Mentre la Camera italiana spaventosamente vota a favore della definizione della maternità surrogata come “reato universale”, pubblichiamo un ottimo testo di Olivia Fiorilli. L’autrice presenta le problematiche relative al ruolo delle donne nella GPA (Gestazione per altri) – che ha occupato anche il dibattito femminista di questi tempi – da un altro punto di vista rispetto a quello consueto, ovvero quello delle famiglie lesbiche e trans che sono drammaticamente ostaggio di circolari ministeriali come quella emessa a Padova che sbarra la strada all’iscrizione all’anagrafe “de* genitor* non biologic* de* bambin* nat* in famiglie non etero”.

Fiorilli va oltre l’argomento messo in campo sulla libertà di scelta individuale rispetto alla procreazione, prendendo spunto dalle riflessioni di  “Wages Due Lesbians”, gruppo lesbico autonomo nato all’interno della campagna per il Salario al Lavoro Domestico, lanciata negli anni ’70 dal Collettivo Femminista Internazionale. Si parla di “oppressione riproduttiva” nei confronti delle donne lesbiche così come nei casi di donne ritenute madri “inadeguate” (lavoratrici del sesso, donne nere, donne psichiatrizzate o detenute). Un processo che ha connotato la storia, poiché fare sesso con gli uomini è parte integrante dei compiti riproduttivi delle donne: “Un lavoro non pagato che contribuisce ogni giorno alla riproduzione affettiva e materiale della forza lavoro. Rifiutando di fare sesso con gli uomini le lesbiche rifiutano dunque una parte del lavoro a cui le donne sono destinate dal capitale e dallo stato che ne difende gli interessi”.

A partire da queste fondamentali radici storiche, di analisi e rivendicazioni, l’autrice riflette sul tema della cittadinanza, destinata ad alcune vite, negata ad altre. Essa è stata fortemente vincolata a compiti, ruoli e gerarchie tra “lavori”. Ciò vale per quelle donne o trans, ritenut* disfunzional* a un disegno ordinativo che vuole ciascuno al proprio posto, laddove il posto delle donne è accanto a un uomo per il quale figliare. Ma vale anche per i migranti, lasciati morire fuori dalla fortezza Europa e da essa disconosciuti. 

Perciò l’autrice ritiene essenziale “connettere le lotte per una giustizia riproduttiva queer a quelle per la giustizia riproduttiva antirazzista” e portare avanti la battaglia per il “reddito di autodeterminazione per il lavoro di cura che già facciamo gratuitamente nelle case e sottopagate fuori”, ma anche per salari “molto più alti per tutt*, in particolare nei ‘settori femminilizzati’ in cui si concentra il grosso del lavoro salariato delle donne e delle persone assegnate alla femminilità e che sono quelli più pauperizzati”. 

Le battaglie per la riforma della cittadinanza, contro le frontiere interne e esterne, contro il sistema dei documenti sono anche battaglie per la giustizia riproduttiva e quindi devono diventare battaglie di tutt* coloro che sono toccat* da oppressioni riproduttive.

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Giugno 2023. La notizia dell’impugnazione retroattiva dei certificati di nascita di 33 bambin* nat* in famiglie lesbiche a Padova da cui le madri non biologiche potrebbero essere cancellate mi ricorda ancora una volta che il mio legame di filiazione con mia figlia, peraltro ad oggi legalmente riconosciuto solo in Francia dove vivo, è precario. L’impugnazione dei certificati, che fa seguito alla circolare ministeriale che ordina ai prefetti di sbarrare la strada all’iscrizione all’anagrafe de* genitor* non biologic* de* bambin* nat* in famiglie non etero, è solo l’ultimo episodio di un attacco più ampio condotto dal governo Meloni contro le famiglie omogenitoriali, la cui prima misura concreta è stata la bocciatura della proposta di regolamento teso a creare un certificato di nascita europeo.

Di fronte a questo attacco senza precedenti, il dibattito politico anche tra le femministe è stato preso in ostaggio dalle discussioni sul tema della gestazione per altri, che cancellano – come giustamente ricorda Nina Ferrante[1] – quasi completamente le famiglie lesbiche e trans che pure ne sono le prime vittime perché numericamente più toccat* dalla questione degli atti di nascita. E anche quando, messa da parte la questione del ruolo delle donne nella GPA, si tratta di fondare politicamente la difesa del diritto al riconoscimento legale per le famiglie omogenitoriali (e l’interesse che a questa difesa dovrebbero portare tutte le femministe) l’argomento messo in campo è quasi sempre e solo quello della libertà di scelta individuale rispetto alla procreazione.

