La casa editrice Zeroincondotta, inossidabile riferimento dell’area di pensiero/azione che un po’ rievoca e un po’ rinnova l’esperienza del movimento anarchico in Italia, ci offre un volume di notevole interesse: L’utopia concreta, a cura di Franco Schirone, divenuto studioso e ricercatore, via via sempre più, a partire da quando svolgeva con passione quotidiana attività sindacale nel vivo delle lotte sociali. Racconta, come avverte il sottotitolo, le vicende di due sigle significative all’interno di quella che è ancor oggi complessivamente conosciuta come autonomia operaia: una è Azione libertaria e l’altra Proletari autonomi. Questa è la prima parte (anni 69-73); già è in gestazione la seconda parte (anni 74-82) per rendere completo il quadro.

Il volume è corposo: sono 336 pagine di testo, più 46 di materiale riprodotto dall’originale (spesso solo ciclostilato). Uscita la prima tiratura da circa un paio di mesi già si è resa necessaria una seconda stampa, il che mi pare un buon segno, un indizio augurale per un futuro prossimo meno cupo. Roberto Brioschi (che all’opera ha dedicato grande energia) firma un lungo e appassionato commento d’apertura (Anni giusti, anni gioiosi), a partire dalla rivolta studentesca, dall’occupazione del poi demolito storico Hotel Commercio, in pieno centro, a due passi dalla Statale; e insieme ricostruisce la nascita dei primi comitati di base (CUB) nelle principali fabbriche milanesi. Il Gruppo Kronstadt si sciolse in Azione Libertaria proprio in quegli anni: l’intervista di Franco Schirone a Cosimo Scarinzi narra la vicenda politica di quel gruppo, presente sia nella organizzazione degli scioperi c.d. selvaggi sia nelle occupazioni di case, fino al documento di scioglimento. Giulio Legnani, fra i 25 arrestati durante la lotta per l’abitazione (gli scontri di Via Mac Mahon a Milano), racconta del processo e fa rivivere quei giorni di fermento; ma è soprattutto il documento sulla autonomia di classe (1971) che consente di comprendere l’originalità di Azione libertaria. Un saggio di Enrico Moroni (allora operaio alla Siemens) rivendica il ruolo degli anarchici nella vicenda complessiva dell’autonomia operaia, fino al Convegno di Bologna (3-4 marzo 1973) in cui si trovarono a discutere i militanti dei comitati e delle assemblee autonome che organizzavano le lotte in fabbrica. Il primo numero di Proletari autonomi porta la data novembre-dicembre 1971, con sottotitolo bollettino dei proletari organizzati autonomamente; il gruppo intende sviluppare le precedenti esperienze libertarie confrontandosi senza pregiudizio con la vasta area dell’operaismo e dell’autonomia, pur conservando la propria identità di provenienza. Sono interessanti le analisi relative al ruolo dei tecnici (in quegli anni l’informatica si stava solo affacciando), che ancora si sentivano soggettivamente a mezza via fra il ceto medio (oggi oggettivamente evaporato) e la classe operaia (oggi assai modificata rispetto a quella fordista nel tempo dei comitati). Già in apertura, invadendo in anticipo l’arco temporale della seconda parte, Roberto Brioschi segnala i tre quaderni di La fabbrica diffusa come “una inedita cooperazione non solo teorica tra l’esperienza di Potere Operaio e la componente libertaria delle assemblee autonome e dei collettivi di quartiere”. Il terzo e ultimo quaderno, nell’annunciare la conclusione della testata, non esita a rilevare una tendenza ovvero la morte della vecchia sinistra più o meno tardo stalinista in coincidenza con l’affermarsi dell’operaio diffuso, dell’operaio sviluppo. E siamo nel luglio del 1978: la redazione ritiene esaurita la funzione politica delle riviste in genere, scommette nella  premessa che le lotte proletarie nel settore della comunicazione sono più destabilizzanti di qualsiasi rapimento Moro perché (e lo si scriveva nell’immediatezza dell’avvenimento, non 50 anni dopo!) le istituzioni non solo resistono ai sequestri ma sono anche così ciniche da utilizzarli ai fini del compromesso storico (per la prima volta il PCI al governo dal 1948).

Rivivono nelle pagine di questo agile e scorrevolissimo libro vicende e protagonisti che non è agevole ritrovare nella pubblicistica dedicata a quel periodo: il milanese PUF (pensionato universitario femminile), autogestito dalle donne che vi abitavano e culla di allegra eversione sociale), Charlie dell’Ancherfarm di Sesto San Giovanni, la morte di Saverio Saltarelli, Pietro Zucca anima degli scioperi in OM (oggi rasa al suolo e sostituita da abitazioni civili, chiudendo gli storici fontanili), Kukki Santini, l’occupazione dello stabile in Via Vannucci, il mitico Fernando Del Grosso, vecchio partigiano, anarchico classico anche nell’aspetto e nel vestire, oltre che nel suo quotidiano esistere. Da Via Vannucci partivano le ronde contro il lavoro nero che prosperava nei piccoli laboratori di Porta Romana, con un collettivo (finto) intitolato a tale (inventato) Sauro Falcetti, marito di una (altrettanto inesistente) Maddalena Martellini. Lo slogan (Viva il compagno Sauro Falcetti, terrore dei fascisti e dei falsi comunisti) faceva il verso, sfottendo, alle nostalgie staliniste ben presenti, ancora, nel movimento. E anche qui anarchici ed operaisti andavano proprio d’accordo. Insomma, credetemi sulla parola, si tratta di un lavoro proprio ben fatto!

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