Il box di ecologia politica si muove sui terreni filosofici e teoretici, ma anche politici, legati al tema dell’ “ecologia” con la prima parte dell’introduzione al volume Ecologia. Teoria, natura, politica (EK, 2018), a cura di Igor Pelgreffi (qui la seconda parte).

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Pesce gatto che lotta per la vita

e vince

e ci schizza tutti

Jack Kerouac

 

Ecologia: un concetto inflazionato?

Il 20 maggio 2017, all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, per il ciclo Le parole del Novecento, si è tenuto un seminario di studi sul tema dell’ecologia, organizzato dal gruppo di ricerca Kaiak, cui hanno partecipato studiosi provenienti da varie sedi, italiane e internazionali. Il presente libro ne raccoglie gli interventi, rimaneggiati per la stampa. Il quadro tematico generale può essere riassunto nel manifesto di presentazione del seminario:

L’emergenza ecologica è un segno caratterizzante della nostra epoca, forse il più caratterizzante, nella misura in cui mette in questione non solo l’umano, ma anche l’animale e il vegetale – ossia la biodiversità e gli ecosistemi terrestri nel loro complesso. Partendo dal significato e dal campo originariamente extra-filosofico ma fortemente relazionale del termine (ovvero un discorso, logos, sull’interazione tra i viventi e l’ambiente che essi abitano, la terra come oikos), l’undicesima edizione del seminario Le parole del Novecentointende indagare le diverse accezioni, antropologiche, filosofiche e politiche, che il concetto di ecologia ha permesso di sviluppare nella seconda metà del secolo scorso

[1].

Ora, qual è il senso di tale emergenza? L’ecologia possiede realmente una propria attualità? In altri termini: qual è, specificamente, il reale cui questo vocabolo fa segno? Che alla vastità della sua diffusione globale si associ sempre più il rischio di assuefazione delle coscienze, individuali e collettive, e che ciò implichi l’opportunità di una riflessione specifica sul senso e sul valore di questo termine, è stato l’implicito assunto del seminario in oggetto. Non occorre spingersi lontano in speculazioni astratte: nella discussione culturale e massmediatica del tema ecologico, le idee di emergenza, di urgenza, di catastrofe naturale, di insostenibilità fanno ormai parte di un lessico comune. Non altrettanto – per ragioni non casuali[2]– si può dire di un termine semplice, persino banale, come quello di limite, che al contrario necessita di continui rinforzi. L’idea moderna ed eurocentrica di una crescita senza limiti, di uno sfruttamento delle risorse fisiche ed esistenziali, che sottintende il concetto di progresso come valore buono “in sé”, evidentemente trova uno scoglio insuperabile nell’evidenza che, dopo tutto, la terra è una. La superficie terrestre è limitata: 500 milioni di Km quadrati. Così come lo è il volume di acqua ivi ospitato: 1.400.000.000 Km cubi. Così come lo sono tutte le altre grandezze fisiche caratterizzanti in un senso oggettivo l’orbis terrarum. La globalizzazione stessa, a ben vedere, nonostante le promesse di infinita espansione delle ricchezze e del benessere, prevede il limite sferico nella sua stessa definizione: il raggio medio della terra misura meno di 7000 Km. Il “contenitore” (termine a sua volta problematico) dei nostri corpi (enti anch’essi limitati: nella forma, nella capacità di movimento, di concentrazione, di produzione, etc.), è limitato.Dunque la questione che trasversalmente il seminario ha posto è stata non solo e non tanto quella del che cosa sia l’ecologia oggi, quanto piuttosto quella del come pensarla, cioè di come orientarsi filosoficamente in questi scenari di emergenza e urgenza. A questo proposito, se guardiamo agli interventi nel loro complesso, si possono riconoscere tre macro-temi: la natura, la tecnica e la politica, tre assi che definiscono il sistema di riferimento a cui tutti i contributi si lasciano ricondurre, pur con rapporti e pesi diversi tra le tre coordinate.

