E l’aspettar del male è mal peggiore,
forse, che non parrebbe il mal presente;
pende ad ogn’aura incerta di romore
ogni orecchia sospesa ed ogni mente;
ed un confuso bisbiglio entro e di fore
trascorre i campi e la città dolente.
Torquato Tasso (Gerusalemme liberata, I, 82)
Il diavolo, è cosa nota, dimora nei dettagli, si nasconde nelle pieghe della cronaca. La rappresentanza aziendale di Filcams-Cgil presso l’unità torinese di Securitalia-Ivri aveva proclamato uno sciopero, per rivendicare il diritto a ricevere dall’impresa i dispositivi di protezione contro il contagio, fissando la fermata per i turni del 3 aprile. Prendendo atto di un impegno a risolvere il problema, il sindacato, già in data 1° aprile, aveva revocato lo sciopero, spostandolo al 16 successivo, così da poter verificare il concreto adempimento (mascherine idonee e gel in dotazione ai singoli addetti). Con provvedimento del 7 aprile, protocollo 0004320, il professor Domenico Carrieri, ordinario di sociologia del lavoro in Sapienza, quale Commissario incaricato di regolamentare le astensioni dal lavoro, ha disposto però, e in via preventiva, l’immediata sospensione dello sciopero, semplicemente richiamando il generale fermo invito a non effettuare proteste, disposto dalla Commissione di Garanzia fino al 30 aprile, senza ulteriori motivazioni, a prescindere dunque dai rischi di contagio in capo alle maestranze. Le sanzioni a carico delle RSA e dei singoli scioperanti sono severe, inducono le maestranze a soccombere di fronte alla prepotenza dell’istituzione. Abbiamo scelto questo esempio, di portata locale, perché significativo, capace di illuminare la logica e la filosofia di una precisa linea politica attuata dai funzionari di governo, a discapito dei deboli e a vantaggio del profitto, elevato al rango di bene comune prevalente.
La Commissione di Garanzia fu istituita con la legge 12 giugno 1990 n. 146, per la regolamentazione dello sciopero nei soli servizi pubblici essenziali; l’articolo 1 precisava (e precisa ancora) che per tali debbono intendersi esclusivamente quelli volti a garantire il godimento dei diritti costituzionalmente tutelati come vita, salute, libertà (anche di circolazione), istruzione, sicurezza, assistenza, previdenza sociale. Le funzioni della Commissione (articolo 12) non possono straripare, invadere il terreno circostante; si tratta infatti di norma palesemente eccezionale e non è consentita dunque alcuna applicazione analogica o estensiva (le c.d. preleggi, articolo 14, in apertura del codice civile). Invece la Commissione ha inoltrato un fermo invito a non dar corso, mai e comunque, ad astensioni collettive dal 25 febbraio al 31 marzo, prorogando poi il termine fino al 30 aprile; per la prima volta nella storia della Repubblica Italiana è venuto meno il diritto di sciopero, per oltre due mesi, con una comunicazione a firma del Presidente della Commissione, professor Giuseppe Santoro Passarelli, ordinario presso la Sapienza nella cattedra di diritto del lavoro. Il fermo invito era in realtà, come abbiamo potuto constatare nel caso torinese, un provvedimento esecutivo, operativo in ogni settore, che estendeva all’intera struttura produttiva nazionale una valenza di servizio pubblico essenziale. Ancora una volta il diavolo si cela nei dettagli. Nello stabilimento di Cameri (Novara) circa un migliaio di lavoratori sono impegnati a produrre, senza sosta; in particolare le maestranze si dedicano ai caccia F35 per la guerra, e l’impresa Leonardo (ex Alenia), contando sulla permanenza dei conflitti bellici nel mondo, ha anzi concordato la stabilizzazione di 76 lavoratori precari somministrati a termine. Ecco: la Commissione di Garanzia ha ricompreso nel divieto di sciopero anche questo servizio davvero essenziale!