Pur ritenendo fondamentale la questione della libertà di scelta, vorrei qui andare oltre, proponendo qualche elemento di riflessione per provare a sviluppare una lettura materialista dell’attacco alle famiglie non etero e cis e delle possibili piste per dare a questo attacco una risposta all’altezza delle poste in gioco. Per farlo, prenderò spunto dalle riflessioni sviluppate da Wages Due Lesbians, gruppo lesbico autonomo nato all’interno della campagna per il Salario al Lavoro Domestico, lanciata negli anni ’70 dal Collettivo Femminista Internazionale[2].  Organizzazione attiva in Canada, Gran Bretagna e Stati Uniti, dal 1975 Wages Due Lesbians ha portato una prospettiva lesbica autonoma all’interno di un movimento femminista marxista di lotta contro il lavoro riproduttivo gratuito o sottopagato imposto alle donne nel sistema capitalista. Ed è proprio la lente del lavoro riproduttivo e della sua organizzazione nel capitalismo eteropatriarcale che mi sembra centrale per decodificare le oppressioni riproduttive vissute dalle persone non etero e cis. Se quella del lavoro riproduttivo e della sua organizzazione è una lente pertinente anche per leggere la questione della GPA, in questo testo la lascerò volutamente da parte: altre hanno già messo sviluppato anche in Italia una riflessione materialista su questa tecnologia riproduttiva[3]. Le riflessioni che seguono partiranno dalla genitorialità delle lesbiche e delle persone queer assegnate alla femminilità[4] – al centro della riflessione di Wages Due Lesbians ma anche della mia propria esperienza –  senza tuttavia escludere altre genitorialità queer. Questo angolo di osservazione è programmaticamente limitato e situato, anche perché questo testo mira ad aprire piste per un dibattito più che a fornire risposte definitive.

Una lettura materialista dell’oppressione riproduttiva delle famiglie non etero e cis

Per iniziare a tracciare i contorni di una lettura materialista dell’oppressione riproduttiva vissuta dalle persone non etero e cis, sarà utile cominciare dall’interrogarne l’evoluzione storica. La genitorialità non eterosessuale esiste da tempo immemore. Ben prima che le tecniche di procreazione medicalmente assistita iniziassero ad essere investite da persone non etero e cis, le genitorialità queer erano una realtà concreta. Così come lo erano le ingiustizie vissute da* genitor* non eterosessuali e dalle loro famiglie. Nel pamphlet Lesbian Motherhood and child custody, pubblicato nel 1977 (Falling Wall Press), la canadese Francie Wyland, membra di Wages Due Lesbians Toronto, fa il punto sull’oppressione riproduttiva vissuta dalle madri o aspiranti madri lesbiche negli anni ’70 e la lega a quella vissuta da molte altre madri  considerate “inadeguate”: lavoratrici del sesso, donne razzializzate, detenute, donne prichiatrizzate.. Questa oppressione si concretizzava all’epoca per le lesbiche nella difficoltà se non l’impossibilità di avere figl* al di fuori di una relazione con un uomo e nella minaccia di perdere l’affido de* figl* avuti in relazioni eterosessuali: si trattava in entrambi i casi di strumenti potenti di disciplinamento delle donne, capaci di impedire o ritardare per molte la possibilità di fare coming out. In particolare, la perdita dell’affido de* figl* – minaccia o sanzione concretamente vissuta da innumerevoli madri lesbiche – è definita da Wyland come “l’arma più efficace dell’arsenale del capitale” contro il lesbismo. Lesbismo che, per Wyland come per Wages Due Lesbians, è represso dal capitale perché la sua stessa esistenza rende evidente che “l’amore eterosessuale e il matrimonio non sono il destino biologico delle donne” – come si legge nel documento fondativo di Wages Due Lesbians, “Fucking is work”[5] – ma dei dispositivi che permettono di organizzare lo sfruttamento del lavoro gratuito delle donne – incluso il lavoro di “scopare” con gli uomini. Un lavoro non pagato che contribuisce ogni giorno alla riproduzione affettiva e materiale della forza lavoro. Rifiutando di fare sesso con gli uomini le lesbiche rifiutano dunque una parte del lavoro a cui le donne sono destinate dal capitale e dallo stato che ne difende gli interessi. La minaccia di privarle de* figl* o della possibilità di averle è quindi, come scrive Wyland, una forma di “terrorismo che il capitale usa contro di noi per costringerci a fare il lavoro da cui cerchiamo di scappare”.

