In occasione della pubblicazione dell’ultimo numero di engagée ‘Who Cares’ pubblichiamo un’intervista di Alessio Kolioulis a Cristina Morini. L’intervista, originariamente pubblicata in inglese e che apre l’ultimo numero di engagée, affronta il tema della cura a trecentosessanta gradi, tracciandone ambiguità e nuove direzioni critiche. engagée è disponibile in cartaceo o in digitale al seguente indirizzo www.engagee.org/journal.html

 

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Il tema della cura ritorna, o forse non si esaurisce mai completamente, ma non è certo nuovo. Tu hai lavorato su questo concetto per anni, sia a livello pratico, per esempio recentemente con il progetto Commonfare, sia a livello teorico. In riferimento alle tue esperienze e al tuo lavoro nel movimento femminista in Italia, in che modo ti sembrano cambiare le modalità pratiche della cura e il suo uso concettuale?

La questione è molto complessa. Da un punto di vista teorico, le donne si sono interrogate da sempre sul concetto di cura con il quale hanno intrattenuto “un’alleanza complessa”. Il femminismo di matrice marxista e materialista, soprattutto in Italia nel corso degli anni Settanta, ha messo in luce l’occultamento del lavoro domestico e di cura, il mancato collegamento tra le condizioni e contraddizioni materiali che le donne si trovavano a vivere, compresi i condizionamenti culturali che subivano. Noto è il percorso relativo al salario di lavoro domestico avviato da esponenti di punta di Lotta Femminista, le quali cercarono di mettere in rapporto elementi emozionali, azione collettiva e, non ultimo, il denaro. Laura Balbo nel 1982 lo definì lavoro di servizio, nel tentativo di valorizzarne il ruolo di mediazione tra i bisogni e gli affetti e le risorse determinate dalla logica del profitto.

Si tratta di prestare attenzione alle definizioni maternalistiche della cura[1] che hanno ancora un grande peso nella costruzione di modelli genderizzati che finiscono per associarla strettamente alla cura materna, laddove le donne diventano dispensatrici di vita buona per la famiglia e per lo Stato, tanto più in presenza di condizioni critiche, come è stato durante la pandemia[2].  Ciò si collega al tema antico della doppia presenza[3]: il modello di welfare italiano si basa sulla famiglia, laddove la cura delle madri o delle figlie integrano ciò che i servizi non offrono per ottemperare alle necessità di bambini e persone bisogne di assistenza, diventando parte consistente dei processi sussidiari del welfare privatizzato.

Dunque, nel contesto del femminismo italiano, il concetto di autodeterminazione è particolarmente importante, poiché mette in primo piano la scelta soggettiva rispetto ai percorsi riproduttivi e di cura, storicamente più condizionati che altrove, similmente al sud dell’Europa. Si rifiuta in modo preciso l’idea che i corpi siano marcati da un destino riproduttivo. Così il movimento Non Una di Meno insiste sul reddito di autodeterminazione[4] poiché viene considerato uno strumento indispensabile non solo come forma di difesa da forme di violenza maschile (anche economica) ma come possibile dispositivo di affermazione e di riparo da ricatti del/sul lavoro e in famiglia. Soprattutto in presenza di contratti di lavoro atipici che in misura sempre maggiore riguardano le nuove generazioni di donne.

Bisogna sottolineare che, nel passato come nel presente, soprattutto in Italia lo ripeto, cura è una parola controversa, ambivalente, sulla quale le donne hanno molto “lavorato”. Da un lato sono condivisibili i principi etici della condivisione e della interdipendenza che sarebbero alla base della idea della cura, dall’altro la cura in nome dell’amore, inteso in senso altruistico e oblativo, ha finito per diventare un veicolo di diseguaglianza tra i sessi.

L’idea che le donne siano naturalmente portate ad amare l’altro e a prendersene cura perché in questo realizzano il loro destino è fortemente radicata nella modernità. Dunque, quando si parla di cura, le donne rischiano sempre di rimanere imprigionate in una soggezione emotiva, tanto più potente quanto più è nascosta sotto il velo dell’eguaglianza giuridica e sociale.

