La condizione precaria al bivio: cedere alla paura per sopravvivere o reagire rischiando una sorte peggiore?

Ecco un segno del tempo in cui viviamo. La legge che riconosce alla fascia più povera e senza occupazione un reddito di sopravvivenza viene criticata, aspramente, dalla sinistra parlamentare, non per i numerosi limiti imposti all’accesso e tanto meno per sollecitare l’erogazione di somme più elevate, ma per via del fatto che i beneficiari, senza lavorare, andrebbero a percepire quasi quanto gli altri precari inseriti nelle imprese con retribuzione regolare. Secondo il Partito Democratico questa sarebbe una sorta di concorrenza sleale attuata dal governo di destra contro il libero mercato e contro i livelli salariali in vigore.

Jeffrey Preston Jorgensen Bezos aveva con determinazione costruito un serbatoio italiano di manodopera sottopagata e senza diritti, consentendo l’accesso al gradino superiore della filiera gerarchica interna solo a chi assicurava impegno, sottomissione, fedeltà. Nelle strutture di Amazon la legislazione imposta dalla BCE con la celebre lettera segreta ha consentito di organizzare l’attività in forme flessibili, abbattendo il costo del personale e accumulando profitti straordinari. Ora, temono i dirigenti democratici, questo sciame spinto dalla disperazione a sopportare ogni angheria potrebbe usare il c.d. reddito di cittadinanza per uscire dal serbatoio e campare di quel poco riappropriandosi dell’esistenza. E così sarebbe messo a rischio lo spicchio di un patrimonio complessivo globale, pari nel marzo 2019 a 190 miliardi di dollari, accumulato con abilità dal mitico Bezos. Ma andiamo, dai!

Si tratta naturalmente di riflessioni sciocche e senza fondamento, facilmente smascherabili. Ma al tempo stesso rivelano tuttavia quale sia il reale programma di un riformismo contemporaneo (il nuovo socialismo reale) ormai conquistato dall’ideologia liberista e dedito al culto dei mercati finanziari. L’unico orizzonte che intravedono gli uomini della sinistra parlamentare italiana sembra essere quello di proseguire nell’opera di distruzione dello stato sociale, di abbattimento dei salari, dei tagli di spesa, di prelievo fiscale punitivo secondo un sistema di raccolta a strascico. Questi sconsiderati non si rendono conto di segare quotidianamente il ramo sul quale siedono; ostinatamente guardano al francese Macron e cercano di imitarlo, senza neppure meditare sul conflitto sociale che deve in questi mesi fronteggiare e che rischia di travolgerlo, nonostante  un apparato amministrativo ben più solido e un bilancio assai meno inquietante rispetto a quelli italiani. Parafrasando il grande Karl Kraus (La terza notte di Valpurga, pagina 347, Firenze, 2016): non c’è mai stato niente di più stupido, da quando è stata inventata la politica a tormento dell’umanità, del comportamento del partito democratico italiano.

Va detto con chiarezza. Questo non è, tecnicamente, un vero reddito di cittadinanza ma solo un ammortizzatore sociale, calato in una situazione di crisi economica, varato con estrema prudenza e con risparmio di risorse destinate alla sua attuazione. Le regole di accesso sono state costruite per limitare il numero dei beneficiari, le condizioni poste per ottenerlo sono piuttosto severe, anche se probabilmente le sanzioni connesse risulteranno di non facile esecuzione in un paese fantasioso come il nostro. Non tutti, e credo anzi non molti, incasseranno la quota di 780 euro mensili prevista come soglia massima; la casistica di abbattimento si presenta assai articolata così che le riduzioni dell’importo effettivo riconosciuto in concreto saranno significative. Ove dunque l’alternativa fosse davvero fra reddito di cittadinanza e un contratto lavorativo a tempo pieno legato ai contratti nazionali dei settori d’industria tradizionale  la questione neppure si porrebbe. Un operaio chimico di categoria D ha una retribuzione mensile di circa duemila euro lordi mensili, oltre a tredicesima e TFR, con ferie, festività, versamento contributivo, con un “costo azienda” di almeno quarantamila euro annui, oltre il quadruplo della soglia insuperabile prevista per il reddito di cittadinanza. Becera e qualunquistica nella sua formulazione, la critica del partito democratico, fondata su una fantasiosa equiparazione fra salario e reddito di cittadinanza, appare palesemente incredibile e come tale viene percepita al momento delle elezioni, sistematicamente vinte dalle formazioni di destra che fanno incetta dei consensi un tempo destinati alla sinistra.

