Premessa
La crisi sanitaria ed economica indotta dal Coronavirus ci obbliga ad ampliare il nostro orizzonte di ricerca e a cercare di percorrere strade nuove e radicalmente innovative. Il nuovo libro di Dardot e Laval (scrittori molto prolifici) ci dà l’opportunità di muoverci in questa direzione. La recensione di Laurent Mauduit ci dà un quadro dei temi trattati, come anticipo all’edizione italiana che uscirà per DeriveApprodi.
È interessante l’analisi condotta da Dardot e Laval sul concetto di “sovranità nazionale”. Finora il tema è stato trattato in termini più squisitamente politici che economici. La ricostruzione storica di tale concetto è fondamentale per comprendere come esso abbia subito delle modifiche strutturali. Il ruolo della Chiesa Cattolica al riguardo è stato centrale. Sovranità divina, poi sovranità imperiale, poi sovranità politica. Passaggi che hanno segnato epoche e forme di governamentalità (per dirla alla Foucault) che hanno definito l’evoluzione delle forme del potere. Prima assoluto, poi politico, oggi economico.
Il secolo XIX ha segnato il passaggio dalla sovranità politica a quella economica e non poteva essere altrimenti in un contesto capitalistico di produzione. Tale passaggio è stato segnato da un’intensa fase di globalizzazione che ha preso le forme della colonizzazione dei paesi produttori di materie prime. Dal possesso della terra come fonte di sopravvivenza (cibo) e di gerarchia tra territori si passa al controllo del “sottoterra” e della tecnologia come strumento essenziale per lo sviluppo e la diffusine del sistema capitalistico di produzione, tramite il controllo delle materie prime da un lato e della forza lavoro migrante dall’altro.
Il secolo XX, teatro di due guerre mondiali, ha consolidato il binomio “capitalismo-sovranità”, definendo una gerarchia nazionale basata sul primato economico, fondato sulla dicotomia “sviluppo-sottosviluppo”. La produzione materiale e fisica del paradigma fordista richiedeva un patto tra produttori (new deal) a scapito di tutto ciò che non era considerato produttivo, scaricando le esternalità negative dell’accumulazione capitalistica sulla “riproduzione sociale” (bios) e la “riproduzione naturale” (zoe).
Nel nuovo millennio, ci troviamo di fronte ad un contesto socio-economico, quello del capitalismo bio-cognitivo, dove la maggior valorizzazione risiede in produzioni sempre più intangibili che hanno a che fare in modo crescente con la gestione (governamentalità) della cooperazione sociale e del welfare e trova la sua sintesi nei meccanismi della finanziarizzazione come possibile strumento di misura.
In tale contesto, il capitale non ha più bisogno della sovranità nazionale, il patto fordista è stato superato dalle nuove esigenze di valorizzazione. Al limite, ciò che può essere utile è una ridefinizione di assetti territoriali sovranazionali su basi più omogenee, con il rischio di sviluppare tensioni geo-economiche internazionali . Può aver senso, allora, la ridefinizione di una sovranità nazionale in funzione anti-capitalistica (ammesso che tale idea di sovranità esista)? Oppure, detto in altro modo, è possibile che il protezionismo economico nazionale possa essere uno strumento utile per la costruzione di una società altra?
Dobbiamo porci queste domande, tenendo presente che una delle leve del capitalismo bio-cognitivo è lo sfruttamento del “comune” e la sua sussunzione/espropriazione all’interno dei nuovi processi di cattura che le moderne tecnologie algoritmiche consento e impongono. In un simile quadro, l’esigenza economica del capitale va oltre la dicotomia tra privato e statuale. E la stesa struttura proprietaria si ridefinisce oltre quella pubblica e privata. Ciò che è in gioco è il comune come modo di produzione (Vercellone) e terreno di futuro conflitto.