Al tempo stesso con delibera n. 20/89 del 26 marzo protocollo 0004087 un sindacato di base (USB) ha ricevuto la comunicazione di avvio di una procedura di infrazione per aver proclamato uno sciopero nazionale dimostrativo di sessanta secondi nei servizi essenziali (e sul turno in quelli non essenziali autorizzati dal ministero ovvero auto-certificati dalle imprese). La ragione dello sciopero era una sola: la tutela della salute, l’attuazione concreta di meccanismi di protezione dal contagio. Il Coordinamento delle Camere del Lavoro Autonomo e Precario (CLAP) ha prudentemente evitato la procedura, revocando l’adesione. A prescindere dalle valutazioni di opportunità tattica e operativa (che ovviamente lasciamo a USB e CLAP senza metterci becco), e tralasciando pure la peraltro non irrilevante considerazione che USB non era comunque in grado di bloccare la produzione (e ciò rende surreale l’intervento della Commissione), ci pare invece di notevole rilevanza politica quello che si configura come un esplicito volontario attacco alle libertà sindacali. Qui sta il nodo del problema: l’uso con finalità repressive di uno strumento amministrativo, ai fini del controllo sociale complessivo, in nome della salute, con uno spirito di unità nazionale, per la difesa dell’economia privata (e naturalmente del profitto).
La Commissione di Garanzia che ha reso possibile il blocco bimestrale degli scioperi in tutto il paese non è per nulla caratterizzata da una composizione populista, fascista, reazionaria; e non è credibile neppure che le decisioni adottate siano il frutto di menti desiderose di compiacere la destra radicale di Salvini o di Meloni. Certamente, prima di dare attuazione al programma di fermo invito a non scioperare, i cinque componenti si sono confrontati e consultati con l’apparato istituzionale complessivo, oltre che con i funzionari delle cosiddette parti sociali. Lo scenario non lascia dubbi. La nomina a commissario presuppone la necessaria preventiva indicazione congiunta da parte dei presidenti delle due camere, seguita dalla firma del Capo dello Stato al fine di rendere esecutivo il provvedimento. Nel nostro caso la scelta si deve a Laura Boldrini e Pietro Grasso (LEU), con il provvedimento di designazione in data 31 maggio 2016; la firma di Mattarella (PD) venne apposta senza indugio con D.P.R. 1° giugno 2016 e il mandato (sei anni) scadrà il 31 maggio 2022, a prescindere dalla durata della legislatura. Fu dunque la sinistra, non la destra leghista, a formare la Commissione: Santoro Passarelli e Carrieri sono ordinari alla Sapienza, Razzolini insegna diritto del lavoro a Genova, Bellardi a Bari, Bellavista a Palermo, tutti giuristi liberaldemocratici, di chiara fama. Successivamente, a mezzo di comunicazione del 30 aprile (protocollo 0004610), la Commissione ha formulato un nuovo invito, questa volta a risolvere senza conflitto le divergenze sindacali; a buon intenditor poche parole e chi opera nelle strutture sindacali ha compreso perfettamente il messaggio dissuasivo, l’avvertimento che le sanzioni previste dall’art. 4 L. 146/90 sono pronte a scattare al primo accenno di disobbedienza troppo radicale. E in assenza di conflitto prevale chi controlla gli strumenti di produzione, chi maneggia il denaro.