A partire dagli anni ’80 – anche grazie alla potenza collettiva guadagnata con le lotte degli anni ’70 – sempre più lesbiche e persone queer assegnate donne alla nascita hanno investito le tecnologie riproduttive, inclusa l’inseminazione artificiale e quella autogestita, con l’intento di avere figli al di fuori di relazioni eterosessuali e per alcun* nel quadro di relazioni non eterosessuali. Queste nuove possibilità di genitoralità non etero sono però state accompagnate da nuove forme di oppressione riproduttiva. In primo luogo, le tecniche di procreazione medicalmente assistita sono state rapidamente riservate alle sole coppie eterosessuali in molti paesi inclusa l’Italia, dove la legge 40 regolamenta l’accesso alla PMA dal 2004. Di conseguenza, l’unica opzione per accedervi lasciata alle lesbiche e queer è rimasta quella di avere o potersi procurare i soldi necessari a intraprendere all’estero il lungo e costoso percorso di accesso alla PMA. Questo meccanismo ha normalizzato, istituzionalizzato e rafforzato le barriere economiche nell’accesso alla genitorialità. Barriere che sono già alla base particolarmente dure da sormontare per le donne e le persone assegnate alla femminilità che vogliono avere figl* al di fuori di una relazione eterosessuale. In effetti, in una società in cui le donne sono tendenzialmente più povere, la genitorialità è un lusso difficile da permettersi senza il salario di un uomo, tantopiù se si considerano i rischi economici a cui ancora oggi vanno incontro quelle che scelgono di diventare madri in Italia[6]. Come scriveva negli anni ’70 Anne Neale in un comunicato di Wages Due Lesbians London, molte lesbiche sono “economicamente sterilizzate”[7].

A questa prima dimensione dell’oppressione riproduttiva si aggiunge quella dell’assenza di riconoscimento sociale e soprattutto giuridico della genitorialità per le madri e genitor*  di bambin* nat* in famiglie non eterosessuali e cisgenere. In Italia questa assenza di riconoscimento è stata assoluta fino almeno agli anni 10 del nuovo millennio, quando alcune sentenze hanno permesso un parziale riconoscimento per alcune madri non biologiche di bambin* nati in relazioni lesbiche[8]. Dopo il naufragio del tentativo di iscrivere nella legge sulle unioni civili la cosiddetta step-child adoption (che ricordiamolo, è alla base una forma di adozione “incompleta”, nonostante gli aggiustamenti coraggiosamente strappati a colpi di giurisprudenza[9]), alcune famiglie omogenitoriali erano riuscite anche ad ottenere l’iscrizione delle madri e genitor* non biologic*  (a patto naturalmente di limitarsi a due) sul certificato di nascita de* propri* figl* senza passare per una procedura di adozione[10]. Ed è contro questa breccia aperta con fatica e intelligenza dalle famiglie omogenitoriali nel muro delle politiche eteronormative che il governo Meloni si è accanito non solo per impedire la registrazione degli atti di nascita de* bambin* a venire, ma sollecitando anche – con l’aiuto di un sistema giudiziario zelante – la cancellazione dei riconoscimenti già esistenti. Questo tragico aggravamento della precarietà esistenziale che già caratterizzava le famiglie non etero e soprattutto lesbiche, queer e trans, è un passo in più in una strategia di disciplinamento de* genitor* non etero e cisgenere. Il fatto che si tratti di una strategia di disciplinamento prima e più ancora che di una strategia tesa alla pura e semplice cancellazione – ormai impossibile e politicamente meno difendibile di fronte alle trasformazioni della società – è reso ancora più evidente dal fatto che il governo, nella figura della ministra Roccella, afferma che le famiglie omogenitoriali dovrebbero non rinunciare ma passare per una procedura di adozione per veder riconosciuto il legame tra genitor* non biologic* e bambin*. Procedura che adozione che impone una “valutazione” della “capacità” de* genitor* non etero e cis a assumere il proprio ruolo, cosa che non è imposta a priori a nessun genitore biologico.

