Effimera pubblica oggi come prima proposta di lettura estiva il testo, di estremo interesse, dell’intervento che Federico Zappino ha tenuto durante il seminario “Fine della differenza sessuale?” (insieme a Lorenzo Bernini, Bruna Giacomini, Stefania Ferrando e Chiara Zamboni) organizzato da Lìbrati. Libreria delle Donne (Padova, 16 aprile 2016)
****
Oggi ci viene posta una domanda, “fine della differenza sessuale?”. Ma che cosa ci stiamo domandando, e che cosa ci viene domandato, oggi, con la domanda “fine della differenza sessuale?”. Qual è l’oggetto di questa domanda, e in che modo tale oggetto è strutturato, o compromesso, dalla domanda stessa? Prima di rispondere vorrei iniziare dalla condivisione di un timore, di una paura – la paura che dietro a questa domanda si celi un equivoco di fondo. Al contempo, non faccio parte di coloro che sono disposti a porre rimedio a questo equivoco tirando rovinosamente al ribasso, e dunque, in fondo, rassicurando chi invece ritiene che la differenza sessuale si trovi oggi a essere minacciata, o negata, o che sia qualcosa da tutelare, o da valorizzare, o che sia semplicemente folle mettere in discussione.
La mia paura è che ogni qual volta si sollevi la questione dell’esistenza, o della sopravvivenza, della differenza sessuale, come oggi, e ogni qual volta tale questione venga sottoposta a chi, più o meno, si posizioni o si collochi, o venga collocato, nell’alveo del transfemminismo queer – ogni qual volta si venga richiamate sulla differenza sessuale, insomma, e il richiamo è di tipo disciplinare, ci si stia implicitamente accusando di essere quasi delle visionarie, di mettere in discussione l’esistenza e la materialità di organi interni ed esterni, o di non conoscere le differenze tra questi organi. Di recente, per fare un esempio, una importante esponente del femminismo della differenza mi ha accusato, sintomaticamente, di non sapere come nascano i bambini. Al di là del fatto che accuse di questo genere sottintendano una patologizzazione, tra le altre cose, è forse bene ricordare – ancora una volta – che esistono altri modi di porre la questione della riproduzione, del corpo, e delle differenze tra i corpi, anche al di fuori del lessico della differenza sessuale: esistono altri modi purché si sia disposti a indagare, appunto, quanto l’oggetto coincida con la sua presentazione, o quanto, al contrario, da essa possa, o debba, differire. Con ciò non sto dicendo che l’oggetto possa essere ridotto al modo in cui viene presentato, ma solo che ogni oggetto, e dunque anche la differenza sessuale, per essere leggibile, richiede una presentazione.
Abbiamo tutte chiaro come sono fatti i corpi – o, almeno, quelli con i quali abbiamo a che fare, direttamente o indirettamente, e il fatto che si abbia a che fare con alcuni corpi piuttosto che con altri non è irrilevante. A essere in questione, dunque, non è la “fatticità biologica”. A essere in questione, semmai, è 1) l’essere disposte a comprendere quanto il lessico della differenza sessuale sia in grado di descrivere e di comprendere l’intero spettro delle fatticità biologiche; 2) l’essere disposte a comprendere non solo quanto questo lessico non rischi di obliterarne un po’, bensì quanto non rischi di produrre a sua volta, incessantemente, l’unica differenza possibile, l’unica alla quale conformarsi, e alla quale sottoporre un quesito circa la propria esistenza.
