Pubblichiamo un estratto dalla ottima introduzione al libro Smagliature digitali. Corpi, generi, tecnologie (Agenzia X Edizioni, Milano 2018), scritta dalle quattro curatrici. “Nelle riflessioni sulla relazione tra corpi e tecnologie si pone spesso l’accento sui processi di disincarnazione, di smaterializzazione, da un lato con i toni dell’entusiasmo, dall’altro con quelli della catastrofe”. “Questo libro è invece incarnato, si sottrae al binarismo, si insinua negli spazi in beetween, là dove i margini non sono confini”. Gli interventi raccolti nel testo “provano a elaborare nuove teorie e pratiche di critica radicale al tecnocapitalismo, uniti da un filo conduttore: smascherare i dispositivi di potere e i loro complicati intrecci”

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Le riflessioni sulla relazione tra corpi/tecnologie/cyber-spazi si concentrano spesso sui processi di disincarnazione, di smaterializzazione, da un lato coi toni dell’entusiasmo, dall’altro coi toni della catastrofe, “oscillano tra deliri d’onnipotenza e paranoie d’impotenza totale”,

[1] ma “guardare criticamente alle contraddizioni della tecnica, nonché ai rapporti di forza del presente, non necessariamente coincide con una condanna della tecnica”.[2] Sono posizioni polarizzate, che tendono, volutamente, ad annullare tutto quello che si trova in mezzo. Concreto vs Astratto, Fisico vs Virtuale, Spazio vs Cyberspazio, sono tutte medaglie a due facce, sono la dimostrazione di quanto sia difficile uscire dalla coazione a pensare per poli opposti.

“Binarism is for computer” recitava una scritta nera su un cartello fucsia alla manifestazione bolognese di Non Una di Meno dell’8 marzo 2018. Ma il pensiero binario è riposante, dà l’impressione di fare una scelta, è come un’opzione Tutto Incluso, fa sentire corretti e, forse ancora più importante, fa sentire sorretti.

Questo libro è un@ cyborg transfemminista queer che si rifiuta di giocare a testa o croce.

[…]

Se “nella cultura dominante il sistema operativo di default è Windows, la sessualità di default è bianca, monogama, monoparentale, l’abitudine è una nicchia di mercato”, scrive Lucia Egaña Rojas, solo strumenti conoscitivi che possano aiutarci a riconoscere e sfidare le gerarchie e i sistemi di potere impliciti in un sistema di pensiero polarizzato e dicotomico possono condurci verso “una tecnologia transfemminista (che) si fonda sull’irripetibilità del piccolo gesto, sulla serendipità e sulla casualità”.[3] Mettere in discussione le categorie e gli strumenti attraverso i quali si osserva il mondo per comprendere le nuove relazioni tra corpi, generi e tecnologie, apre una serie di questioni epistemologiche di ridefinizione del rapporto tra sapere e tecnologia. In questa direzione Haraway[4] contesta il concetto di oggettività, insistendo sulla necessità di riconoscere come parziale ogni punto di vista. La riflessione femminista sulla costruzione del sapere rivendica, infatti, una pratica consapevole in cui le “storie personali” siano utilizzate come strumento per illuminare le scelte teoriche, dove le differenze siano considerate dimensioni relazionali e non connaturate, dove ai corpi sia riconosciuta consapevolezza sociale e culturale. Da dove parlano, dunque, le autoru di questo libro? A partire dal concetto centrale nell’epistemologia femminista per cui il soggetto è situato in un determinato contesto, e di conseguenza il sapere sviluppato è un sapere incarnato, le autoru di questo libro sviluppano un sapere intorno a, e con, le tecnologie che si nutre prima di tutto di corpi e delle esperienze. Dando vita, così, a un processo di costruzione di conoscenza incarnato, in movimento, che ridefinisce i confini tra margine e centro, sfidando rassicuranti dicotomie di pensiero e pratica.

[…]

“Le strade libere le fanno le donne che le attraversano” non è uno slogan, è un progetto, un pensiero che si incarna, e vale anche per le strade elettroniche. Si può leggere “Gli spazi, compresi quelli cyber, li fanno le soggettività fuorinorma che li attraversano”, implica riconoscere che anche gli spazi non sono univoci, si trasformano e, soprattutto, si possono trasformare.