 

Physis e techne

Partiamo dai primi due, physise techne, ricordando alcuni ovvi aspetti del problema. L’aver posto, sin dal mondo greco, come dicotomiche le relazioni tra natura e tecnica, ha comportato evidentemente una sintassi obbligata che ha improntato tutta la metafisica occidentale, la quale nel riflettere sul tema naturale/artificiale, spontaneità/manipolazione, non ha che potuto riprodurre o “riflettere” questi automatismi profondi. Non solo nella filosofia di Platone, ma anche in quella di Aristotele, maggiormente disposta a pensare la complessità e l’intreccio tra vivente e ripetizione, ciò appare molto chiaramente. Nel Libro II della Fisica, troviamo il concetto fondamentale della filosofia della natura aristotelica, e cioè che tra natura e tecnica tertium non datur: tutto ciò che esiste, l’ente, o è di origine naturale, oppure è artificiale.

Delle cose che esistono, le une sono da natura, le altre da altre cause. Da natura sono gli animali e le loro parti, le piante e i corpi semplici, come ad esempio la terra, il fuoco, l’aria e l’acqua […] tutte le cose che sono da natura, hanno il principio del loro movimento e del riposo in se stesse […] invece un letto o un mantello, e ogni altro oggetto di questo genere, in quanto a ciascuno di essi compete questa denominazione – e cioè in quanto essi sono prodotti da tecnica –, non possiede in se stesso nessuna tendenza innata al cambiamento.[3]

Ora, uno dei dati di fondo desumibile esplorando le linee di ricerca più feconde nell’attuale panorama filosofico[4]è l’idea che non sia più possibile, per ragioni teoriche e storiche, pensare come indipendenti le due polarità. Facendo, cioè, ampio riferimento, talvolta esplicito altre volte implicito, ad alcune falde della riflessione novecentesca, come ad esempio l’epistemologia francese contemporanea, nel libro emerge l’istanza di pensare natura e tecnica come due campi originariamente intrecciati tra loro. Si prenda, come esemplare di questa concezione, un passo tratto dal testo di Jacques Derrida Nietzsche e la macchina[5]:

La relazione fra physise tecnica non è un’opposizione; sin dall’origine vi è strumentalizzazione (instrumentalisation). Il termine “strumento” è inappropriato nel contesto della tecnicità originaria. Comunque una strategia protesica di ripetizione abita il movimento stesso della vita: la vita è un processo di auto-sostituzione, il trapassare della vita è una mechanike, una forma di tecnica. Non soltanto, allora, la tecnica non è in opposizione alla vita, ma essa la infesta (hante) dal suo primo inizio.[6]

È altresì evidente come questa complessificazione natura/tecnica andrebbe colta entro un quadro più ampio, che tenga conto in maniera organica di altri riferimenti. Si pensi a Canguilhem e al suo tentativo di definire il tipo di relazione tra apparato concettuale e struttura del vivente (se sia di tipo dialettico, chiasmatico o una forma differente da queste). Si pensi a Leroi-Gourham, che articola la questione del natural-artificiale come chiave stessa del processo di ominazione, e dunque come paradigma per comprendere l’animale uomo nella sua specificità. Si pensi, lungo un percorso che, per restare ai francesi, da Deleuze e Simondon giunge, contaminandosi anche col pensiero di Derrida, al lavoro di Stiegler sulla relazione tra tecnica e tempo[7], in cui vengono ri-problematizzate le posizioni heideggeriane sul Gestell proprio entro il suddetto set di riferimenti teorico-epistemologici. Gli ultimi sviluppi della ricerca stiegleriana[8], come quelli visibili ne La societé automatique[9], prendono decisamente in carico il tema della relazione tra corpo, percezione e dispositivi tecnologici, e lo fanno in modalità spesso originali, che cioè provano a spostare ulteriormente il confine stesso, la morfologia anche terminologica, della discussione sulle polarità “tecnologia” e “antropologia sociale” o, se si vuole, “ambiente digitale” e “forme di vita”. L’urgenza di pensare a questo intreccio originario – senza voler dare all’aggettivo nessuna connotazione stabile o metafisica, ma da intendere nel senso in cui la relazione tra natura e tecnica precede i relati e li struttura nelle loro differenze – è naturalmente stato pensato anche da altre tradizioni novecentesche. In fondo, nel Novecento non esiste pensiero della crisi che non abbia, per ragioni essenziali, fatto i conti con la domanda sul nodo natura/tecnica. Pensiamo soltanto all’insistenza di questo motivo nell’antropologia filosofica tedesca, da Plessner a Gehlen[10], passando per l’analitica esistenziale di Heidegger e giungendo in un certo senso sino a Sloterdijk. Ma anche questa retorica dell’intreccio e della reversibilità si afferma oggi con crescente facilità, e andrebbe probabilmente messa alla prova di uno studio parallelo approfondito dei concetti di natura e di tecnica, colti nella loro specificità. Questo non per negare la categoria di intreccio, ma per meglio comprenderla e restituirle “spessore”, cioè per cogliere il senso filosofico, oltre che politico, di tale intreccio.