*
È utile ricordare che la domanda che ci viene posta per questo incontro si rifà esplicitamente a uno dei saggi che compongono Fare e disfare il genere, di Judith Butler, intitolato, appunto, Fine della differenza sessuale? Scherzi della memoria a parte, penso che “fine della differenza sessuale?” continui a essere una domanda cruciale, per almeno due motivi. In primo luogo, perché continua a essere una domanda che, volenti o nolenti, riferisce di un conflitto tra il femminismo (potremmo forse dire esplicitamente il “femminismo della differenza”) e il transfemminismo queer – nonostante sia forse importante tenere a mente che Butler si definisca “rappresentante tardiva della seconda ondata del femminismo” (p. 263), senza ulteriori aggettivazioni, e che motivi così la sua autodefinizione: “È bene che io dica subito […] che la mia convinzione è che sarebbe un errore aderire a una nozione progressiva della storia, secondo cui [il femminismo, il queer, il movimento trans*, il movimento intersex vengono concepiti] in successione o, peggio, in sostituzione [l’uno con l’altro]. Dal mio punto di vista non esiste una storia da raccontare relativamente al passaggio dal femminismo al pensiero queer, al pensiero trans*, ecc. E la ragione per cui non c’è una storia da raccontare è che nessuna di queste storie appartiene al passato: queste storie continuano ad accadere, simultaneamente, e si accavallano proprio mentre cerchiamo di catturarle in una narrazione comprensiva” (p. 35). E ancora: “Il movimento trans* e il movimento intersessuale, a mio avviso, non sono postfemministi. Entrambi, al contrario, trovano nel femminismo importanti risorse concettuali e politiche, e il femminismo rappresenta per loro una continua sfida, oltre che un alleato” (p. 41). “Sfida”, da un lato, “alleanze”, dall’altro: tra “femminismo” e “transfemminismo queer”, in effetti, c’è una conflittualità che ci interroga, ci mobilita, e che ci impone di prendere in considerazione nuovi – e vecchi – problemi. Si tratta di un conflitto che si riaccende di nuovi fuochi man mano che le generazioni progrediscono, e che, nel farlo, ci esorta a interrogarci sul concetto stesso di “generazione” – consentendoci tra l’altro di problematizzare, di volta in volta, quando questo concetto riferisca di qualcosa di “generativo”, quando di una insopportabile reificazione, e quando di mere logiche gerarchiche[2]. In secondo luogo, “fine della differenza sessuale?” è una domanda che ci consente effettivamente di prendere in considerazione alcune particolari questioni – e che, al contempo, ci impone di interrogarci sul perché tali questioni non siano trattabili al di fuori del lessico della differenza sessuale. Ciò, ovviamente, non significa che il lessico della differenza sessuale non possa essere usato contro se stesso, o per finalità impreviste, o che non possa aprirsi a inedite risignificazioni. Ciò significa, piuttosto, che anche nel caso di una sua risignificazione, questa ci restituirebbe in fondo la portata del ruolo che non solo questa domanda, ma il suo stesso oggetto, la “differenza sessuale”, occupano nel discorso, nel simbolico e nell’immaginario. In quelle pagine che sono state salutate da Luisa Muraro – in un articolo apparso sul “Corriere della sera” – come “oneste” e “intelligenti”[3], è la stessa Butler a scrivere: “Non pongo la domanda sulla fine della differenza sessuale per auspicarne la realizzazione. E non intendo nemmeno elencare le ragioni per cui sono persuasa che questa cornice, o questa “realtà”, a seconda di come la consideriate, non valga più la pena di essere perseguita. Credo che per molti la realtà che struttura la differenza sessuale non possa essere ignorata, contrastata, e nemmeno ragionevolmente rivendicata. Essa è forse più simile allo sfondo necessario alla possibilità del pensiero, del linguaggio e dell’essere un corpo nel mondo. Chi ne dubita mette in discussione la struttura stessa che rende possibile l’argomentazione. A volte si liquida il problema con un po’ di ironia: pensiamo di poter fare a meno della differenza sessuale, ma è proprio il nostro desiderio di sbarazzarcene a rappresentare un’ulteriore prova della sua persistenza