Il problema è un altro, e tocca il nodo cruciale del nuovo equilibrio legato al mutato rapporto di forza fra il capitalismo finanziarizzato e la odierna forza lavoro, caratterizzata (anche) da una condizione resa istituzionalmente precaria mediante il processo di sussunzione. Oggi il licenziamento, anche di un dirigente e non solo dell’operaio o dell’impiegato, comporta risarcimenti decisamente inferiori rispetto al recente passato; al tempo stesso nuove figure contrattuali si sono inserite nelle strutture d’impresa. Negli appalti di servizi le organizzazioni sindacali hanno sottoscritto accordi che prevedono minimi retributivi inferiori ai mille euro lordi, per esempio nel settore delle attività di vigilanza e custodia; le prestazioni di lavoro domestico si caratterizzano per un corrispettivo orario di sei euro lordi. Inoltre cresce a vista d’occhio il numero di ingaggi qualificati come apprendistato, formazione o stage. Il legislatore italiano, con il silente consenso delle organizzazioni sindacali, permette di assumere come apprendista, a paga fortemente ridotta, manodopera prelevata dalle liste di disoccupazione, anche se ultracinquantenne e con una pluriennale esperienza lavorativa sul campo. Questo è l’attuale mercato del lavoro disegnato dal susseguirsi dei governi di larga intesa nel terzo millennio: una marea di collaboratori autonomi, operai e impiegati con partita iva d’ordinanza, un esercito di riserva costituito dagli ingaggiati occasionali su chiamata.

Il quadro viene completato dai nuovi paria che si collocano indifesi nella jungla della libera contrattazione individuale, nelle grinfie degli addetti alle risorse umane (definizione ipocrita del vecchio ufficio personale).

La legge 13 luglio 2015 n. 107 (nota come buona scuola) ha introdotto nel nostro ordinamento il lavoro obbligatorio e gratuito, imposto agli studenti del triennio. Per un residuo di tradizione classista, sopravvissuta ai moti del sessantotto, il governo di centrosinistra ha previsto un minimo di 400 ore negli istituti tecnici e di 200 ore nei licei; ma il legislatore ha prudentemente evitato di indicare il massimo di ore consentite, così che per adesione volontaria o in assenza di rifiuto è consentito il superamento della soglia. Pare che quest’anno, a differenza del 2018, l’essersi sottratti al lavoro obbligatorio non precluda l’ammissione all’esame finale, ma rimane comunque un elemento di valutazione e di oggettivo ricatto. Nell’ultimo triennio di scuola media superiore una generazione deve assumere, come valore e come principio, che si può essere obbligati a lavorare, per ordine dell’autorità istituzionale, senza possibilità di fuga. E soprattutto a lavorare gratis, posto che la norma non prevede alcun compenso, anche quando questa istruttiva alternanza si concreta, come spesso accade, in una attività operaia o impiegatizia utilizzata da imprese private che ne ricavano un lucro. Il progetto appare palesemente funzionale a rafforzare l’economia della promessa, addestrando ragazze e ragazzi ad interiorizzare il consenso come legge di natura, ad accettare la condizione servile come razionale, legittima, normale. La scuola insegna, mediante il meccanismo di cosiddetta alternanza, a concepire l’accesso al lavoro non come una necessità del capitalismo finanziarizzato per accumulare profitto, ma come un premio e un privilegio, da conseguire mediante la competizione. L’avversario, in questo percorso, è rappresentato dagli altri precari, non più dalla struttura organizzata d’impresa. L’intera rete di cooperazione sociale, quella che consente di creare ricchezza, rimane così espropriata e sottratta ai singoli soggetti che, rimanendo frammentati e soli, non intravedono neppure la possibilità di usarla in altro modo e secondo modi alternativi. Manca una coscienza di classe, direbbero i marxisti ortodossi.