Inoltre, oggi mi pare più che mai evidente che la mobilitazione di empatia e affetto, la produzione di informazione, la mercificazione della cultura e del corpo, l’evocazione del prendersi cura, dell’avere cura non sono altro che un risultato necessario allo svolgimento della contraddizione intrinseca alla totalità del modo di produzione biocapitalistico contemporaneo. Come ho già notato in passato, il concetto di cura, il modello della cura può rischiare di diventare una strategia di governo della complessità e insieme di depotenziamento delle conflittualità. Il mondo di significati che il termine cura suggerisce, costituisce un vero e proprio modello comportamentale, un’etica, appunto, che si pretende di trasferire nell’ambito produttivo. Il modello del lavoro di cura è il più forte tra quelli a disposizione per “ottenere l’anima”, dunque il più efficace da richiamare quando gli elementi relazionali o gli elementi linguistici che insieme coniugano razionalità, affettività e corporeità, diventano assolutamente fondamentali nella costituzione della nuova produttività. Cosicché si assiste alla generalizzazione del codice della cura, la cui sintassi può uscire dalle case e proporsi al mondo, si può applicare al lavoro cosiddetto “produttivo”e alla politica.

È chiaro che, sul fronte opposto, a riprova degli attriti, delle resistenze, delle eccedenze, del fatto che non tutto è mai del tutto comprimibile nella mercificazione e nella logica capitalista, proprio con la ricerca europea Commonfare[5] noi abbiamo visto, toccato con mano, che la cura è tutta intorno a noi. Gli esseri umani, nonostante il realismo capitalista ne condizioni sempre più l’esistenza, hanno bisogno l’uno dell’altro e, fuori da una logica capitalistica, si prendono cura anche dell’ambiente che li circonda. Abbiamo mappato e spinto a raccontarsi decine di esperienze di realtà sociali autorganizzate all’interno di percorsi agroecologici o legati a bisogni sociali in vari ambiti (educazione; socialità; cultura; salute; abitare; lavoro), analizzando la crescita di una comunità che, all’interno di varie forme di coalizione mutualistica autoregolata, concepisce, dà vita e cura ciò che è sottoutilizzato o manca, attivando cicli rigenerativi di spazi e immobili, ma anche delle persone stesse e delle loro competenze e saperi.

Perciò, almeno prima della pandemia, mi aveva affascinato riflettere sulla possibilità di un ecosistema di servizi autorganizzati come tentativo di transitare da una società centrata sul capitale privato verso una società centrata sulla cura, intesa nella riconcettualizzazione che ne fa Maria Puig de la Bellacasa: cura che è  inevitabile per il vivente, ma resta mutevole, variabile, non condizionata da norme essenzialiste o morali, la cui cornice va spostata oltre l’umano e la sua temporalità. Cosicché è soprattutto necessario “pensare con cura”, requisito “difficile e non idilliaco (non innocente)”[6] che il pensiero collettivo deve assumersi, considerandosi sempre all’interno di mondi interdipendenti. Dunque, cura come agency con/verso tutti gli “Altri”, siano essi umani o di altre specie[7]. Ecco, questo tipo di approccio alla cosiddetta “cura” mi pare attraente, innovativo e da approfondire.

Tuttavia, non possiamo nasconderci che, esaminando queste buone pratiche, ritorna continuamente la questione della scarsità di risorse e di tempo. Inoltre, bisogna, evidentemente, prestare attenzione ai rischi di segmentazione e di sussunzione che talune nuove interpretazioni del sistema welfaristico in senso privatistico possono portare con sé. Soprattutto dopo un anno e mezzo di pandemia, si tratta di questioni dirimenti che hanno generato la crisi irreversibile di molte esperienze del comune. A proposito di “pensare con cura”, senza sconforti ma anche senza enfasi eccessive ed eccessive semplificazioni, in tempi terribilmente difficili.

 

Come tanti concetti, anche quello di cura sembra essere diventato per così dire di moda, soprattutto a seguito della pandemia. Secondo alcune prospettive, “la crisi della cura” ha radici ben più profonde di quelle svelate dal collasso dei sistemi sanitari nazionali nell’ultimo anno. In che modo questo concetto è depotenziato oggi, o più in generale quali sono le tendenze cui bisogna prestare attenzione quando si parla di cura?

 La pandemia è stata una cartina di tornasole, come si dice in Italia, spero sia traducibile. “La cura al centro del vivere!”, viene reclamizzato da tutte le parti. Ma è davvero così? Stiamo vedendo questo? Abbiamo visto questo? O meglio: abbiamo visto senza dubbio la fatica, la compassione e la generosità della cura negli occhi delle infermiere e delle assistenti delle case di riposo per gli anziani, nel costo, addirittura in termini di vite umane, pagato da medici e mediche, nello struggimento dell’essere tenuti a distanza da malati che amavamo. Forse questo ci ha fatto sobbalzare. Un tema modesto, gentile e palpitante ma relegato da sempre nelle retrovie – eppure sussunto – diventa un’ottima pubblicità per i governi. Tuttavia, davvero la società si è mossa in questi anni ponendo la cura al centro dei propri interessi e soprattutto quali contraddizioni già esistenti ha scoperchiato il virus? Che cosa è il codice della cura, oggi?