Torniamo quindi alla domanda sulla physis: non tanto che cos’è, ma come pensarefilosoficamente la natura? I saggi di Iofrida, Il paradigma ecologico dal punto di vista filosofico e di Marchesini, Ontologia relazionale ed ecologia, che abbiamo posto in apertura del volume, e in parte anche quello di Vincenzo Cuomo, Ecoumeneo sub-scendenza?Sull’ecologia radicale, offrono al lettore tre differenti prospettive su tale domanda. Iofrida inquadra la questione ecologica innanzitutto sul piano della sua genesi storica. È con il cambiamento dei modi di produzione, dunque nel Settecento della rivoluzione industriale, che l’idea di uno sfruttamento intensivo e senza limiti dell’elemento naturale, ma anche umano, prende avvio in modo consistente, e da lì giunge sino ai nostri giorni. Questo però non deve condurre a un ritorno romantico al mito del naturale primigenio e immacolato. Al contrario, la natura va pensata non come qualcosa di oggettivo, di positivo, di fisso e stabile, ma, al contrario, come qualcosa di negativo, di dinamico, che attiene alla relazione del vivente (non necessariamente umano) con l’ambiente che lo circonda. Partendo dalla nostra esperienza quotidiana, che cos’è naturale per noi? Naturale è ciò che si riferisce a un sapere che non deriva dalla nostra tradizione culturale, dal linguaggio, dalla nostra esperienza storica e personale, ma che attingiamo mediante le risorse del nostro corpo: quest’ultimo è ben lontano dall’essere diretto da un sapere positivo, chiaro e cosciente, da ciò che possiamo aver appreso per via intellettuale e culturale; anche se la cultura e la storia lo modellano in varie forme, non possono mai esaurirlo in quanto strato, preculturale e prelogico, che comanda gli aspetti fondamentali della nostra vita come esseri viventi, biologici[11].