Da un punto di vista transfemminista il corpo stesso diventa uno spazio, “il corpo è un luogo dove la performance prende vita e ha un valore di strumento di resistenza e di rottura delle norme che regolano gli spazi pubblici. In questa prospettiva il corpo può diventare uno strumento di trasgressione delle norme sociali dominanti in un determinato spazio”.[5]

Il corpo è spazio biopolitico per eccellenza, è luogo che definisce luoghi, su di esso si agisce la violenza della norma, attraverso di esso si agisce il cambiamento.

Il corpo ri/crea lo spazio che attraversa, cambia i suoi connotati. Parafrasando un passaggio di Alice nel Paese delle Meraviglie: Se lo conoscessi come lo conosco io non parleresti di LUI. Parleresti di LORO.[6]

Spazio, come femminismo, come corpo, è plurale, anche quando lo si legge al singolare. Pensiamo il corpo-spazio nei termini di una somateca (Preciado), ossia come un archivio di finzioni politiche vive che in nessun modo possono costituire un unico corpus. Le tecnologie digitali occupano oggi una superficie molto ampia di questo archivio, per gli ineluttabili, poiché voluti ma anche subiti, legami che i nostri corpi hanno intessuto con esse.

“Questo archivio è in realtà un corpo, o meglio, questo archivio è il mio corpo. […] Questo mio corpo-archivio, non è apparso dal nulla, la sua esistenza sarebbe stata impossibile senza il riconoscimento della genealogia di altrx dissidenti del genere e della sessualità”.[7]

Tuttavia, questo spazio-archivio subisce continue trasformazioni e “se il “cyberspazio” un tempo offriva la promessa di sfuggire alle costrizioni delle categorie identitarie essenzialiste, il clima dei social media contemporanei ha oscillato con forza nella direzione opposta ed è diventato un teatro dove ci si prostra continuamente all’altare dell’identità”.[8]

La tecnologia è sempre il prodotto di un’organizzazione sociale della quale mira a riprodurre i rapporti di potere e le categorizzazioni, e il gesto di decostruirla è un gesto politico proprio perché spezza questa catena di riproduzioni inserendo variazioni, consapevolezza, posizionamenti e materialità. Rinunciare a utilizzare gli strumenti del padrone, quindi, non significa rinunciare alla tecnica, ma all’organizzazione dalla quale è prodotta e che ricrea. Per questo è fondamentale tenere conto dell’invito di Rachele Borghi e Zarra Bonheur a rivolgere lo sguardo verso il margine più che verso il centro, verso gli usi impropri delle tecnologie più che verso il loro sviluppo lineare, perché questo “ci permette non solo di vedere i margini ma soprattutto di vedere che sono abitati, che ad ogni spazio-centro corrisponde un margine occupato, spazi liberati che possono diventare il terreno in cui edificare l’utopia”.[9]

Nei vari interventi di questo testo, significativamente, i margini e i confini sono indagati in molti aspetti diversi: da quelli tra il corpo e le tecnologie e quelli molto concreti degli spazi urbani (come nell’esperienza di un ebook che diventa passeggiata di Eva Kunin), fino a quelli tra gli Stati. Anna Casaglia, ad esempio, ci parla del confine tra Messico e Stati Uniti come di un luogo di sessualizzazione e di riproduzione di immaginari, mettendo in luce come “attraversare i confini significa spesso andare oltre i propri limiti, maturare, scoprire cose nuove, e le immagini che accompagnano questo attraversamento sono di frequente legate a un’idea di seduzione. […]”.[10]

[…]

Parlare del rapporto corpi-tecnologie-genere, significa situarsi esattamente all’interno di tale spazio di mostruosità e abiezione. Significa occuparsi di tutto ciò che sconvolge, snatura, riarticola e rende visibili i legami normativi – generalmente dati come scontati – tra la specificità biologica del corpo umano genderamente differenziato, i ruoli sociali e gli status che una particolare conformazione corporea è presupposta introiettare. È questa una prospettiva che, in altre parole, mette a tema il rapporto soggettivamente vissuto tra la percezione di genere, le aspettative sociali ad esso correlate e i meccanismi culturali che lavorano per sostenere o contrastare specifiche configurazioni gendered. Situarsi dall’interno di tale rapporto indica anche la possibilità di una comprensione diversa dei significati e delle rappresentazioni dei corpi narrati come “legittimi”: questioni a prima vista teoriche che tuttavia hanno conseguenze concrete sulle condizioni di vivibilità delle soggettività.