Mi infastidisce veder strattonare da tutte le parti questo termine per farne una bandiera quando, come dicevo, sono state le donne a nominare, analizzare e “lavorare” questa parola. Oggi tutti improvvisamente a parlare di cura e di società della cura. Citavo, in un testo della primavera scorsa, Pascale Molinier la quale scriveva: “Si dice che il care vada di moda. Sarebbe la cosa peggiore che potrebbe capitargli”[8].

C’è un abuso di questa parola, come succede in talune fasi con taluni concetti. Negli anni i femminismi hanno ragionato di cura e di società della cura, come notavo prima, cioè di una società dove il benessere non si declinava come avere, cioè come possesso di beni, case, cose ma come avere cura delle cose: casa, città, corpi, natura.

Nominare la cura da parte dei femminismi vuole dire nominare un prezioso patrimonio di competenze che apre anche una visione alternativa del mondo. Riflettere seriamente sulla società della cura ha voluto dire, vuole dire, vorrebbe dire, smetterla di glorificare il lavoro produttivo degli uomini, e provare a occuparci della reinvenzione della vita quotidiana che metta al centro uno sguardo differente. Si tratta di un patrimonio che certamente costruisce una esperienza, una pratica, anche processi di soggettivazione alternativi sul modo di leggere il mondo e i rapporti che lo governano.

Ma nel frattempo, mentre si discuteva di questo, anche con posizioni differenti, che cosa è successo? Innanzitutto, che le attività di relazione, di lavoro emozionale, di lavoro di cura, perfino la maternità sono diventati oggetto della attenzione del neoliberismo che ha cercato di ricomprendere al proprio interno il codice della cura, di mutuare e integrare nel lavoro produttivo dimensioni oblative funzionali all’economia della promessa e al realismo capitalista.

Possiamo inoltre aggiungere che il soggetto prototipico del processo di cattura della precarietà che si è dispiegata in questi ultimi venti anni, tradotta in salari miseri o, sempre più spesso, anche nella gratuità del lavoro produttivo (come già nel lavoro riproduttivo e nel lavoro domestico), è la donna precaria. La leva che viene utilizzata è ancora una volta quella della passione e della cura, dell’affezione per le cose che deriva per le donne da un’atavica abitudine culturale a prendersi cura della vita di coloro che ha intorno e che ama.

Con il passare del tempo, si è resa sempre più chiara la dimensione di dipendenza implicita in questi processi, fondati sul bisogno di riconoscimento e l’approvazione degli Altri che si allarga dal privato al pubblico sfruttando un super-io sociale che condiziona l’individuo e ne limita la libertà personale. Un ordine socio-affettivo che ha condizionato fortemente la storia sociale e psichica delle donne determinandone comportamenti e destini e che, nell’era precaria, è diventato una modalità generale di asservimento degli esseri umani alle necessità del lavoro e del capitale. Una complessa dinamica storica e sociale, mutuata da modelli di relazione affettiva che può essere definita come intesa sacrificale: il soggetto è complice del sistema il quale gli richiede il sacrificio di parti di sé e un’adesione che mette a repentaglio la propria autonoma individuazione, sacrificandola all’obsequim salariale[9], ovvero all’obbligo e al consenso mosso “da meccanismi affettivi piuttosto generici della ricerca amorosa di riconoscimento calati nella struttura generale del rapporto salariale e nella sua realizzazione locale come impresa[10].

Inoltre, il welfare state è diventato luogo di produzione, con privatizzazione della sanità e con la creazione di regimi sussidiari mentre il mercato della “cura” è oggi uno dei più appetibili per la valorizzazione capitalistica. Proprio questa incredibile fase storica, che ci costringe a stare nella cura, ne fa emergere tutti i lati oscuri, ovvero una “violenza della cura (che cura non è)”.

Aggiungiamo, per stare ancora agli orizzonti squadernati dalla pandemia, che la recessione economica connessa alla crisi portata con sé dalle misure per contenere l’emergenza sanitaria 2020 (Sars-CoV-2 o Covid 19) sembra colpire le donne molto più degli uomini a differenza di quanto accadde con la crisi del 2008. Questa volta le donne sono le principali vittime dello sconvolgimento sociale ed economico causato dagli effetti globali del virus.