La folla studentesca si affianca ad una figura ormai presente in tutte le grandi imprese, di produzione materiale e di produzione immateriale, quella di stagista. La normativa attuale è ferma nel negare che la prestazione resa da questi soggetti possa essere ricondotta al contratto di lavoro; con terminologia creativa viene definita negli atti amministrativi come un percorso formativo. Potenza delle parole! Per essere ingaggiati quali stagisti non esiste alcun limite di età e neppure il conseguimento di una qualifica; lo scopo di questo percorso, spesso prolungato con qualche stratagemma burocratico, è quello di preparare l’ingresso, o magari il rientro, nel libero mercato del lavoro. Per preparare bene la manodopera ad accettare le nuove regole del mercato abbiamo una forbice di corrispettivo che varia da 300 a 800 euro mensili.

Si potrebbe obiettare, direte voi, che l’art. 36 della nostra Costituzione impone di versare una retribuzione sufficiente ad assicurare una esistenza libera e dignitosa; per giunta la Corte di Cassazione ha sempre affermato che si tratta di una disposizione precettiva, non semplicemente programmatica, dunque trova applicazione immediata, è vincolante. Ma questo, rispondono con una sola voce destra e sinistra, vale solo per il contratto di lavoro, non per il percorso che precede l’arrivo al traguardo. Chi è lavoratore lo decide il governo, su proposta dell’unione industriali. Il paria stagista non ha diritti, non è lavoratore, non ha diritto al versamento contributivo, alle ferie, alla tredicesima, al trattamento fine rapporto. Deve imparare a tacere, a piegarsi, a sottomettersi. Il percorso sfugge alla contrattazione nazionale, viene disciplinato su base regionale. La Regione Lombardia, ad esempio, nel giugno 2018 ha autorizzato, con il consenso sindacale, percorsi fino a un anno di durata con un rimborso di 500 euro mensili. I tecnici della Regione Lombardia hanno chiarito che l’anno passato  sono stati 75.000 i percorsi formativi individuali e che, per non essere “sommersi da tonnellate di carta” non  è più necessario inviare la convenzione in copia, per sottoporla a controllo pubblico; basta tenere i documenti a portata di mano in caso di arrivo degli ispettori. Nella sola Lombardia dunque sono stati utilizzati nel 2018 75.000 paria pagati 500 euro al mese!

Effettivamente viene da chiedersi che senso abbia lavorare 40 o 60 ore settimanali senza diritti invece di prendere il reddito di cittadinanza. E qui il timore dei progressisti militanti nel partito democratico sembrerebbe fondato, pur se reazionario. Ma non è così che stanno le cose. Intanto lo stagista vive per lo più in casa dei genitori che lavorano, magari in casa di proprietà, e dunque il reddito di cittadinanza non ha titoli per riceverlo. Ma soprattutto l’economia della promessa è un ingranaggio che funziona, una trappola ben concepita. Non tutti certamente, ma almeno una quota di stagisti diventerà al termine del suo percorso di addestramento al consenso un vero dipendente. Di nuovo compare l’esortazione a competere, a vincere il posto di lavoro, battendo la concorrenza degli altri paria e salendo un po’ alla volta la scala gerarchica costruita nella odierna organizzazione del lavoro. La schiera degli ultimi ha ben chiaro che qualunque forma di dissenso o di contrasto verrebbe sanzionata con l’espulsione dal serbatoio, con la perdita di chance. L’attacco violento sferrato dalle organizzazioni d’impresa in questa fase di transizione si serve consapevolmente della paura, dell’ansia, dell’incertezza, della solitudine; il processo di sussunzione in atto è anche un processo di necessaria frammentazione dei soggetti in cui necessariamente si articola l’uso della cooperazione sociale, separandoli e boicottando ogni forma di comunità oltre che di mutualismo solidale. Solo chi pensa di non avere altra scelta possibile diventa disponibile ad accettare come necessario il terribile postulato che il capitalismo finanziarizzato ha introdotto come elemento fondante del contratto di lavoro nel tempo nostro: l’intera esistenza deve essere messa a valore, il tempo di vita coincide con il tempo di lavoro. L’intuizione geniale di Guy Debord anticipava, già nel 1967, la lunga marcia del capitale: la separazione è l’alfa e l’omega dello spettacolo … con il progredire dell’accumulazione dei prodotti separati e della concentrazione del processo produttivo l’unità e la comunicazione diventano l’attributo esclusivo della direzione del sistema…. quanto più la sua vita è ora suo il prodotto tanto più egli (il lavoratore, ndr) è separato dalla sua vita. Lo spettacolo è il capitale a un tal grado d’accumulazione da divenire immagine (cfr La società dello spettacolo, capi 25, 26, 33, 34). Non si tratta di una interpretazione del mondo, è invece un progetto sovversivo di trasformazione dell’esistente. Questa intuizione va saldata ad una definizione aggiornata del valore, con un approccio di taglio operaista (o neo operaista). Questa è l’unica memoria storica che vale la pena di coltivare, non per rievocare il passato ma per superarlo. Si tratta di procedere finalmente all’esame puntuale del meccanismo che consente, utilizzando l’esistenza di tutti i singoli soggetti e impadronendosi della cooperazione sociale, un profitto. 