ed efficacia” (p. 264). È sempre Butler, però, altrove nel testo, a domandarsi: “Se gli spermatozoi e gli ovuli sono necessari alla riproduzione, e continueranno a esserlo (ed è forse in questo senso che la differenza sessuale continuerà a costituire una parte essenziale di qualsiasi narrazione che un essere umano, sia esso maschio o femmina, possa formulare riguardo alla propria origine), ne consegue anche che tale differenza plasmi il soggetto più in profondità rispetto ad altre costitutive forze sociali?” (p. 44) Assoggettamento primario (simbolico, linguistico), da un lato; mera fatticità (biologica), o, come dice a più riprese nell’ultimo libro, Notes Toward a Performative Theory of Assembly[4], “vita creaturale” (per agganciarsi alle istanze antispeciste[5]), dall’altro. “Fatticità biologica” o “vita creaturale” che, se da un lato diventano il modo per indicare “spermatozoi e ovuli”, al contempo non sono sinonimi di “differenza sessuale”, dato che è sempre in Fare e disfare il genere che troviamo scritto: “Il sesso è reso comprensibile dai segni che indicano come dovrebbe essere letto o interpretato. Tali indicatori corporei rappresentano i mezzi culturali con i quali viene letto il corpo sessuato. Anch’essi possiedono una natura corporea e agiscono in quanto segni, perciò non è facile distinguere tra ciò che è “materialmente” vero e ciò che è “culturalmente” vero riguardo il corpo sessuato. Non intendo affatto approdare alla conclusione che i segni puramente culturali producano la materialità del corpo, ma intendo solo dire che il corpo non può diventare sessualmente leggibile senza quei segni, i quali sono irriducibilmente culturali e materiali allo stesso tempo” (p. 147). Cosa sta dicendo, Butler? Dire che i “segni” che consentono di leggere il corpo sessuato – la differenza sessuale – siano al contempo “materiali” e “culturali” significa, ad esempio, dire che il pene come organo materiale sia difficilmente distinguibile dal fallo come segno culturale e, dunque, dalla pesante stratificazione culturale di quel segno, la quale determina a sua volta la leggibilità dell’organo (il suo corretto funzionamento, i suoi usi, i suoi standard). E per rendere ancora più chiaro il modo in cui “il culturale” struttura la leggibilità del “materiale”, adduce un esempio direi eloquente: se voglio ingrandire chirurgicamente le dimensioni del mio pene, non dovrò rivolgermi a nessuno psichiatra, non dovrò subire nessuna patologizzazione, e nessun giudice dovrà deliberare sulla mia scelta di sottopormi a quell’intervento. Ma accade lo stesso se, invece, desidero che il mio pene venga chirurgicamente asportato? Cosa determina questa differenza di trattamento da un caso all’altro? Si tratta per caso di due “scelte” simmetriche? In Notes Toward a Performative Theory of Assembly, in proposito, Butler rivolge lo sguardo alla sua teoria della performatività del genere – nonostante molte e molti pensassero che, dopo Fare e disfare il genere, e le aperture, in esso contenute, nei confronti di un certo femminismo della differenza (da Luce Irigaray[6] a Rosi Braidotti), Butler avesse in qualche modo allentato la presa su tali questioni. Nell’ultimo libro, il genere, e ciò significa “l’insieme delle norme di genere”, viene, ancora una volta, e in modo se possibile ancora più esplicito, definito quale parte fondamentale dell’“imposizione psicosociale” – cito dal testo – e del “lento inculcamento [di quelle] norme” che “ci piombano addosso quando nemmeno ce l’aspettiamo, e che poi si fanno strada anche grazie a noi, animando e strutturando la nostra responsività” (ibid. trad. mia). Scrive, in modo inequivocabile: “nel teorizzare la performatività del genere ho voluto sostenere che esso consiste in un insieme di atti; che l’“apparizione” del genere viene spesso fraintesa quale segno di una verità interiore, o innata; che il genere è indotto da norme coercitive, le quali richiedono che si aderisca o a un genere o all’altro (solitamente all’interno di una cornice di intelligibilità rigidamente binaria); che la riproduzione del genere è sempre una negoziazione con il potere; che, infine, non vi sarebbe genere al di fuori della