Ora, questa strategia di disciplinamento non data di ieri e non riposa solo sulla negazione del riconoscimento legale, ma trova in quest’ultimo il suo perno e la sua arma più potente. Essa mira a imporre a* genitor* lgtiq* – e in particolare quell* il cui statuto è negato o precario – l’onere della prova di essere “genitor* adeguat*”, ossia il più conformi possibile alla norma della famiglia eterosessuale nucleare. È da questa strategia di disciplinamento che deriva l’omo-normatività che è spesso rimproverata non solo alle organizzazioni politiche ma anche alle stesse famiglie omogenitoriali.

Ora, la norma della famiglia eterosessuale nucleare è una norma che è funzionale al mantenimento dell’ordine etero-capitalista e dell’organizzazione del lavoro riproduttivo da cui questo dipende. In effetti la famiglia è il luogo di produzione materiale e sociale de* futur* lavoratori e lavoratrici al servizio del capitale. È nella famiglia che l* bambin* non solo sono accudit* materialmente, ma iniziano ad essere socializzat* come lavorator* ri/produttiv* in divenire. È nella famiglia che l* madri – a cui è ancora largamente delegato il lavoro di crescere l* figl* – sono tenute a lavorare (gratuitamente) per porre le basi del “capitale umano” de* bambin*. È in primis nella famiglia che le bambine sono socializzate a prendersi cura degli altri affettivamente e materialmente, e a svolgere quel lavoro riproduttivo gratuito o sottopagato che sarà loro domandato per tutta la vita fuori e dentro casa. Ma anche – ormai – ad aspirare ad avere più tardi un secondo lavoro sottopagato (come lo sono i lavori “delle donne”) fuori casa – per usare la fortunata formula utilizzata negli anni ’70 dalla Campagna per il salario al lavoro domestico – per “emanciparsi”. È nella famiglia che i bambini sono socializzati ad aspirare ad avere più tardi un “buon lavoro” con cui potranno identificarsi e costruirsi una famiglia che conterà sul loro (generalmente più alto) salario. Il sospetto che pesa sulle famiglie omogenitoriali – di ostacolare il “sano sviluppo”, in particolare di (cis)genere e eterosessuale de* bambin* – è un potente strumento per estorcere a* genitor* non etero e cis e in particolare alle madri più lavoro e per orientare questo lavoro verso la produzione di futur* lavorator* ri/produttiv*.

Inoltre, l’obbligo sociale e legale di “provare” che si è “veramente” madri e/o genitor*, che pesa particolarmente su* genitor* queer non biologici, ma anche più in generale la costruzione sociale della genitorialità non eterosessuale e cis come “egoista”, sono dei potenti strumenti di produzione di un approccio oblativo al lavoro di cura verso l* bambin*. Le lesbiche e persone queer e trans assegnate alla femminilità sono così ricondotte e fidelizzate a quel lavoro riproduttivo gratuito che il capitale esige e da cui in parte si sono sottratte (vedi sopra).

Tutte le considerazioni fatte fin qui, ci portano a collocare le radici dell’oppressione riproduttiva de* genitor* non etero e cigenere e in particolare delle lesbiche e delle persone queer assegnate alla femminilità, nell’organizzazione del lavoro riproduttivo sotto il regime capitalista eteropatriarcale. Sistema che si basa sull’imposizione alle donne e alle persone assegnate alla femminilità del lavoro gratuito (o sottopagato) necessario alla riproduzione della forza lavoro.  È questa una tra le molte ragioni per cui la lotta per la giustizia riproduttiva queer – e quindi come minimo per l’apertura della PMA a tutte e tutt* per la fine della sterilizzazione forzata delle persone trans che desiderano accedere ad un cambiamento di stato civile[11], per il riconoscimento legale delle genitorialità non etero e cis qualunque forma esse prendano – dovrebbe essere in cima all’agenda politica femminista.