Esiste una evidente contraddizione fra la cooperazione sociale generalizzata, in assenza della quale neppure è possibile concepire l’organizzazione produttiva, e la separazione radicale imposta ai singoli soggetti che operano dentro il processo di produzione mettendo a disposizione la propria vita; questa contraddizione determina l’attuale forma di alienazione che impedisce, mascherando la realtà, di riprendere in mano il comune e di costruire modalità diverse di relazione sociale.

Rimane allo stato non risolto il problema politico di come sottrarre al dominio del capitale il controllo della cooperazione sociale, il potere sul comune espropriato e ora utilizzato per mettere le vite singole a valore; prevale il senso di ansia e di paura che determina una dura sottomissione. Ogni soggetto sottomesso esita, vede solo a grinning gap, a grouth of nothing pervaded by vagueness (Auden, The age of anxiety, pag. 97, New York, 1947).

L’emancipazione dal lavoro e l’arcano del valore si presentano come un enigma, un concetto da indovinare, una soluzione da scoprire, un mistero da svelare.

La questione del lavoro e del valore va riportata al centro della ricerca, deve essere il nostro primo elemento di valutazione, la sciarada che necessariamente dobbiamo risolvere per riprendere un concreto cammino di liberazione. Solo così sarà possibile unificare la variegata ricchezza del dissenso, le aspirazioni dei migranti, le rivolte di massa contro il prelievo fiscale, l’insorgere delle donne, le lotte ambientali, le buone pratiche del mutualismo ribelle. Sono ormai venuti meno gli elementi che tradizionalmente costituivano l’essenza del contratto di lavoro, l’orario, il luogo, la divisione fra tempo libero e tempo ceduto; proprio per questa ragione è saltato lo stesso meccanismo retributivo che a quei parametri era legato. Il contratto di lavoro si è legato alla costante disponibilità su chiamata, alla flessibilità, alla condizione precaria. E’ un contratto per sua natura atipico, elastico, mutevole. A ben vedere appare oggi difficile individuare l’esatto confine fra le due figure canoniche che caratterizzavano l’azione sindacale nell’epoca fordista, ovvero la distinzione fra lavoro stabile e temporaneo, regolare e irregolare. Nel momento stesso in cui il legislatore accetta di qualificare la prestazione del paria stagista come un percorso per escludere che si tratti tecnicamente di lavoro si accetta l’irregolarità come istituzionale, anche in contrasto con i principi della Carta, sovvertendo completamente l’ordine precedente e varando una nuova costituzione materiale con la quale bisogna fare i conti. Considerando il nero (da anni attestato intorno al 28% del monte salari complessivo), partite iva, collaboratori saltuari, prestazioni atipiche (ovvero forme che presentano tutte aspetti di sostanziale irregolarità) il tradizionale lavoro regolare si avvia, in concreto, a rappresentare l’eccezione più che la prevalenza percentuale. La legislazione tende sempre più, salvo sporadiche eccezioni in contro tendenza, a recepire le aggressive modalità di sussunzione come legittime e conformi all’ordinamento vigente, e dobbiamo rilevare una forte continuità in questa direzione fra tutti i governi che si sono susseguiti (centrodestra, centrosinistra, larghe intese, gialloverdi). Ne abbiamo avuto una recente conferma in occasione della legge finanziaria 145/2018, che ha, senza sollevare proteste, varato una modifica del risarcimento per infortunio sul lavoro mediante approvazione quasi clandestina dell’art. 1, comma 1126. La condizione precaria e l’ingaggio a chiamata determinano un incremento