riproduzione di quelle norme che, proprio nel corso della ripetizione degli atti di genere, possono essere disfatte e rifatte in modi inattesi, aprendo così alla possibilità del rifacimento dell’intera realtà del genere lungo nuove direttrici” (ibid. trad. mia). È importante ricordare che con “norme di genere” Butler intenda quegli ideali regolativi, e coercitivi, di mascolinità e di femminilità ai quali siamo chiamati a conformarci – per mezzo di “interpellazioni” e “fantasie altrui” – e che producono, “retroattivamente”, dice Butler, l’idea che vi sia un sesso a precederli, appunto una “verità interiore, o innata” (supra), e che questa idea renda poi intelligibile il corpo, il modo in cui questo corpo si autopercepisce, si muove e orienta nello spazio e si relaziona con altri corpi – ciò che Butler definisce la performance del genere. Dire che il genere sia una performance e che la performatività di questa performance consista nella produzione retroattiva dell’idea di una differenza sessuale che la precede significa dunque che è la prima a rendere intelligibile e a riempire di senso la seconda, e che senza la prima (la performance del genere) noi non sapremmo esattamente dire in cosa potrebbe consistere la seconda (la differenza sessuale). Il fatto stesso di parlarne al singolare – la differenza… – è tutt’altro che neutro da un punto di vista assiologico. Ed è forse il caso di riesplicitare ancora una volta in cosa consista la sostanza di questa parzialità assiologica. Le cose infatti – e questo è un punto dirimente – sono maggiormente complicate dal fatto che l’interrelazione degli ideali regolativi, e coercitivi, di mascolinità e di femminilità, avvenga in forza della matrice eterosessuale (heterosexual matrix). È l’eterosessualità, secondo Butler (una Butler lettrice di Monique Wittig, e di Adrienne Rich), la prima e più fondamentale forma di assoggettamento, la straight mind, la razionalità eterosessuale, a dare un senso ai concetti stessi di “mascolinità” e “femminilità”, i quali non esisterebbero al di fuori di una reciproca relazione binaria. Per sintetizzare: è la performance del genere eseguita su un palcoscenico rigidamente normato dalla razionalità eterosessuale a “produrre” la differenza sessuale. Se la fatticità materiale ha un “significato” (politico, culturale, psicosociale) e diventa un “significante”, essa cessa, infatti, di essere mera fatticità. Dunque “performance del genere”, “razionalità eterosessuale” e “differenza sessuale” sono cose non esattamente analizzabili separatamente. D’altronde come potrei parlare di ciascuna di queste strutture singolarmente senza vedermi costretto a chiamare in causa le altre? Se dico che con “performance di genere” ci si riferisce al modo in cui si performa, in modo più o meno critico o dissidente o obbediente, la mascolinità, non sarò forse costretto ad avvalermi del lessico della “differenza sessuale” per spiegare in cosa consista la “mascolinità” (ed ecco qui alle spalle, muto, lo spettro della “femminilità”), e non mi troverò forse specificare se si tratti o meno di una “mascolinità” “eterosessuale” o no? – ed eccomi qui intento a evocare qualche esempio di mascolinità non-eterosessuale, non-egemonica, ma facendo anche molta attenzione a non evocare un esempio misogino, o – come dicono gli psicologi – un esempio di mascolinità che ha “interiorizzato l’omofobia”, o un esempio omosociale…? Quando ci si riferisce alla “differenza sessuale”, come nella domanda che ci viene posta oggi, si intende semplicemente fare riferimento all’“eterosessualità obbligatoria”? È questo ciò a cui ci riferiamo? D’altronde molte esponenti del femminismo della differenza hanno ribadito a più riprese che con “differenza sessuale” non si è mai voluta indicare la mera differenza genitale – la mera fatticità, o vita creaturale. Se così fosse, forse si tratterebbe semplicemente di due modi diversi di riferirsi alla stessa cosa. Forse “differenza sessuale” è il nome per descrivere la produzione storica, da parte dell’etero-patriarcato, di un gruppo sociale minoritario, che ha sviluppato modalità di leggibilità reciproche, di riconoscibilità, che ha prodotto saperi e pratiche