Verso una giustizia riproduttiva queer materialista

“Non stiamo combattendo a milioni solo per avere la possibilità di avere e tenerci figl* che siano semplicemente l’oggetto del nostro lavoro, con cui passare anni isolate e senza soldi a disciplinarli e addestrarli al lavoro (..) Domandando un salario per il lavoro domestico stiamo rivendicando non solo il potere di decidere di essere lesbiche senza perdere i nostr* figl* o la possibilità di averne. Stiamo rivendicando la possibilità di stare con quest* figl* in un modo che non sia lavoro. Non accetteremo più di esserne le sole responsabili o di portare la colpa di essere « cattive madri » se ci prendiamo del tempo lontano da loro. E non domanderemo scusa per il fatto di crescere bambin* che – come le loro madri – portano avanti una lotta accanita per autodeterminare le proprie vite”. Così si concludeva il già citato pamphlet di Francie Wyland, Lesbian motherhood and child custody”. Negli anni ’70 Wages Due Lesbians ha collocato la lotta intorno alla maternità lesbica nel quadro più ampio della lotta femminista contro il lavoro di riproduzione gratuito o sottopagato imposte alle donne dal capitalismo. La prospettiva disegnata da Wages Due Lesbians ci dà oggi indicazioni preziose per sviluppare una politica transfemminista materialista della genitorialità non etero e cis che vada oltre la mera – sebbene essenziale – rivendicazione di riconoscimento legale.

In un paese in cui le donne e le persone assegnate alla femminilità – soprattutto se razzializzate – sono più povere e precarie, hanno salari miseri (che perdono peraltro spesso con l’arrivo de* figl*) o sono prive di salario, non hanno tempo perché prendono in carico sempre più lavoro riproduttivo a causa della distruzione progressiva del poco welfare esistente, in un paese in cui ancora oggi non poter contare sul salario di un uomo eterosessuale (la ricerca mostra che gli uomini non etero guadagnano molto meno[12]) significa essere ancora più povere[13], la rivendicazione del riconoscimento legale delle famiglie queer è il minimo sindacale. Abbiamo anche bisogno di soldi : ossia di reddito di autodeterminazione per il lavoro di cura che già facciamo gratuitamente nelle case e sottopagate fuori, ma anche di salari molto più alti per tutt*, in particolare nei “settori femminilizzati” in cui si concentra il grosso del lavoro salariato delle donne e delle persone assegnate alla femminilità e che sono quelli più pauperizzati. E abbiamo bisogno di tempo : ossia di welfare che prenda in carico una parte del lavoro di cura e non renderci più disponibili allo sfruttamento sul mercato del lavoro salariato ma per permetterci di avere tempo liberato dal lavoro tout court. Abbiamo bisogno di welfare gestito comunitariamente e finanziato dallo stato, che non produca – come succede oggi – lo sfruttamento di altre donne sottopagate, spesso razzializzate. Solo a queste condizioni potremo iniziare non solo ad avere e crescere l* figl* che vogliamo, ma anche a “stare con loro in un modo che non sia lavoro”.

Ma l’approccio di Wages Due Lesbians, così come d’altronde l’approccio detto della giustizia riproduttiva – sviluppato negli anni ’90 negli USA da donne razzializzate[14] – ci dà un’altra indicazione fondamentale per impastare una  battaglia per una giustizia riproduttiva queer materialista. È essenziale fare il legame tra le diverse oppressioni riproduttive. Non solo molte di noi sono attraversate da diverse di queste oppressioni : queste diverse oppressioni si incrociano nella matrice di sfruttamento prodotta dal capitalismo eteropatriarcale ma anche razziale. Oggi è particolarmente urgente connettere le lotte per una giustizia riproduttiva queer a quelle per la giustizia riproduttiva antirazzista. In Italia il razzismo strutturale e istituzionale rende la genitorialità delle donne e delle persone razzializzate particolarmente complicata. È il razzismo di stato che uccide bambin* migranti alla frontiera della fortezza Europa. È il razzismo istituzionale che ostacola la genitorialità delle persone razzializzate attraverso la criminalizzazione delle migrazioni, gli ostacoli al ricongiungimento familiare, la violenza razzista delle forze dell’ordine, le discriminazioni nell’accesso al welfare, ai servizi, alla casa. Non possiamo permetterci di denunciare il fatto che le politiche eteronormative rendono i bambin* di famiglie queer “di serie B” perché privi di riconoscimento legale della loro genealogia senza denunciare il fatto che ancora oggi in Italia i bambin* nati da genitori non Italiani sono relegati nel limbo dell’assenza di diritti e di stabilità perché privati della cittadinanza italiana. Una condizione che riguarda 10% de* bambin* scolarizzat*. Le battaglie per la riforma della cittadinanza[15], contro le frontiere interne e esterne, contro il sistema dei documenti sono anche battaglie per la giustizia riproduttiva e quindi devono diventare battaglie di tutt* coloro che sono toccat* da oppressioni riproduttive.