La Commissione di Garanzia, con il pieno consenso del governo e del complessivo apparato istituzionale, ha allargato, in modo oggettivo e visibile, l’area di competenza che il legislatore aveva limitato ai soli servizi essenziali, estendendola in via generale all’intera rete di rapporti sociali ed economici. Lo ha fatto in assenza di leggi che consentissero una così profonda modifica delle proprie funzioni, utilizzando in forma creativa lo strumento preventivo degli inviti (magari fermi) accompagnato da quello successivo del meccanismo sanzionatorio. Un organismo sorto per assicurare la regolamentazione di sospensioni dell’attività lavorativa già annunciate e proclamate, al fine di evitare la lesione di diritti costituzionali, nei settori di pubblico interesse, si è trasformato, senza alcun passaggio parlamentare, in una autorità di controllo preventivo e dissuasivo per impedire o almeno rendere difficile l’esercizio del diritto di sciopero. Con il fermo invito a sospendere qualsiasi forma di astensione lavorativa per oltre due mesi la Commissione ha modificato, nei fatti, il precedente assetto normativo, assumendo una funzione tipica di contrasto del dissenso che non compare nel testo di legge. Ancora una volta il diavolo abita nei dettagli: le imprese violano i protocolli sanitari, i lavoratori sono privati dello sciopero di protesta anche quando riguarda la protezione dal contagio (per giunta al dichiarato fine di proteggere dal contagio!). L’occasione dell’emergenza ha consentito ancora una volta un esperimento del tutto nuovo, l’operato della Commissione ha inflitto una ferita al tradizionale meccanismo tecnico giuridico del conflitto sindacale nelle democrazie liberali e socialdemocratiche; ora il passaggio è compiuto e solo la riapertura dello scontro potrà modificare l’assetto costruito per fatti concludenti durante la pandemia per togliere potere contrattuale ai lavoratori.
Modi di governo
Il ruolo della Commissione di Garanzia dentro l’emergenza sanitaria non può essere interpretato come una semplice violazione del mosaico legislativo su cui poggiano alcune libertà faticosamente conquistate dai lavoratori e dai ceti popolari nel corso del secondo dopoguerra. In questa fase di transizione e di crisi – fase iniziata prima della pandemia e da questa acuita – la sperimentazione creativa che ha preso la forma tecnica della decretazione produce modifiche sostanziali in tutte le strutture istituzionali; anche la Commissione di Garanzia ha seguito questa evoluzione assumendo il ruolo di braccio repressivo nell’ambito di una rinnovata articolazione del governo. Il tradizionale picchetto diviene un assembramento sanzionato da vigili urbani, carabinieri, finanzieri, poliziotti, cui viene affidato il compito di decidere discrezionalmente l’applicazione di sanzioni, in base a disposizioni generali spesso incomprensibili; e questo vale anche in ipotesi di proteste pubbliche a prescindere da distanziamenti o mascherine. Vale perfino nella regolamentazione della passeggiata, nelle visite e nei rapporti personali: la liceità o meno di un comportamento rimane incerta, deve essere spiegata a un controllore cui spetta la scelta di consentire o sanzionare. Questa incertezza costante si lega alla condizione precaria, che è poi il fondamento necessario dell’attuale modo di produzione; per mettere a valore l’intera esistenza bisogna infatti esercitare un controllo autoritario, cancellando ove occorra gli ostacoli posti da comportamenti soggettivi da vietare come arbitrari e antisociali. La figura giuridica del “comportamento antisociale”, inteso come violazione da sanzionare, fu compiutamente elaborata dal giurista ucraino Andrej Januarevich Vysinskij, procuratore generale dell’URSS dal 1935 al 1939, nell’ambito del diritto in un periodo di transizione e funzionale per l’educazione ad una nuova disciplina. Pur essendo naturalmente tutte incompatibili con lo stalinismo storico le diverse strutture governative che guidano i paesi più ricchi hanno in comune l’onere di gestire la transizione e non deve stupire che rivivano, modificate, queste risalenti esperienze di tecnica legislativa repressiva. Di recente un vecchio ministro socialista, oggi novantenne, il professor Francesco Forte, che aveva guidato la politica finanziaria italiana, ha proposto di utilizzare, sempre in forma creativa, una struttura costituzionale (il Consiglio Supremo di Difesa), esistente ma sostanzialmente dimenticata, per gestire l’attuale fase. In buona sostanza, con un utilizzo fantasioso di norme già in vigore, la spina dorsale dell’esecutivo (sei ministri) e l’apparato militare apicale, coordinati da Mattarella (art. 87 della Carta), e avvalendosi di un generale con esperienza europea (Mosca Moschini), dovrebbero prendere la guida della macchina statale, conducendola senza troppe discussioni oltre questa bonaccia. Si tratta ovviamente di una sorta di divertita provocazione, ma l’intervento di un economista non sprovveduto costituisce pur sempre un significativo segnale della reale discussione in corso dentro il palazzo del potere. Quale che sia l’esito dello scontro fra le fazioni, un esito attualmente ancora incerto, l’opzione autoritaria è un elemento comune a tutte le forze in campo, comprese quelle esterne di pressione su quelle interne. Ne abbiamo ulteriore riscontro, ancora una volta, soffermandoci sul particolare per meglio comprendere il generale.