contro-egemoniche – le donne, appunto, inteso come gruppo storico? La differenza sessuale è una preziosa genealogia? In Carla Lonzi, ad esempio, è evidente come la rivendicazione della differenza si accompagni a una critica esplicita dell’eterosessualità obbligatoria, intesa come “pilastro del patriarcato”. Ma se così non fosse, se la “differenza sessuale” non riferisse di una genealogia, di una cassetta di parole e pratiche, a cosa ci stiamo esattamente riferendo? Ciò che mi domando, in altri termini, è se, 1) la stretta correlazione tra “differenza sessuale” e “eterosessualità obbligatoria” sia cosciente; 2) se sia critica; 3) se non sia, invece, volta a privilegiare un’espressione maggiormente “naturalizzante” (differenza sessuale) per riferirsi a ciò che è invece è una “norma” (etero-normatività) e che, come ogni “norma”, non ha niente di ontologicamente necessario né di socialmente irrinunciabile, specialmente quando si tratta di una norma esplicitamente contestata da più parti. E se anche, secondo alcune, quello della “differenza sessuale” è un lessico che consente, strategicamente, di tenere viva l’attenzione su alcune questioni che attengono maggiormente alla vita delle donne – e penso ai diritti riproduttivi, ma non soltanto – cosa impedisce, mi domando, di far convergere anche tali questioni, come molte già fanno, verso il lessico maggiormente inclusivo della critica all’eterosessualità obbligatoria? È questo lessico, infatti, non quello della “differenza sessuale”, a consentirci non solo di portare avanti la critica del patriarcato e di difendere il diritto delle donne ad abortire (nonché di un diritto al welfare che consenta tali e altre forme di autodeterminazione), ma anche di difendere i diritti dell’uomo trans* di portare avanti una gravidanza; che ci consente di formulare e testare criteri per distinguere quando la gestazione per altri è mero sfruttamento della povertà (delle donne) e quando, invece, è un esercizio di autodeterminazione al di fuori della concezione eteronormativa del proprio utero, e dell’idea stessa di gestazione; che ci consente di muovere le critiche più efferate al paradigma neoliberale, ma anche di dar voce alle istanze della lavoratrice precaria che preferirebbe vendere i propri ovociti, piuttosto che vendere l’intero corpo e le intere sue capacità cognitivo-relazionali come già fa nei tre o quattro lavori mal pagati e precari, spesso non meno rischiosi o nocivi per la salute, con i quali arriva a malapena a fine mese; che ci consente di sposare le istanze politiche delle sex workers e, al contempo, di sposare le istanze delle molte persone disabili che esprimono posizioni critiche nei confronti della figura del/della sex worker per disabili; che ci consente di affermare che l’amore è una questione politica, e che la sua trasformazione dipende dalla sovversione del paradigma eteronormativo; e che consente alle persone intersex, infine, di resistere alla normalizzazione, indotta da concezioni (etero)normative di ciò che la differenza (etero)sessuale deve essere. Si tratta di pochi esempi tra i molti altri possibili. Mi sembrano sufficienti, però, a chiedere: perché ci domandiamo con apprensione se sia “finita” la differenza sessuale, anziché domandarci “quali problemi ingenera l’eterosessualità obbligatoria?” * Se, come dicono molte pensatrici della differenza, la differenza sessuale non si riferisce, e non si è mai riferita, alla differenza sessuale, allora è bene che anche io dica che con “eterosessualità obbligatoria” mi riferisco a qualcosa che eccede la semplice relazione sessuo-affettiva tra un uomo cisgenere e una donna cisgenere – che resta comunque l’effetto più immediato, coercitivo, e intrattabile, in quanto egemonico, dell’eterosessualità obbligatoria. L’eterosessualità è un paradigma simbolico e sociale, una cornice disciplinare entro cui matura la percezione di se stessi e delle relazioni con gli altri. Il lessico della differenza sessuale ci consente di comprendere tutto ciò, e di resistervi? L’eterosessualità, come sappiamo, può anche essere rifiutata, o relativizzata, e con essa possono essere rifiutate e relativizzate le norme di mascolinità e di femminilità