustra alla perfezione quello che voglio dire:

Noi non possiamo determinare con quali molecole il cervello comincia e il resto del corpo finisce. Inoltre, non sappiamo con quali molecole il corpo termina e il mondo esterno comincia. La verità è che il cervello forma un continuum con il corpo, e il corpo con il resto del mondo naturale. L’esperienza umana è un atto di auto-origine che comprende la natura intera ed è limitato alla prospettiva di una regione focale collocata all’interno del corpo, ma che non persiste nel coordinarsi in maniera rigida con una parte definita del cervello.[13]

Ciò cattura la posizione anti-locazionista del libro, che si schiera contro una serie di posizioni locazioniste nella neuro-cultura che spaziano dalla cosiddetta frenologia da fMRI (Risonanza Magnetica Funzionale) alla neuro-filosofia del platonico Tunnel dell’Ego elaborato da Metzinger.[14] Il modello cibernetico del dar senso è un modello locazionista in grande stile.[15] Il cervello cognitivo è un computer che immagazzina rappresentazioni in un modello mentale che sembra aleggiare al di sopra della materia, comunicando con il mondo esterno attraverso processori interni che codificano e decodificano informazioni. Anche quando queste informazioni diventano ampiamente diffuse nelle reti esterne, il modello del cervello non cambia, poiché incontriamo le stesse proprietà interne[16] in questa assurda nozione di un mega-cervello, o intelligenza collettiva.[17] Troviamo un grande antidoto alla concezione del mega-cervello nella monadologia sociale di Tarde, ma è Deleuze in La Piega che sconvolge in modo brillante l’intera idea che l’esterno non è nulla di più che un’immagine archiviata dell’interno, poiché l’interno non è altro che una piega dell’esterno.

Per controbattere ancor di più queste prospettive locazioniste sul dar senso – le limitazioni della regione focale di Whitehead – occorre ripensare la questione della materia e cosa derivi da essa. Per esempio, l’uso che Deleuze fa di Ruyer produce l’idea che tutto sia potenzialmente divenire cervello. Esistono perciò micro-cervelli dappertutto nel concatenamento non biforcato di Whitehead – per esempio, il calore del sole percepito dalla società di molecole che compone una roccia.

C’è qui una evidente questione politica. L’esempio dell’ADHD che ho menzionato è una strategia locazionista. Essa argomenta infatti che le nostre risposte alle sollecitazioni e alle problematiche sperimentate nel mondo di oggi, possono essere fatte risalire a un problema che inizia all’interno della nostra mente. Al contrario, è nel relazionarci con i sistemi dell