Che conclusione possiamo trarne? Che, in una situazione di mai risolta tensione tra pubblico e privato, forse si approfitta della situazione emergenziale e di estrema criticità occupazionale, per costringere le donne a ritornare nel privato e nel lavoro di cura, considerano la assoluta necessità di avere una struttura di sussidiarietà primaria viste le condizioni dello sistema sanitario italiano che ha mostrato la profondità di lacune strutturali le cui origini vengono da lontano[11].

Tutte queste tracce, dalle più lontane alle più vicine, depotenziano il concetto: dai meccanismi estrattivi del capitalismo contemporaneo fondati su riproduzione, affetto e attenzione ai processi organizzativi del lavoro imperniati sulla dipendenza e sull’intesa sacrificale, ai processi di esclusione, di selezione della manodopera femminile che viene riservata alla cura, tutto ci invita a prestare attenzione a modulazioni eccessivamente romantiche del concetto, in questa fase.

Il paradosso attuale consiste nella utilizzazione del codice della cura in una doppia dimensione interna/esterna normativa per ricondurre le donne dentro alvei storicamente loro riservati (la cura di soggetti più fragili, dai bambini agli anziani, alle persone disabili), segmentando ulteriormente il mercato del lavoro, tra le donne che possono permettersi “aiuti” di altre donne mentre svolgono lavori all’esterno e donne che vengono costrette a lasciare il lavoro poiché non hanno le condizioni economiche per reggere l’assenza di servizi pubblici.

In generale, la famiglia, proprio questa cellula disfunzionale, è l’organismo che può attivare una serie di servizi per i propri componenti, nel momento in cui il settore dei servizi (a maggiore tasso di occupazione femminile) è entrato in crisi e la presenza femminile deve garantire quelle necessità di assistenza che il blocco di funzioni essenziale del Welfare legato alla pandemia ha messo in stand by (scuola, sanità, assistenza agli anziani).

 

Nella mailing list del progetto Effimera, un progetto autogestito ma che sostieni, letteralmente, da alcuni anni, una compagna ha anche denunciato che la società della cura semplicemente non esiste. Mi sembra in linea con alcuni contributi di questo numero di engagée. La cura è inconveniente. Oppure: la cura per chi si occupa di persone con disabilità è una condizione più che un intervento. O ancora e addirittura: la cura non è umana. Alla luce di queste riflessioni, può esistere ancora una pratica della cura che sia di emancipazione?

Come dicevo prima, nominando Maria Puig de la Bellacasa, bisognerebbe rimodulare la nozione a partire dai presupposti. Forse riprendere la definizione che Martha Nussbaum  dà delle emozioni come “sommovimenti del pensiero”[12]. Movimenti come la generosità, la benevolenza, la compassione, l’empatia da cui emerge incontestabilmente la nostra capacità di sentire l’Altro. La cura in sé e per sé non esiste, ha ragione la compagna che scrisse su Effimera, come tu ricordi. Ci sono sentimenti che vengono legati alla cura e della quale sono stati messi a baluardo. Ma questo relega il tutto in una dimensione privata e femminile quando invece dovrebbe aprirsi un’estensione della medesima alla sfera pubblica e sociale.  In generale, siamo mossi verso gli Altri da una serie di sentimenti ed emozioni e perfino modalità di valutazione che noi attribuiamo agli eventi oppure alle persone ed esse sono differenti da persona a persona. Perciò io convengo assolutamente con la tua affermazione che essa (la cura) sia una condizione, nel senso di requisito, situazione o presupposto necessaria a un determinato scopo.

Questo tanto più conferma le perplessità relative alle naturalizzazioni e perfino relative al nominare la cura, che si è ritagliata un ruolo di primo piano ma è tutto molto retorico. In effetti è solo apparenza, perché bisognerebbe davvero considerare come il sociale attraversa l’individuale o addirittura stabilisce una forma sociale di individualità.