Nel lavoro di boicottaggio del sistema dualistico dei generi, sono centrali le nuove tecnologie, mezzi materiali e discorsivi capaci di fornire tanto l’accesso agli script di genere, quanto le chiavi per la sottrazione da questi.

Il corpo si rivela lo spazio attraverso cui le relazioni di potere possono venire contestate o confermate e nel quale i significati simbolici e culturali che gli individui assegnano ai loro stessi corpi (e ai corpi altrui) si scontrano o si convalidano a contatto con i valori e le norme attraverso cui un’intera società pensa i corpi.

[…]

Sono le esperienze tecno_trans_femministe che portano alla luce l’indissolubilità del rapporto esistente tra soma – il corpo, come costrutto culturale intellegibile – e technè – le tecniche nelle quali e attraverso le quali i corpi prendono forma, si trasformano e si (ri)posizionano. Le biotecnologie di mutazione del corpo trans, così come i dispositivi atti alla produzione del piacere per e attraverso quegli stessi corpi, non sono dunque mere “protesi” artificiali, installate su corpi “naturali” ma – proprio perché biosono il corpo stesso.

[…]

I contributi che si trovano in questo testo, ci dicono che le esperienze tecno_trans_femministe sono capaci di rivelare il funzionamento dei sistemi e delle istituzioni che producono contemporaneamente possibilità di vivibilità per alcuni soggetti mentre le precludono ad altri; esplicitano dimensioni problematiche che investono il rapporto tra corpi e tecnologie (basti pensare agli sviluppi relativi alla fecondazione in vitro, al trapianto di organi, all’ingegneria genetica), rendendo sempre più evidente la labilità dei confini dei corpi e la loro stessa duttilità. Non di meno, il divenire risorsa economica del corpo nell’attuale contesto neo-liberista – proprio come conseguenza dello sviluppo delle biotecnologie, delle industrie farmaceutiche e del piacere – ne ha portato alla luce nuove possibilità e contraddizioni, a partire dal suo essere spazio di creazione di significati e, al tempo stesso, significante culturale e sociale.

[…]

Come mette in luce Elisa Virgili “corpo e tecnologia non sono mai stati così ibridi, il confine tra corpo singolo, collettivo e tecnologie digitali viene frammentato per produrre resistenza”.[11] I corpi, quindi, diventano porosi ed emerge in maniera più chiara l’artificialità delle distinzioni sessuali e di genere grazie alla possibilità di modificarle attraverso diverse tecnologie. Ma i corpi si portano dietro anche la storia delle loro oppressioni e, come sostiene Lucía Egaña Rojas, “il corpo ha una memoria, non bisogna andare troppo lontano, una tecnologia transfemminista porta incisa sulla carne la reclusione di Angela Davis, la caccia alle streghe, le trans morte in una qualsiasi frontiera, nelle loro case. […] La tecnologia è materiale. Non è un’astrazione. Nella Silicon Valley la banda larga sorvola i tetti delle maquiladoras. La tecnologia è un fatto geologico, colmo di strati sovrapposti a formare disegni strutturali a partire da cataclismi, cicatrici e piogge dorate”.[12] Non soltanto, quindi, la tecnologia permette di ripensare i corpi, ma i corpi stessi sottolineano la materialità della tecnologia, della sua storia e delle sue applicazioni. Angela Balzano, ad esempio, ci mostra i lati oscuri delle tecnologie riproduttive, che reificano i desideri di genitorialità e finiscono per rivolgersi soltanto alle potenziali madri: “riaffiora così la retorica della sacralità della riproduzione, anche ai tempi dell’intersezione tra dispostivi informatici e mercati bio-tech: ma superare la natura in nome del miracolo della vita, insistendo a senso unico sul “sogno della maternità”, non vuol dire riproporci, con mezzi nuovi, la vecchia ricetta essenzialista della donna-madre?”.[13]

E questa enfasi sui corpi e sui loro posizionamenti è fondamentale per non cadere nella tentazione di vedere nelle tecnologie delle utopie già in atto.