Il tema non è solamente l’ecologia e la ricerca di un nuovo rapporto col “naturale”. Vi è come un ribaltamento: la presa in carico della questione ecologica, e del paradigma relazional-concreto che essa implica, permette una riabilitazione della filosofia stessa, una sua fuoriuscita dalla fase di stallo in cui le condizioni storiche la costringono da molti anni. Il senso teoretico di questo nuovo rapporto col naturale si estende a una teorizzazione rigorosa del tema della corporeità, sulla scorta di un riferimento organico col pensiero relazionale di Merleau-Ponty. Il rapporto tra naturale e artificiale è costitutivo dell’essere-umano e della storia, ma non nel senso in cui la natura può essere messa da parte a favore di un costruttivismo ingenuo, quanto piuttosto nel senso che all’interno della relazione (vero fulcro di una filosofia ecologica) tra il soggetto e la natura, quest’ultima mantiene sempre un nescio quiddi inassimilabilità, di negatività non culturalizzabile. È questa asimmetria organica, che trova appunto nel corpo un centro operativo strategico, non tattico, la forma logico-filosofica di una vera relazione ecologica. Analoghi movimenti teorici si ritrovano nella proposta di Marchesini di un’ontologia relazionale che deve transitare da un’epistemologia dialogica, entro una sorta, cioè, di eco-ontologia anti-dualista: l’essere è tale solo in quanto esso è relazione[12]. Marchesini, ad esempio, esplora molto di più da una parte gli aspetti di “campo” (compreso il tema dell’impossibilità da parte del discorso di definire in modo rigoroso i confini del campo stesso) e di de-antropomorfizzazione della relazione ecologica, e parallelamente gli aspetti protesici, di tecnicità diffusa, dell’inerenza del soggetto al mondo naturale, sulla scorta della ricerca già da tempo avviata nel fortunato volume del 2004 Posthuman[13] (un postumano ben prima delle mode attuali del postumano), come anche la più recente pubblicazione Tecnosfera[14] sembra confermare e, per certi versi, precisandosi in direzione di una “dimensione epocale” della tecnica che implicitamente fa capolino tra le righe, una cornice di inspiegabilità necessaria dell’elemento tecno-vitale dal vago sapore heideggeriano. Ed anche Cuomo, se per un verso (nella prima parte del suo intervento) ricostruisce la teoria ecologica di Berque, attingendo dal suo testo base Écoumène. Introduction à l’étude des milieux humains, del 1999, discutendo quindi le analogie con un modello onto-fenomenologico basato sulla corporeità che permetterebbe un certo tipo di rapporto tra noi e la tecnica, dall’altra sviluppa alcune linee di filosofia della tecnica post-heideggeriana (a loro volta rintracciabili nella prospettiva di Marchesini) che tendono a mettere in crisi il primo modello. Se portiamo alle loro logiche ed estreme conseguenze alcune premesse nel rapporto tecnica-uso, il problema ecologico, in Cuomo, si esprime in una ridefinizione sostanziale del senso della tecnica. Il punto chiave è l’inconciliabilità di due tipi di tecnica: quella protesica e quella macchinica, quest’ultima rivelandosi, oggi più che mai, del tutto indipendente da ogni antropologia:

Che cosa […] non convince nella teoria ecologica di Berque? Rispondere a tale domanda non significa solo evidenziare i limiti del suo discorso, ma, proprio in ragione del valore teoretico della sua teoria ecumenale, significa evidenziare i punti critici di un’ampia parte delle teorie ecologiche main stream, non certo per opporsi alla svolta ecologica del pensiero, che oggi appare inaggirabile, ma per radicalizzarla e aprirla ad altre possibilità. I punti critici della teoria ecumenale di Berque sono, a mio avviso, fondamentalmente due: 1) la sua visione esclusivamente protesica della tecnica; 2) il suo pregiudizio neolitico, o “agrilogistico” (per usare un’espressione proposta negli ultimi anni da Tim Morton).[15]

Le analisi di Cuomo, che indagano il non-umano ad esempio appoggiandosi alle tesi di Tim Morton e la sua prospettiva di Dark Ecology, cercano poi un’interessante sponda del ragionamento su un altro aspetto dell’“artificiale”, della techne come costruzione aristotelicamente separata dal naturale, vale a dire le espressioni artistiche del «non-simbolico»[16] tipiche di molta new media art. È chiaro come questi tre saggi, tra i più densi teoreticamente, assieme a quelli di Vignola, Figli di un Antropocene minore. Il «popolo a venire» come individuazione ecologica collettiva e di Baranzoni, L’eco di Guattari: ambiente, soggettività e tecnologie nel XXI secolo che esplorano da altri punti di vista la questione del superamento dei limiti onto-antropologici nel discorso critico su natura/tecnica, approfondendo concetti che spaziano dall’ecosofia di Guattari, al tanto dibattuto antropocene, sino agli ultimi studi di Stiegler, siano accomunati dal porre in modo forte il tema del “naturale”. È altresì evidente il dato di fatto, come esito di questi contributi, che la riposta alla domanda “che cos’è, oggi, naturale?” rimanga una domanda aperta, sospesa, quasi in attesa che un campo discorsivo profondamente rinnovato provi a captarne e riaccordarne le armoniche fondamentali. Vale un po’ per tutti i saggi, compreso l’ultimo, quello di Possamai, Gregory Bateson: verso un’ecologia della mente, in cui vi è la presa in carico del rapporto, a metà strada tra “naturale” e “psichicamente artificiale”, tra soggetto e ambiente. L’ecologia batesoniana (che è uno tra i modelli più utilmente spendibili nel dibattito attuale, in quanto attento alla fusione di orizzonti cibernetici, biologici e psicoanalitici) non è altro che l’indicazione di un’apertura, del riconoscimento della necessità della qualità relazional-sistemica della prospettiva con cui guardiamo a questi nodi, urgenti ma al contempo antichi nella storia del pensiero, e di come i contesti sociali e storico-materiali, sullo sfondo, riorientino il senso stesso del discorso-che-pensa-la-natura.