Per questo Dardot e Laval rispondono che ritornare alla sovranità nazionale e al protezionismo economico ed “etnico” non ha senso. Come ha scritto Marx nel Discorso sul libero scambio:
“Non crediate tuttavia, signori, che, facendo la critica del libero scambio, noi intendiamo con ciò levarci a difensori del protezionismo. Si può attaccare il regime costituzionale senza con ciò essere difensori dell’assolutismo. Il protezionismo è un mezzo che serve all’impianto della grande industria in un dato paese e gli apre con ciò la necessità del mercato internazionale e quindi di nuovo il bisogno del libero scambio. Il protezionismo sviluppa inoltre la libera concorrenza nei confini nazionali. … Queste misure le servono come armi contro il feudalismo e l’assolutismo e come mezzo per concentrare le sue forze e realizzare il libero scambio all’interno. In generale attualmente il protezionismo è misura conservatrice, mentre il libero scambio agisce come forza distruttiva. Esso distrugge le vecchie nazionalità e spinge agli estremi l’antagonismo fra proletariato e borghesia. Il libero scambio affretta la rivoluzione sociale. È solo in questo senso rivoluzionario, o signori, ch’io voto pel libero scambio”.
Andrea Fumagalli
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Nel loro ultimo libro, Dominer, il filosofo e il sociologo indagano sulle origini della sovranità statale. Stabilendo che la Chiesa è stata, dall’XI secolo, il modello di questa “forma specifica di dominio, quella dello stato moderno”, smontano i sovranisti di tutti i colori che propagano questa ideologia e offrono solo una “falsa uscita dal neoliberismo”.
C’è qualcosa di affascinante nel lavoro di ricerca svolto dal filosofo Pierre Dardot e dal sociologo Christian Laval. Con cura e metodo costruiscono un’opera che, libro dopo libro, assume una coerenza complessiva che attira l’attenzione, tanto aiuta a far luce sulle origini dei disordini nel nostro mondo contemporaneo, insieme ai possibili percorsi per superarli. Sono palesemente in contrasto con le produzioni editoriali dominanti che molto spesso navigano su controversie superficiali o effimere.
Attraverso il loro lavoro precedente, e in particolare nel loro libro Commun (La Découverte, 2014), i due ricercatori invitano a riflettere sulle “nuove forme democratiche che mirano a subentrare alla rappresentanza politica e al monopolio dei partiti”, per contrastare “nuove forme di appropriazione privata e statale”. In questo saggio hanno spesso sottolineato che l’opposizione tra Stato e mercato era fittizia. “Denunciare la mercificazione del mondo spesso porta ad accontentarsi di difendere i servizi pubblici nazionali e chiedere l’espansione dell’intervento statale. Quali che siano i suoi meriti, questa richiesta resta sul terreno dell’avversario rifiutandosi di mettere in discussione un antagonismo costituito proprio per fare del mercato la regola e lo Stato l’eccezione”. E hanno aggiunto: “Il neoliberismo ha posto fine all’idea che lo Stato possa essere un rimedio della società contro gli effetti disastrosi del capitalismo […]. La proprietà pubblica appariva allora non come una protezione del comune, ma come una forma “collettiva” di proprietà privata riservata alla classe dominante, che poteva disporla a suo piacimento e depredare la popolazione secondo i suoi desideri e interessi.”
Nel loro nuovo libro Dominer – Enquête sur la souveraineté de l’État en Occident (La Découverte, 730 pages, 26 €), appena pubblicato, il filosofo e il sociologo scavano la stessa strada concentrando la loro ricerca questa volta non principalmente sui danni causati dal neoliberismo ma su quelli generati dal principio di sovranità statale. Chiaramente, aggiungono un’altra pietra alla loro dimostrazione stabilendo la multiforme pericolosità della sovranità statale, un principio che ha prevalso in tutto l’Occidente.
All’inizio gli autori sottolineano così le attuali sfide del mondo e sottolineano come questo principio di sovranità statale funzioni come un “blocco” che impedisce di soddisfarle. Così è con la sfida climatica: “Come ‘salvare il pianeta’, scrivono, se ogni stato si comporta come il proprietario di una parte del pianeta, che può fare quello che vuole, a seconda degli imperativi di redditività? La verità è semplice: l’emergenza climatica ora ci impone di mettere in discussione, direttamente e apertamente, il principio della sovranità statale e la logica interstatale che ne è il rigoroso corollario.”
E i due autori estendono l’osservazione: “La stessa esigenza, quella di andare oltre questo regime, è ancora necessaria in altri ambiti, che si tratti della difesa delle libertà pubbliche e dei diritti individuali o della solidarietà verso popolazioni schiacciate dagli stati totalitari. I realisti della politica internazionale sono ben consapevoli di questo principio di sovranità e sanno quanto sia efficace nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite quando si tratta di lasciare mano libera agli artefici della guerra.”