Mi riferisco ai nove morti di Modena. Da alcuni giorni le cronache giornalistiche si occupano del DAP (il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e sta per approdare in Senato una mozione di sfiducia contro il ministro Bonafede, presentata dalle destre dopo la scarcerazione di un boss inviato agli arresti domiciliari e le successive dimissioni del dottor Francesco Basentini, capo dipartimento. L’acceso dibattito evade (ci sia consentito il gioco di parole) dalla tragedia che si è consumata nel carcere emiliano il 9 marzo, oltre due mesi addietro. Il DAP è un dipartimento ministeriale importante, di nomina fiduciaria, con il preciso compito di gestire gli istituti di pena; il suo Capo guida e dirige infatti il corpo armato di polizia penitenziaria, così che il dottor Basentini era anche un comandante militare. Incarico quest’ultimo delicato e ben retribuito; la paga di fatto dovrebbe superare i trecentomila euro annui (oltre i rimborsi generosi), secondo le fonti sindacali di settore.
Per aggiunta, e non sarebbe un beneficio da poco, anche dopo la cessazione si mantiene il trattamento che poi determina anche la successiva pensione, allo stato senza alcuna soglia di sbarramento. Guidando il DAP si acquisisce un vitalizio. Il Dipartimento è organizzato su base regionale, con Provveditori territoriali; a Modena regge attualmente la carica Gloria Manzelli (Emilia-Romagna e Marche), funzionario di notevolissima esperienza, a lungo direttrice di San Vittore a Milano, nominata nel maggio 2018, quasi contestualmente a Basentini. Nessuno, al ministero o in parlamento, ha ritenuto di chiedere spiegazioni al ben retribuito Capo (anche militare) del DAP, al Provveditore territoriale, al direttore del carcere; nulla di nulla, nessun accenno neppure da parte delle opposizioni. Le fonti ufficiali della procura (in particolare l’aggiunto dottor Di Giorgio) si limitano a comunicazioni ufficiose, riconducendo presumibilmente i decessi a overdose e sempre promettendo chiarimenti successivi, che ad oggi tuttavia mancano. Cinque detenuti sono morti quasi nell’immediatezza dei fatti; uno di loro, Hafedh Chouchane, sarebbe uscito in libertà solo due settimane dopo. Secondo la direzione del carcere gli altri quattro, trasferiti in diverse strutture di detenzione, risultavano sani alla partenza per la nuova sede (in caso contrario non dovevano partire). Hadidi Gazi (36 anni), destinato a Trento, è spirato durante il viaggio, si è fermato per sempre a Verona; dunque tanto bene non doveva stare. L’autopsia, un atto dovuto in questi casi, non è ancora nota dopo sessanta giorni dai fatti; ed è un altro elemento piuttosto insolito, considerando che il quesito si presentava abbastanza semplice secondo la magistratura inquirente, fin da subito incline a ritenere fondata l’ipotesi di un decesso collegato all’assunzione di farmaci saccheggiati durante la rivolta. Di fronte a nove morti violente, in piena emergenza pandemica, durante una rivolta carceraria, un rapporto esaustivo del DAP al ministro guardasigilli che lo aveva nominato, e poi del ministro alle due Camere, dovrebbe essere considerato un dovere delle istituzioni, senza bisogno di sollecitazioni, a prescindere dal fondamento delle accuse che avevano determinato il provvedimento restrittivo (peraltro il moldavo Arthur Isuzu era in attesa di giudizio, dunque verrà prosciolto, come prevede l’ordinamento vigente di fronte alla morte dell’imputato). La scelta di uno scandaloso silenzio riunisce maggioranza e opposizione, costituisce un segnale oggettivo: l’omertà ci rende tutti meno liberi, e questo è un fatto.