Dopo aver provato a scavare sui pregressi teorico-pratici e sulle “catture” neoliberiste, forse arriviamo al punto. Judith Butler scrive della vulnerabilità come modalità politica del corpo, corpo concepito come “animale umano”, laddove l’empatia consiste “nell’aprirsi al corpo di qualcun altro, o di un insieme di altri”. Butler usa una bellissima immagine e scrive “i corpi non sono entità chiuse in sé stesse ma sono sempre, in un certo modo, fuori di sé, estese e talvolta espropriate, attraverso i sensi mentre esplorano il loro ambiente”[13]. Dunque dopotutto la mia vita, nonostante sia unica, si dà solo se connessa con reti di vita più ampie. Per questo il gesto del prendersi cura è particolarmente suggestivo, tanto più in questa fase di malattia, lutti, assenza di assistenza. Ma non si possono obliterare i contorni sociali e politici, ambientali, in cui tutto si dà e accade.

La cura non è umana, in effetti, proprio perché partecipiamo tutti trasversalmente a molte comunità e anche le testimoni modeste femministe di Haraway non possono permettersi innocenza e trasparenza. Siamo tutti, umani o meno, portatori di saperi riguardo la gestione della vita, fuori dal potere del capitale. Il che potrebbero fare la differenza. Imparare a posizionarsi, mettendosi in rapporto, forse questa può essere una pratica di cura che interseca fuori da dimensioni di genere e con specificità e concretezza. Penso anche, da quanto visto con la ricerca Commonfare, benché non sia facile, che una strada possa essere quella di coalizioni pratiche insieme a connessioni immaginative. Abbiamo parlato anche di concatenazioni.

 

In un tuo articolo sulla “cura del capitale” evidenzi come il nesso tra cura e valore sia particolarmente problematico. La famiglia come unità utilitarista o la comunità come gruppo imprenditoriale (“business community”) mettono a lavoro, e quindi a valore, la riproduzione sociale, producendo a sua volta economie sociali di mercato. Potresti spiegare le forme contemporanee di questo nesso cura-valore? E in che modo si può generare uno strappo che porti dalla “cura del capitale” alla “cura del comune”?

È fondamentale tenere in considerazione la crescita di una economia dei nuovi servizi riproduttivi che oggi vengono forniti alla persona sociale, nella sottrazione di tempo di vita che è effetto lampante del regime di produzione sociale del lavoro sociale, proprio alla luce della crisi Covid 19: la maggioranza delle piattaforme (da Arbnb a Foodora, da Uber a e-Bay e Amazon) si basa innanzitutto sulla fornitura di servizi di riproduzione e per il tempo libero (cibo pronto; case, automobili o biciclette in affitto; turismo; acquisti online…). Queste piattaforme sono l’ossatura della economia libidica o dell’interiorità che costituisce il cuore della accumulazione contemporanea. La libido, mi era già chiaro quando ho scritto dieci anni fa Per amore o per forza, andava spostata da partner, amanti, figlie, parenti, amici verso l’impresa capitalistica, verso le organizzazioni.

Il data mining consentito delle info-macchine, le profilazioni, la raccolta di dati, la capacità di conoscere, di scavare nei recessi dell’esistenza, l’obbedienza all’algoritmo definitivo che invera i nostri bisogni e ci presenta ciò che desideriamo e che ci serve quasi prima che il pensiero stesso si accenda (un corso di yoga online; l’inserzione del laboratorio dove ti fanno tamponi a domicilio; la nuova lavatrice perché la vecchia si è rotta; un integratore che promette di combattere perfino la tristezza), sono la merce che noi vendiamo, per un tempo non stabilito e senza alcun riconoscimento salariale per questo lavoro.

Per stare ancora all’attualità, con l’emergenza sanitaria si sta diffondendo il ricorso a “dispositivi indossabili interconnessi”. Una realtà da “biopolitica ratificata”, così definita da due studiosi tedeschi Anna-Verena Nosthoff e Felix Maschewski[14]. Si tratta del ricorso a una serie di dispositivi tecnici, in grado di controllare e influenzare i comportamenti umani, che vengono utilizzati dalle compagnie assicurative per indirizzare i clienti verso uno stile di vita più sano. La società di assicurazione sanitaria americana John Hancock ha recentemente reso obbligatorio un braccialetto fitness per ogni nuovo assicurato. In un sistema a punti, se fai sport e buone performance puoi abbassare il costo della polizza mentre al contrario essa si alza se ti mostri pigro e sedentario.

Lo stato sociale si disintegra e il costo dell’assicurazione sanitaria dipende dal tuo stile di vita, monitorato, appunto, da appositi dispositivi. Uno scenario di ingegneria sociale. L’epidemia non ha dunque anche giustificato un salto carpiato senza alcun tipo di resistenza verso il contact tracing? La vita quotidiana diventa esperimento di misurazione (a proposito di misura e di valore) in cui, con il pretesto di migliorare salute, sicurezza o produttività, si collezionano dati per sviluppare nuovi prodotti e servizi. Profitto.

