Il dibattito utilmente aperto dai contributi proposti da Emanuele Leonardi e dal suo testo iniziale, ha per me un pregio fondamentale: aver lanciato un sasso nello stagno da tempo immobile di percorsi di ricerca che stanno cercando di confrontarsi con le difficoltà del presente. Cerco dunque di chiarire meglio il mio pensiero, per comodità procederò per punti.

1. Questione metodologica.

È in corso da quasi trent’anni un processo virale di comunicazione che decontestualizza ambiti e linee di ricerca che invece andrebbero poste in reciproca, ma diversa, collocazione.  Intendo con questo mantenere una differenza degli approcci in modo da favorire un utile confronto che eviti sovrapposizioni.

In Italia, ma anche in Francia questa meta-narrazione che tutto confonde con l’intento di assimilare e dunque “dominare”, in modo approssimativo, percorsi ancora attivi, accade in ragione dell’eredità heideggeriana, dell’ermeneutica (per noi pensiero poetante, vedi debole) che si ritrae dal pensiero-azione e si rifugia nella pratica consolatoria dell’estetizzazione e dell’ecolalia mediatica. In merito a ciò va messo in conto la crisi del ruolo di un’intellettualità smarrita, ma pur sempre affamata di collocazione accademica, contro-accademica, mediatica e altro. Contesti e saperi vengono così destituiti di “potenza” in nome di una tuttologia che pochi sono ormai in grado di decifrare, ma che fa dibattito.
Tutto ciò ha permesso a seconde e terze schiere di trovare NUOVI SLOGAN, E NUOVE PAROLE D’ORDINE da divulgare, da far proprie, parole che sappiamo bene essere sempre prescrittive e nella maggior parte dei casi solo “spettacolari”.

2. Lessico e concetti

Sono sempre stata convinta della necessità di impiegare un lessico coerente con l’ambito di ricerca cui si riferisce, per far sì che ciò sia possibile occorre declinarlo nei motivi e nelle linee della sua formulazione, sottraendolo alla banalizzazione del quotidiano. Termini impropriamente utilizzati non danno conto, anzi confondono, le diverse pieghe che delle ricerche richiedono. Riguardo all’ecologia politica, per me soprattutto ecosofia, questo è davvero necessario, fin dal primo Novecento contesti diversi hanno impiegato questo concetto con esiti radicalmente e politicamente diversi tra loro. Inutile dire che esiste un ecologismo conservatore quanto non dichiaratamente di destra che predica riduzioni dell’impronta umana in chiave mistico-religiosa e non chiama in causa modelli e forme di sviluppo che SULLA SELEZIONE UMANA, stanno già agendo. Inoltre, trovo che correnti paesaggistiche, natural nostalgiche, siano “la foglia di fico” che tenta miseramente di coprire il vero assetto del modello attuale che privatizza risorse, caccia intere comunità rurali, precarizza gli ultimi della terra mettendo il tutto a disposizione di multinazionali che certo poi fanno comunicazione e pubblicità verde mentre uccidono, eliminano, impediscono forme di autodeterminazione e autoproduzione di intere popolazioni. La lista è infinita, ma A. Gorz, Vandana Shiva, D. Haraway, RaulZibecchi potrebbero dirci qualcosa. Ecco perché al termine/concetto ECOLOGIA POLITICA occorre prestare cura e attenzione.

Il nostro mondo è esausto e cerca nuove narrazioni e queste spesso appaiono sotto forma di mode o ideologie della colpa, del debito infinito (che si scrive sempre sui corpi), del sacrificio. È il sacrificio perpetuo che va rifiutato, è chiaro a tutti, dopo quanto è in corso in Europa e nel mondo, che questo modello promette una sola alternativa: l’adeguamento al sistema del sacrificio e della colpa, la vergogna di essere vite che cercano di resistere a un’offensiva violenta come non se ne vedevano da tempo poiché giocata su uno scacchiere geopolitico planetario che usa un cinismo tipico del “morto che domina il morto”.