Per Dardot e Laval, non possiamo quindi superare i disordini del mondo senza mettere in discussione questo principio di sovranità, che sancisce una forma di dominio. “Sovranità”, continuano, “significa propriamente il dominio esercitato all’interno di un dato territorio da un potere statale sulla società e su ciascuno dei suoi membri. In altre parole, è il concetto di una forma specifica di dominio, quella dello Stato moderno.”
Si capisce quindi il grande interesse del lavoro dei due ricercatori: vanno contro un’idea che sconvolge la Francia, sia a destra che a sinistra, da quasi tre decenni; secondo questa idea il ritorno dello stato e la sua sovranità sarebbero il miglior scudo per proteggere il paese dalle devastazioni della globalizzazione neoliberista. (NT: questa era anche l’idea di alcuni celebri intellettuali fra i quali Bourdieu e Castel che alludevano alla speranza di uno Stato sociale e di sinistra, mentre Foucault si situava in una prospettiva anarchica).
Per loro, la verità è radicalmente diversa: la sovranità è un vicolo cieco. Leggendoli, capiamo che è ancora più grave: l’ideologia della sovranità gioca un ruolo molto dannoso. Spiegazione: “I difensori di questa sovranità, da tutte le parti, amano denunciare tutti gli “ingenui” che rimangono attaccati alle prospettive post-nazionali e quindi giocherebbero al gioco del neoliberismo. Crediamo l’esatto contrario. È questa ideologia sovranista che ci impedisce di andare oltre il momento neoliberista della politica mondiale. Ed è contro questa ideologia sovranista, sia di destra che di sinistra, che questo libro è interamente dedicato.” (NT: in altre parole i sovranisti sono neoliberisti).
I due ricercatori sottolineano addirittura con grande rilevanza il fatto che il sovranismo è molto spesso “solo una falsa uscita dal neoliberismo, in quanto quest’ultimo si è già ibridato con diverse forme di identità e protezionismo”, come attestano gli esempi di Trump ed Erdogan.
Inizia quindi l’indagine principale del libro, che cerca di stabilire come storicamente questa forma di dominio si sia imposta in Occidente. Indagine storica e intellettuale erudita! I due autori insistono sul fatto che la Chiesa fosse il modello giuridico-politico attorno al quale si imponeva questo principio di sovranità dello Stato e risalgono, a dimostrazione di questa manifestazione, fino alla fine dell’XI secolo, e al ruolo svolto all’epoca da Papa Gregorio VII.
Dettagliando il rivoluzionario “dictatus papæ” (“ciò che il papa detta”) adottato da questo papa nel 1075, che gli consente di esercitare “il suo governo in materia di fede e morale, nonché in questioni civili come il matrimonio e l’eredità “, e per stabilire” giurisdizione generale su tutte le cause ad essa sottoposte”, i due ricercatori dimostrano che si tratta di una rottura importante: “Nella storia dell’Occidente moderno, non è né la sacralizzazione dei re nelle monarchie ellenistiche, né la deificazione degli imperatori romani, né la sovranità inscritta nell’essere del Dio cristiano, ma la sovranità pontificia che servì da modello diretto per la costruzione della sovranità statale”.
Dopo questa lunga genealogia della sovranità statale, Dardot e Laval cercano logicamente di descrivere gli sforzi intrapresi da molti, nell’estensione della Rivoluzione francese e per tutto il XIX secolo, per rompere, più o meno facilmente, con questo principio di sovranità, e trovare una via che favorisca le forme di autogoverno dei cittadini, vale a dire l’emergere di una vera democrazia.
Inizia quindi la loro seconda indagine, altrettanto erudita della prima, con innumerevoli fermate. Prima tappa su Saint-Simon e la sua prospettiva di un’associazione autonoma di produttori. “Il socialismo emerso dal saint-simonismo fa dell’associazione il principio direttamente antagonista alla sovranità statale e all’organizzazione capitalista della produzione. “Associazione” e “socialismo” divennero quasi sinonimi addirittura negli anni 1830. Senza poter attribuire loro la diffusione del solo tema dell’associazione operaia […], i sant-simoniani diffondevano l’idea che la società futura sarà formata dalla generalizzazione della forma associativa e cooperativa nel campo della produzione economica”.