che da essa dipendono – benché rifiutare l’una non significa necessariamente rifiutare le altre, e ciò vale anche al contrario. Il fatto che sia possibile rifiutare l’eterosessualità e le norme di genere, ovviamente, non significa che tale rifiuto possa essere fatto in modo pienamente cosciente o razionale, o facilmente, o in modo indolore, o privo di problemi – il rifiuto dell’una, delle altre, o dell’una e delle altre insieme. L’irriconoscibilità di se stessi, e l’irriconoscibilità da parte degli altri, è infatti sempre in agguato. Tali problemi possono essere molto diversi tra loro, interrelati in modi complessi a seconda che si sia bianchi o non-bianchi, uomini o donne, trans*, intersex, abili o disabili, o a seconda del luogo in cui si vive – e con ciò intendo dire qualcosa di più problematico rispetto alle dicotomie città/provincia, Nord/Sud, o Occidente/Oriente. Molto importante, inoltre, è non smettere di interrogarsi circa i modi attraverso cui il capitalismo neoliberale, e la sua etica, hanno prodotto quelle che definirei sempre più “illusioni” di inclusione, interamente a mezzo mercato, e che infatti si rivelano per ciò che esse erano, mere illusioni, nel momento in cui sempre più persone, dal mercato, escono progressivamente. Ma anche qui occorre fare delle precisazioni. Il fatto che il capitalismo neoliberale sia “inclusivo” nei confronti delle minoranze di genere e sessuali non significa che esso scardini il paradigma eteronormativo; il capitalismo neoliberale, e le sue tecnologie biopolitiche di sussunzione e di messa a valore anche delle soggettività eccentriche, rivelano al contrario di poter contare proprio sulla solida persistenza dell’ordine simbolico e sociale eteronormativo. Dunque anziché sforzarci di spiegare in che modo la critica dell’eteronormatività, che oggi è portata avanti dai movimenti transfemministi e queer, potrebbe offrire parole e concetti ai movimenti che lottano contro le politiche predatorie del capitalismo neoliberale (i quali, di per sé, sarebbero trasversali, dall’estrema sinistra all’estrema destra), è forse giunto il momento di esortare tali movimenti a comprendere che a fare la differenza tra loro è esattamente il tipo di società che riescono a immaginare e a costruire – la quale o sarà radicalmente non-eteronormata o non sarà affatto. Inoltre, che questa inclusività neoliberista si riveli un’illusione proprio oggi che dal mercato c’è un esodo di massa, è ben testimoniato dal preoccupante ritorno sulla scena dei movimenti neofondamentalisti, e del consenso di cui godono. E l’effetto ancora più preoccupante di questo ritorno sarà quello di obbligarci a retrocedere, stringendo alleanze non sul terreno della lotta all’eteronormatività, bensì su quello della lotta all’omo-lesbo-transfobia. E c’è una differenza tra le due cose. Lottare contro l’omo-lesbo-transfobia significa lottare contro la violenza esercitata nei confronti delle persone gay, lesbiche, trans*, bisessuali, e questa è una cosa che tantissime persone sono disposte a fare; e nonostante si trascini dietro tassi a volte stucchevoli di moralismo e di tolleranza liberale, è senz’altro più desiderabile del suo contrario. (Più preoccupante, semmai, è che sia anche tutto ciò che tantissime persone gay, lesbiche e trans* sono state messe nella condizione di desiderare: una hobbesiana messa al riparo dalla violenza e dalla morte.) Lottare contro l’eteronormatività, invece, significa lottare contro quell’intero ordine simbolico e sociale, contro quell’intera “realtà” che eleva l’eterosessualità a parametro di valutazione di ogni processo di soggettivazione e di relazione, da cui la violenza contro le minoranze di genere e sessuali direttamente dipende, e di cui non è che solo una delle conseguenze, che a volte imbocca la strada della violenza fisica, a volte di quella verbale, a volte di quella psicologica, e a volte nessuna di queste forme, perché la sua violenza è innanzitutto epistemica, e rende molto difficile comprendere quanto imponente sia la sua portata. E questa è una cosa che un numero decisamente minore di persone è disposto a fare. La lotta all’omo-lesbo-transfobia è riassunta nella proposizione non