NOTE

[1] https://www.facebook.com/search/top/?q=libera%20voler%20%23GPA

[2] Una antologia di testi di Wages Due Lesbians tradotti in Itaiano uscirà a breve per la collana Eresie della casa editrice Asterisco Edizioni.

[3] Rimando per esempio ai lavori di Angela Balzano, in particola Balzano, A. (2020). A Biology Commodification and Women Self-determination. Beyond the Surrogacy Ban.[Italian Sociological Review, 10(3), 655-677]

[4] Utilizzo qui un termine volutamente ampio per far riferimento a tutte le persone (trans, non bianirie, queer, bi etc) che – assegnate donne alla nascita o meno – sono socialmente iscritte nella femminilità, che lo scelgano o meno.

[5] The Wages Due Collective, Toronto, “Fucking is work”, in The Activist, n. 36, 1975, pp.25-6.

[6] Come la ricerca mostra ormai da tempo, quando diventano madri le donne in Italia rischiano di perdere o vedersi drasticamente ridotto il salario (quando ne hanno uno) a causa del carico di lavoro riproduttivo che ricade sulle loro spalle. Si veda https://www.ingenere.it/letture/non-un-paese-per-madri.

[7] Madri immigrate e assegni familiari, 23 Febbraio 1978.

[8] Rimontano al 2014 e 2015 le prime sentenze che hanno permesso la step child adoption per una coppia lesbica e il riconoscimento di alcuni diritti per una madre non biologica in seguito alla separazione dalla compagna, madre biologica de* figl* dell’ex coppia ( si veda questo articolo di Luca Trappolin e Angela Tiano file:///Users/oliviafiorilli/Downloads/PDF-2.pdf).

[9] https://www.retelenford.it/news/articoli/un-anno-dopo-la-sentenza-n-79-2022-della-corte-costituzionale-la-c-d-stepchild-adoption-non-e-la-soluzione-per-le-famiglie-arcobaleno/

[10] Per un quadro giuridico sulle differenti fattispecie si veda https://www.retelenford.it/news/articoli/due-mamme-e-due-papa-facciamo-chiarezza-dopo-lo-stop-di-milano/

[11] Attualmente, in Europa e in Asia Centrale, 11 Paesi impongono esplicitamente il requisito della sterilità alle persone che desiderano rettificare i propri dati anagrafici affinché il loro genere sia legalmente riconosciuto (https://transrightsmap.tgeu.org/fast-facts). In Italia, nel 2015, la Corte Costituzionale ha stabilito che è incostituzionale imporre alle persone trans un’operazione chirurgica come requisito per sancire legalmente il loro genere, ma molti tribunali domandano ancora che l* richiedente si sottoponga a trattamenti ormonali che possono a lungo andare avere effetti sterilizzanti.

[12] Per il contesto anglosassone si veda https://theconversation.com/theres-a-gay-wage-gap-and-its-linked-to-discrimination-159956

[13] Com’è noto tra le categorie di popolazione più a rischio di povertà si trovano le cosiddette famiglie monoparentali (41%),  ossia nella stragrande maggioranza donne che crescono l* figl* senza il salario di un uomo. Un rapporto della European Fundamental Rights Agency, i nuclei familiari delle lesbiche e delle donne bisessuali e delle persone trans* sono sovrarappresentati nel quartile (25%) più povero della popolazione (rispettivamente 30, 35 e 36 percento, contro 24% per i gay cis, che sono quindi sottorappresentati). Secondo il rapporto 2020 della FRA sulla popolazione lgbti in Eurpa, 45% delle lesbiche, 38% delle bisessuali e 50% delle persone trans hanno difficoltà a arrivare a fine mese (https://fra.europa.eu/en/data-and-maps/2020/lgbti-survey-data-explorer).

[14] https://www.sistersong.net/reproductive-justice.

[15] Da decenni la lotta per la riforma della legge 91/92 è portata dalle persone escluse dalla cittadinanza, per lo più nell’indifferenza dei movimenti sociali e femministi. Si veda ad esempio l’ultima campagna proposta dalla Rete per la riforma della cittadinanza è stata lanciata nel 2022 https://dallapartegiustadellastoria.it/.

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