Dopo il quattro maggio.
Ho appreso, tempo addietro, dell’esistenza di un compromesso situazionista, definizione inventata dai membri di quella Internazionale, che suona circa così: fra due alternative ugualmente piacevoli sceglierle entrambe. Bisogna riconoscere che la soluzione si presenta convincente, quasi un sillogismo nella sua logica sequenza. Oggi, terminata la prima fase dell’emergenza e varata la seconda, ci troviamo di fronte, ancora, ad un governo che ci presenta i due corni del dilemma invitandoci (con interrogazione retorica) a scegliere l’uno o l’altro: preferite accettare sacrifici, sacrificando spazi di libertà individuale e consentendo sanzioni nei confronti di chi non si piega oppure esporvi alle conseguenze della pandemia, mettendo a rischio la vita di chi amate e pure esponendo ai pericoli un’intera comunità? E su questi due corni, presentati come inevitabilmente alternativi, dopo il 4 maggio viene a poggiare il consenso all’intero programma di governo nella gestione, politica economica e sociale, della crisi. Il sotterfugio comunicativo ha avuto un certo successo, ci sono cascati in molti dando per acquisite le premesse.
Utilizzando il vecchio “compromesso situazionista”, inteso come metodo di ragionamento, possiamo in questo frangente aggiornarlo, per superare il bivio che ci si para davanti. Fra due alternative spiacevoli la soluzione migliore è di rifiutarle entrambe. Non è in discussione la necessità di adottare ragionevoli provvedimenti che vadano a contrastare la diffusione del contagio e a tutelare la salute; ma quello che abbiamo subito in questi due mesi non consente certo di stare tranquilli! Nessuno ha chiarito, ad oggi, il come e il perché di nove decessi nel carcere di Modena e sono censurate di fatto le domande su questo straordinario fatto di cronaca; e questa omissione appare ancora più incredibile mentre infuria una polemica proprio sul DAP che quelle morti sarebbe tenuto a spiegare ai cittadini italiani. E’ un metodo, una forma di gestione del potere. Coerentemente vengono lasciati al posto loro tutti i responsabili della carneficina consumata ai danni dei vecchi e degli anziani nelle case di riposo.
I numeri non lasciano il minimo spazio al dubbio, non consentono incertezze. Le vittime si erano affidate al sistema sanitario (pubblico e convenzionato), fiduciose e disarmate, arrendevoli e piene di speranza. Le strutture private e quelle comunque in convenzione hanno incassato il corrispettivo senza battere ciglio. Si è consumata una strage e il disastro di una ristrutturazione dell’assistenza medica fondata sul profitto (inteso come sinonimo di efficienza) è apparso evidente. Di fronte alla strage lo stato, sempre all’erta nel mobilitare poliziotti o vigili urbani totalmente privi di cognizioni tecniche e sanitarie sui possibili contagi, ha multato molti podisti ma non ha sanzionato nessun funzionario (parliamo di sanzioni amministrative, non di arresti o di processi) per la deportazione degli ottuagenari nella loro ultima dimora. Con il ghigno di chi è abituato a ingannare oggi, per la seconda fase, rifiutano correttivi, escludono spiegazioni, esigono obbedienza e minacciano i disobbedienti.