3. Decrescita e antropocene

In ragione di quanto scritto sopra credo anch’io che il termine decrescita sia fuorviante anche nelle migliori intenzioni di Latouche quando parla di decrescita felice, per franchezza credo che sia un mot de passe ben trovato, ma il cui retroterra filosofico politico è debole rispetto alla sfida in atto, non fosse che per il fatto che nemmeno decrescere è più possibile vista la sottrazione permanente di diritti, risorse, esistenze di cui parlavo prima. La decrescita ha avuto in termini di dibattito miglior esito in Italia che in Francia (fatta eccezione per una qualche attenzione da parte di certi architetti), il motivo è abbastanza evidente, in Italia la crisi della grandi narrazione si sta consumando nei suoi ultimi lapilli ora, grazie all’opera solerte di epigoni che non hanno nemmeno più da salire sulla spalle dei giganti. Eppure la tradizione del pensiero critico italiano è stata la più ricca del secondo Novecento, Panzieri, Montaldi e tanti altri più eccentrici rispetto a filoni accreditati, ma così interessanti. Insisto sul fatto che i metodi e le analisi dell’operaismo storico mi sembrano del tutto divergenti dal tema della decrescita. Con Spinoza vogliamo più “potenze di vita”, ossia liberarci dalle religioni del risentimento e della colpa.

Antropocene. Dopo corsi e convegni in Francia e soprattutto a La Villette dove ho insegnato, mi sono resa conto che questo tardivo interesse (giustificato dal fatto che la ricerca nasce in ambito anglofono) era strettamente correlato al bisogno di spostarsi d’autorità dall’antropocentrismo verso una concezione più relazionale di ambiente. Tutto bene se non fosse che il decoro urbano, pseudo artisti d’avanguardia, archistar, sociologi etc. non avessero finito per strutturare una nuova grammatica catalogante giungendo a presupporre “parlamenti degli animali” e “assemblee del vegetale oppresso”. Al di là di umoristiche considerazioni ancora una volta non ci si è confrontati con il grande rimosso.

4. Guattari.

Guattari fa parte del grande rimosso delle vampiresche brame accademiche e contro-accademiche, vecchia questione in cui persino dai nostri ambiti si è voluta attuare la cesura tra lui e Deleuze, tra loro e i movimenti, tra loro e le sperimentazioni. Confuso, interessante, incomprensibile, “sin qui si vede che ha scritto Deleuze qui inizia invece Guattari”. L’ecosofia in Guattari indica il seguente progetto: “Men che mai la natura può venir separata dalla cultura e bisogna che impariamo a pensare ‘trasversalmente’ le interazioni tra ecosistemi, meccanosfere e universi di riferimento sociali e individuali’.

Il suo percorso è oscurato e trovo grave che sia volutamente censurato, confuso e solo ripreso per slogan da ambiti anche come i nostri. È la non nobiltà di Guattari, la sua non appartenenza, il suo essere fuori dagli schemi ad averne permesso il saccheggio e il misconoscimento, cosa che ci dice della miseria di un presente tutto proteso a raccogliere punti e visibilità presso riviste di classe A o in contesti di improbabile dignità. Non è solo accademia, forse e ancor peggio la miseria di un’anti-accademia priva di luoghi di creazione di sapere e dunque frustrata e sollecitata dal bisogno di apparire foss’anche per il classico quarto d’ora evocato da Warhol.

Con questa residualità del pensiero odierno noi dobbiamo fare i conti, così come i conti si devono fare con le sconfitte quando non sono che sconfitte, intraducibili in epopee. Solo così si reinventa il presente senza ricorrere a quel carattere distruttivo, ben indicato da W. Benjamin quando indicava la gioiosa demolizione del passato: “Il carattere distruttivo non vive per il sentimento che la vita merita d’essere vissuta, ma perché non vale la pena di suicidarsi”.

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