di morti e lesioni dovute alla violazione delle norme in tema di sicurezza, con maggiori costi a carico delle compagnie assicurative e delle imprese. In luogo di colpire i responsabili del reato il ceto politico dominante ha aggredito le vittime e ulteriormente incrinato quel che resta del vecchio welfare. Con il comma 1126 i risarcimenti dei lavoratori colpiti sono stati tagliati in modo significativo, ponendo altresì a carico della parte pubblica Inail un costo che consente a imprese e compagnie assicurative notevoli risparmi. Con la recente sentenza n. 8580 del 27 marzo 2019 la Corte di Cassazione ha stabilito che la modifica peggiorativa non deve essere applicata ai sinistri avvenuti prima del 31.12.2018, ma non si salvano tuttavia le posizioni successive a tale data (sempre che non intervenga la Consulta sollecitata da qualche Giudice di merito). L’opposizione parlamentare, assai rumorosa contro il reddito di cittadinanza, è rimasta invece silente (di fatto consenziente) in questo come in altri casi di provvedimenti emanati in favore delle imprese. La questione del valore e del lavoro si pone decisiva anche nelle vicende ambientali, considerando i noti casi di Ilva a Taranto, del TAV in Val di Susa, delle grandi opere autostradali. A Taranto in particolare, nonostante infortuni e inquinamento costante, la legge ordina (esautorando la magistratura) di proseguire l’attività liberando l’impresa da vincoli operativi, naturalmente per salvare (non i profitti, dicono, ma) l’occupazione.

Viviamo in un tempo di transizione, e siamo ormai un bivio, dopo aver verificato come i moderni capitalisti, indifferenti ai cambi di governo, stiano costantemente e violentemente attuando il loro piano di sussunzione, decisi a vincere e a piegare le resistenze, ovunque esse si manifestino. Il capitalismo finanziarizzato occupa i territori, non ha Dio, famiglia, patria o nazione; ha fede solo nel denaro e nel dominio necessario per poter accumulare ricchezza.

Chi vive in condizione precaria è ormai costretto dalle circostanze a scegliere. O cede alla paura di danni maggiori, accetta di mettere la vita a valore e si sottomette alle regole; o reagisce, consapevole che così si espone al rischio concreto di una repressione militare, di una sconfitta politica, di condizioni ancora più dure e insopportabili.

Neppure esiste più ormai una terza via, ovvero la paziente attesa di tempi migliori e di occasioni propizie. La sostituzione del modello fordista si è spinta ormai troppo oltre; il processo di insediamento del capitalismo contemporaneo certamente è lontano dall’essere giunto a conclusione, ma   altrettanto certamente ha già radici profonde, si è insediato nelle metropoli e nelle periferie, ha combattuto senza esitazione gli oppositori. I suoi rappresentanti amano competere, sempre e comunque, non concepiscono altro modo di vivere. Non vogliono fermarsi, e comunque neppure potrebbero farlo senza inceppare un meccanismo che non prevede soste, ma solo accelerazioni o al più brevi pause di manutenzione. Non avranno alcuna pietà per gli incerti. La scelta dell’attesa coincide dunque con la scelta della sconfitta, senza neppure la consapevolezza del proprio destino, e dunque chi la compie rimane esposto anche ad errori di comportamento interni alla oggettiva condizione servile in cui ha deciso di rimanere.

Ribellarsi appare, a ben vedere, per il giovane precario, l’opzione più ragionevole e più razionale che, giunti al bivio, meriti di essere adottata.

 

Immagine in apertura: Sebastião Salgado, “Lavoratori installano un nuovo pozzo. Pozzi di petrolio, Greater Burhan, Kuwait,1991