 

Infine, quali consigli daresti a organizzazioni politiche o gruppi di militanti per cui le relazioni politiche di cura (“care politics”) vengono poste come un principio centrale della propria modalità di organizzazione?

Dare indicazioni è estremamente difficile. Penso che vada recuperato il pieno significato politico (e femminista) della cura, che non è un concetto molle, relegato al privato e al prepolitico ma viceversa va intero in termini eversivi, conflittuali, poiché presuppone una diversa organizzazione della società e del mondo (città, ambiente, tempo, formazione, produzione, attenzione a tutti i corpi). Tutto dovrebbe essere radicalmente diverso.

Pascale Moliner parla della cura come di un’etica dei subalterni. In questo senso le si restituisce tutto il suo portato politico e immaginativo. Judith Butler si domanda come poter vivere una vita buona in una vita cattiva, che vuole dire confrontarsi immediatamente con i problemi dell’organizzazione sociale e politica capitalista. Non eludere, non idealizzare, non fare esodo. Attualizzare anche. Il ruolo delle tecnologie e del capitale biocognitivo non può essere aggirato. Non accontentarsi degli orti urbani, per quanto importati.

Se le condizioni materiali, dunque la condizione precaria, hanno per forza influenza sul modo di pensare contro l’individualizzazione e la privatizzazione degli affetti (e dei corpi), bisogna ridare a essi un pieno significato politico. Il tema della vulnerabilità e della interdipendenza ha un grande potenziale di rottura all’interno di un mondo che si struttura sulla pretesa di invincibilità, anche fisica, sulla giovinezza, sulla bellezza, sulla rimozione della caducità, sull’invisibilizzazione della debolezza. Ecco, credo che da questa consapevolezza possa cominciare la cura.

 

NOTE

[1] Neal Noddings, Caring. A Feminist Approach to Ethics and Moral Education, University of California Press, Berkeley 1984

[2] Cristina Morini, Take Care: Society of Care and Self-determination Income, Cogut Institute for Humanities, Brown University, May 2020, https://blogs.brown.edu/humanities/archives/344

[3] Laura Balbo, La doppia presenza, “Inchiesta”, n. 32, pp.3-6

[4] Il reddito di autodeterminazione ha un significato ampio e generalizzato e non riferito solo a categorie specifiche della società. Dal documento di Non Una di Meno, Abbiamo un piano. Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere, novembre 2017, pag. 29: “Reddito di autodeterminazione, incondizionato e universale, slegato dalla prestazione lavorativa, dalla cittadinanza e dalle condizioni di soggiorno. Un reddito che serva come garanzia di indipendenza economica, e dunque sia concreta forma di sostegno per le donne che intraprendono percorsi di fuoriuscita da relazioni violente (intrafamigliari e lavorative); più in generale come strumento di prevenzione, per tutte e tutti, rispetto alla violenza di genere, di autonomia e di liberazione dai ricatti dello sfruttamento, del lavoro purché sia, della precarietà, delle molestie”.

[5] Progetto Europeo Horizon 2020 (2017-19): “Pie News Project – Commonfare”, EU Grant Agreement No 687922

[6] Maria Puig dela Bellacasa, Matters of Care. Speculative Ethics in More Than Human Worlds, University of Minnesota Press, Minneapolis London 2017, pag. 19

[7] Ivi, pag. 187

[8] Pascale Molinier, Care: prendersi cura, Moretti&Vitali Editori, Bergamo 2019, pag. 13

[9] Frédéric Lordon, Capitalismo, desiderio e servitù. Antropologia delle passioni nel lavoro contemporaneo, DeriveApprodi, Roma 2015, pag. 95

[10] Ibidem, pag 96

[11] Chiara Giorgi, “Le politiche sanitarie ieri, oggi e domani”, in Rapporto sullo Stato sociale 2020, a cura di F. Pizzuti, M. Raitano, M. Tancioni (Sapienza Università editrice) (in corso di pubblicazione).

[12] Marta Nussbaum, Upheavals of Thought: The Intelligence of Emotions, Cambridge University Press, 2003

[13] Judith Butler, L’alleanza dei corpi, Nottetempo, Milano 2017, pag. 333

[14]Anna-Verena Nosthoff e Felix Maschewski, Die Gesellschaft der Wearables: Digitale Verführung und soziale Kontrolle, Nicolai Publishing & Intelligence GmbH, Berlin 2019

 

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