uccidermi, una proposizione tutta interna all’ordine politico della modernità (si pensi a Hobbes): significa lottare per la possibilità di restare in vita, offrire la mia più totale obbedienza all’ordine eteronormativo purché mi faccia sopravvivere. La lotta all’eteronormatività, invece, coincide con la sovversione di questa alternativa tra l’obbedienza o la morte, e ci esorta a pensare insieme un’altra vita. * A prescindere, infatti, dal modo in cui possiamo problematizzare ciò che il rifiuto dell’eterosessualità obbligatoria comporta, è innanzitutto il mero e semplice fatto che l’eterosessualità si possa “rifiutare”, o meno, a costituire la riprova del suo carattere egemonico, del modo in cui essa struttura l’intero ordine di senso, lo sfondo di ogni possibilità, che sia di adesione incondizionata o di rigetto: l’eterosessualità è già lì prima che ci rendiamo conto che ci sia piombata addosso, e che dobbiamo metterci a negoziare con essa. Ciò significa dunque che l’eterosessualità costituisce la porta d’accesso al campo della realtà e dell’intelligibilità: e ciò significa anche che salvo rare eccezioni che faccio anche fatica a immaginare, per ogni soggetto il piano di immanenza dell’eterosessualità obbligatoria costituisce ancora oggi, ancora adesso mentre stiamo parlando, la scena della loro emersione sessuata e sessuale – e la presa di distanza da quella scena è, spesso, carica di odio, di paura, di normalizzazione, di rabbia, di senso di rivalsa[7]. Non è da sottovalutare, pertanto, quanto tutto ciò si ripercuota, sotto forma di melanconia, sulla psiche e sulla vita e sull’azione politica delle soggettività non-eterosessuali. Ma non è nemmeno da sottovalutare, al contempo, quanto quella scena di emersione riferisca di un’interdipendenza che, forse, potrebbe essere percorsa contromano e usata ai fini della sua sovversione. Le soggettività non-eterosessuali inevitabilmente emergono in seno al paradigma dell’eterosessualità obbligatoria; parte del modo di definire l’eterosessualità obbligatoria, pertanto, è ciò che intrinsecamente stimola e sollecita ciò che a essa apparentemente si oppone, e ciò che ne svela l’instabilità delle fondamenta. Come si fa a espungere la violenza, la rabbia, la normalizzazione, da questa scena, e a trasformare tutto ciò in pura apertura, in pura possibilità? Ma non vi sarà risposta a questa domanda, temo, fintanto che continueremo ad accordare un po’ troppa importanza all’altra, dalla quale siamo partite, e alla quale in ogni caso concludo dando la mia risposta. “Fine della differenza sessuale?”: no. La produzione eteronormativa di maschi e di femmine, che, si suppone, si debbano desiderare a vicenda, e che, semmai, possano anche rifiutarsi di farlo, non è affatto finita, continua incessantemente – e, con essa, continua anche la sua critica. Dal pubblico viene chiesto a Federico Zappino come mai dal suo intervento non si evinca alcuna attenzione al tema del desiderio. Questa è la risposta: “La motivazione di questa assenza è molto semplice. Sulla base di tutto quello che ho detto, per me ogni forma di desiderio che si dà è comunque immanente a una certa serie di condizioni di emersione, una serie di condizioni in seno alle quali questo desiderio emerge. Quindi per me il desiderio non è un deposito di verità istintuali. Molto spesso è qualcosa da cui prendere le distanze. Io posso desiderare la mia schiavitù, posso desiderare l’assoggettamento, posso desiderare qualunque cosa. E questo non significa che non mi faccia anche godere enormemente, no? – desiderare la mia schiavitù, ad esempio. E non lo dico da una prospettiva razionale, intesa come ciò che si “contrappone” al desiderio, ma da una prospettiva critica, cioè quella che mette in crisi ogni… Ogni cosa che assurge a un maiuscolo, ogni cosa che ha la pretesa di porsi appunto come un deposito di verità, no? […] Voglio capire se il desiderio di tipo eterosessuale, come dire, avviene in condizioni di parità con tutte le altre forme di desiderio possibili. E la risposta è no. È un desiderio “egemonico”, emerge in seno a condizioni che lo producono meticolosamente. Quindi dalla mia prospettiva è importante sovvertire tutto ciò che