Alla ricerca di altre forme di sviluppo di una democrazia autentica, voltando le spalle alla sovranità statale, i due autori fanno ancora altre fermate. Sulle opere, alla rinfusa, di Fourier, Proudhon, Louis Blanc o Bakounine e, naturalmente, Marx.
Ma alla fine di questo lungo viaggio, il quadro generale è in definitiva pessimista. “L'”eresia” dei primi socialisti intendeva sfidare frontalmente lo statalismo nel momento stesso del consolidamento degli Stati nazionali in Europa […]. È stata sconfitta. L’autogoverno e l’internazionalismo si sono ritirati dinanzi al potere degli Stati centralizzati e alla diffusione su larga scala del nazionalismo istituzionale” e aggiungono: “La sconfitta dell’antisovranismo socialista non provocò certo la sua completa scomparsa: sopravvisse ai margini del movimento operaio, una tradizione nascosta e ancora minacciata che riapparve sul fronte storico della scena nelle rivoluzioni del XX secolo e dell’inizio del XXI secolo. Ma il punto è: lo Stato nazionalista ha vinto la Russia “comunista”, a scapito di quella che prometteva di essere una rottura radicale con la logica della sovranità statale.”
E, seguendo i due autori, si capisce che questa sconfitta ha scosso particolarmente la sinistra, e questo per molto tempo. “Il movimento socialista, come Marx temeva dal 1870, ha cambiato il significato delle lotte politiche e sociali all’interno degli stati-nazione: il socialismo è stato gradualmente concepito come un’estensione della sovranità statale sull’economia. Preso nel gioco istituzionale del parlamentarismo, la questione con cui si confrontavano gli attori del conflitto sociale finì per essere quella di come conquistare il potere e come esercitare la sovranità statale. Il socialismo quindi non si è sviluppato lungo la linea della rottura antisovranista che abbiamo visto emergere da Saint-Simon a Marx.”
Ai sovranisti di ogni tipo, che spesso hanno il sopravvento in Francia, sostenendo abusivamente di combattere gli eccessi del liberalismo, Dardot e Laval somministrano quindi una severa correzione. “La vera esigenza politica oggi – concludono – non consiste nel ripristinare la verticalità dello Stato, e neppure nel mantenerla, ma nell’iniziare a sbarazzarsi del feticcio del pontificalismo di Stato per immaginare un altro sistema di obbligo reciproco degli individui che ostacola l’alternativa tra verticalità e orizzontalità rifiutando la logica stessa della rappresentanza politica.”
Insomma, Dardot e Laval giungono alla conclusione di questo libro con quella che era anche la conclusione del loro lavoro precedente e il filo a piombo di tutto il loro lavoro di ricerca: la necessità imperativa di andare avanti verso i beni comuni per affrontare le serie sfide di fronte al pianeta. Ma come vai avanti? Alla fine del libro, questo è l’unico rimpianto che si può avere, poiché i due autori non rispondono alla domanda. Avvertono solo che questo libro è la prima parte di un progetto complessivo, che includerà un secondo volume, non più sulla genealogia di questa storia, ma sulle questioni strategiche che ne derivano riguardanti “la sinistra globale e la cosmopolitica di Comune”.
Non abbiamo quindi finito di seguire Dardot e Laval nella costruzione della loro opera, così originale.
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Postilla di Salvatore Palidda: “La fede nello “stato” ha sempre marchiato la sinistra soprattutto dopo Lenin (e in parte Gramsci), approdando alla analogia fra dittatura del proletariato e dittatura del partito e quindi partito-stato e sua “nomenklatura”. Il mito dello stato sociale, dello stato “giusto”, dello stato dei diritti umani, è rimasto intatto e si muta con quello dell’Europa sociale eccetera. Sta in questo l’antitesi con un autore come Foucault che costruisce la sua opera come decostruzione del potere a cominciare dall’epistemologia della sua costituzione e quindi resta sempre radicalmente opposto a qualunque potere. Mentre invece gli autori di sinistra spesso continuano a sperare in uno “stato” che diventi “di sinistra”…”
Traduzione dal francese di Salvatore Palidda. Ringraziamo Mediapart per averci concesso l’autorizzazione alla pubblicazione di questo articolo