Nelle regioni, nei comuni e nelle strutture statali le forze politiche di maggioranza e opposizione ammettono, sia pure in forme ambigue e a denti stretti, di non avere tamponi, mascherine, strumenti per i test sierologici, apparecchiature idonee, neppure sangue a sufficienza. Il sistema di rilevazione dei contatti e degli spostamenti produce dati che certamente consentono a chi li detiene un potenziale commercio e un potenziale profitto, che certamente sono idonei ad essere usati per controllare i sudditi, e che tuttavia solo a determinate condizioni aiuteranno il contrasto della pandemia. E queste condizioni non sono solo quelle di un campione sufficientemente ampio (pare il 60%) e non facile da raggiungere (fin qui se ne potrebbe discutere, pur con molta comprensibile diffidenza), ma soprattutto riguardano l’intervento connesso (tamponi, test sierologici, sangue, e altro). In mancanza di connessione a valle (e questa manca) la raccolta dati non serve allo scopo per cui è disposta. E la storia delle nostre istituzioni non consente nel modo più assoluto di escludere un uso illecito dei dati, per controllo e profitto; al palo di partenza appare anzi più probabile il contrario, se guardiamo alle notevoli abilità d’archiviazione acquisita dai servizi “deviati” negli anni trascorsi. Un buon segnale potrebbe essere quello di sanzionare con l’ergastolo, visto che secondo loro siamo in guerra, l’uso illecito dei dati, da parte di chiunque ne venga in possesso in qualsiasi modo. E’ questa una provocazione? Senza alcun dubbio, lo riconosco. Ma l’impossibilità di una simile sanzione è al tempo stesso la prova della probabile consumazione di una palese frode attualmente in gestazione (mise en scène).
Nel 1887 erano attivi nel nostro paese 17.568 medici (60 per centomila abitanti), e 10.264 operavano in una condotta, quali dipendenti di un Comune (o magari di più comuni consorziati), con obbligo di residenza e di assistenza nel territorio ai poveri privi di mezzi. Oggi i medici sono molti di più (circa 400 per centomila abitanti) ma è svanito il rapporto con il territorio. Circa seicentomila persone sono prive di fissa dimora (calcolo peraltro errato per difetto, considerando un cospicuo numero di clandestini) e come tali non si possono avvalere del MAP (il medico di prima assistenza, che è comunque un libero professionista, senza obbligo di residenza e con orario di studio). I senzafissadimora debbono rivolgersi al Pronto Soccorso; in coda e in attesa si sono trovati, durante l’emergenza, contagiati e fratturati, insieme riuniti dalle disposizioni ministeriali nel focolaio di contagio costruito in forza di legge dello stato. I tagli alla sanità, accelerati a partire dalla riforma Balduzzi (2012, governo Monti), hanno determinato la situazione odierna, che il virus ha reso visibile e che non è dignitoso sopportare ancora in silenzio, senza reagire.
Quattro maggio
Il quattro maggio è la data che segna il passaggio dalla prima alla seconda fase di questa emergenza. A Napoli era, un tempo, il giorno fissato per il trasloco dalle autorità spagnole, concentrando d’autorità i trasferimenti per evitare confusione permanente nelle strade della città. Nel linguaggio popolare ha preso il significato traslato di un cambiamento, anche del modo di vivere, di una novità che nasce nel disordine ma che magari consente invece di star meglio. Fa’ ‘nu quatte ‘e maggio può essere un interrogativo di fronte a un avvenimento rumoroso ma pure un invito a rompere l’indugio, a mutare la propria condizione.
La partita non è chiusa. Il compromesso situazionista è possibile, è anzi l’unico realismo possibile oggi. Le forze di governo sono litigiose e divise, le opposizioni rappresentano un confuso rancore senza un disegno per il futuro. Con questo loro meschino modo di agire è inevitabile che entrambe le fazioni ci portino verso un disastro, per arrogante sciocca miopia. Ma la consapevolezza della necessità ineludibile di un profondo radicale cambiamento cresce perfino dentro le file dello schieramento liberaldemocratico. La vera seconda fase iniziata il 4 maggio consiste in una domanda di riforma sanitaria davvero democratica e popolare, con la riconquista del diritto di sciopero sfidando apertamente la Commissione, con la fine della delega acritica. Non è detto che vada a finir bene e siamo noi i padroni del nostro destino. Potrebbe proseguire il viaggio verso un mal peggiore. Potrebbe però essere l’inizio di un potenziale mutamento esistenziale, economico, produttivo capace di modificare clima, ambiente, rapporti sociali. Questa speranza è il comune. Già. Il ‘quatte ‘e maggio è un movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.