[…]

Certo, “le relazioni con i luoghi, come quelle con le persone, sono costellate da pregiudizi, lacerate da contraddizioni e complicate da opache risposte emotive”,[14] non ci sottraiamo al dolore, non vogliamo essere eroine, lo attraversiamo. I nostri corpi-spazi sono vulnerabili, li proteggiamo, li rifiutiamo, li travestiamo, li spogliamo, li occupiamo, li lasciamo. È proprio in questa esplosione dei plurali negata dall’eteronormatività che abita il transfemminismo queer.

Scrive Lucía Egaña Rojas: “Una tecnologia transfemminista cercherà di superare la vulnerabilità nello spazio pubblico della tecnomeccanica di internet. Google non è uno spazio di sicurezza. I suoi server sono iscritti nella lista degli attrezzi necessari al discorso eteropatriarcale, in un rack blindato. Possiamo entrare e uscire da essi (e il più delle volte ci obbligano a uscire con la forza e senza spiegazioni) perché, in un certo senso, abbiamo sempre vissuto in spazi insicuri, costruendo fortezze collettive e affettive di protezione. Ma io chiedo una tecnologia transfemminista che crei i suoi spazi di sicurezza, nella città e nella rete. Chiedo server liberi, senza censura, nei quali non si debbano dissimulare i contenuti né autocensurare i video. Chiedo di organizzarci per ottenerlo”.[15]

Risponde Laboria Cuboniks: “Intervenire sulle egemonie più chiaramente materiali è tanto importante quanto intervenire sulle egemonie culturali e digitali. Le modifiche all’ambiente costituito riservano alcune delle possibilità più significative nella riconfigurazione degli orizzonti delle donne e dei soggetti queer. In quanto materializzazioni di costellazioni ideologiche, la produzione dello spazio e le decisioni adottate per organizzarlo sono in ultima analisi articolazioni su noi stess* e, reciprocamente, sulle modalità con cui è possibile articolare un noi”.[16]

Le cose sono complesse e per capirle, per spiegarle, per abitarle, quello che ci serve è un pensiero complesso che non sia consolatorio.

Un pensiero stupendo.

 

NOTE

[1] Paul B. Preciado, La tecnologia cambia i corpi e le coscienze, “Internazionale”, 30 gennaio 2017, https://www.internazionale.it/opinione/paul-preciado/2017/01/30/tecnologia-corpi-coscienze

[2] Brunella Casalini, Federico Zappino, Prefazione, in Karin Harrasser, Corpi 2.0. Sulla dilatabilità tecnica dell’Uomo, Firenze, goWare, 2018, p. 171.

[3] Lucía Egaña Rojas Tecnofemminismo. Appunti per una tecnologia transfemminista (versione 0.3), infra.

[4] Donna Haraway, “Situated Knowledges: The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective”, Feminist Studies, 14(3),1998, pp. 575–99.

[5] Rachele Borghi e Zarra Bonheur, Appunti dai margini del centro, infra.

[6] “If you knew Time as well as I do said the Hatter, you wouldn’t talk about wasting it. It’s him.”

[7] Diego Marchante “Genderhacker”, Transcyborgllera, infra.

[8] Laboria Cuboniks, Manifesto Xenofemminista, infra.

[9] Rachele Borghi e Zarra Bonheur, Appunti dai margini del centro, infra.

[10] Anna Casaglia, Border Porn e la sessualizzazione delle donne migranti, infra.

[11] Elisa Virgili, If I was a rich girl, infra.

[12] Lucía Egaña Rojas, Tecnofemminismo. Appunti per una tecnologia transfemminista (versione 0.3), infra.

[13] Angela Balzano, Le interfacce virtuali della riproduzione biotech, infra, p.

[14] Jack Halberstam, In a Queer Time and Place: Transgender Bodies, Subcultural Lives, New York, New York University Press, 2005, p. 22 (traduzione di Valentina Greco).

[15] Lucía Egaña Rojas, Tecnofemminismo. Appunti per una tecnologia transfemminista (versione 0.3), infra.

[16] Laboria Cuboniks, Manifesto Xenofemminista, infra.

 

Immagine in apertura: illustrazione della copertina di Valeria Bertolini

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