 

[…]

 

Ecologia, tecnica e politica

Come detto, specchio del problema della natura è la questione della tecnica. Per economia di spazio, saremo più brevi su questo, come poi sulla politica. Basterà ricordare come la questione della tecnica abbia attraversato a fondo il pensiero novecentesco, trovando e assumendo, specie in Heidegger, il proprio valore epocale, il suo rivelarsi come destino dell’Occidente e dell’Essere, veicolo e forma dell’atteggiamento conoscitivo atto a dominare l’ente, dell’utilizzabilità e padroneggiamento della natura. Ma, anche qui, il problema della tecnica è: come parlarne? Da quale posizione è realmente possibile un pensiero ecologico che comporti un ripensamento profondo dei rapporti tra pensiero e macchina, tra corporeità e ripetizione tecnica, per non dire degli automatismi algoritmici, che oggi disegnano lo spazio antropologico dei nuovi media, di cui il 4.0 si attesta come penultima frontiera?

Sul problema del come leggere la tecnica, sono nuovamente da evocare i saggi di Cuomo, di Vignola e di Baranzoni soprattutto per la ricchezza dei riferimenti che essi mobilitano, in cui autori come Simondon, Deleuze, oltre che il già ricordato Stiegler, o la stessa impostazione ecosofica di Guattari delle tre ecologie[17], forniscono i fili di un fitto reticolo che tenta di scrivere nuove significazioni che valgano quale stadio preliminare per un pensiero critico. Il problema sollevato da Cuomo, quello che richiama e convoca la filosofia a una profonda revisione del proprio schema basale in merito alla tecnica, è quello del macchinico, ovvero una tecnica che

ha una natura eterogenea rispetto a quella strumentale e protesica. Quella macchinica, infatti, è una tecnica che non si fonda sul corpo umano, perché non solo è in grado di operare indipendentemente da esso ma è in grado di fare cose che il corpo umano, per la sua contingente strutturazione neuro-corporea, non è in grado di realizzare.[18]

Ed è su questa linea, del pensare il distacco, e dunque ancora la rappresentazione, l’esternalità delle pratiche automatiche e inumane, per così dire, che si riporta tutta la riflessione di Vignola e Baranzoni, secondo linee diverse e più “politiche”, come l’esigenza di una «individuazione ecologica collettiva»[19](Vignola), sulla tecnicità dell’esperienza (compresa quella critica, da cui il tema del “come fare”?). Tale tensione, tipica dei rivoli della temperie post-moderna in cui ancora siamo immersi, percorre anche il saggio di Schirò Jean Baudrillard e l’écologie maléfique, dove il tema del simulacrale, del raddoppio tecnico-linguistico del mondo, diviene direttamente quello dell’impossibilità di una ecologia:

se l’ecologia è il tentativo di riconciliarsi con la natura, se corrisponde al progetto di stipulare un nuovo “contratto” con la natura, se equivale all’intenzione di riconoscere alla natura ciò che le è stato sottratto nel suo dominio economico-politico e tecnologico, allora l’ecologia non è solamente l’involontaria e irriflessa espressione di un dominio, essa è bensì la forma più radicale – poiché più avanzata e più rinnegata, smentita, dissimulata – del dominio stesso.[20]

Il saggio di Pavanini, Co-immunologia. La declinazione ecologica del pensiero di Peter Sloterdijk, ripercorre i punti nodali di uno fra i pensieri più rilevanti sulla tecnica. In Sloterdijk la tecnica, intesa nella chiave della ripetizione, dell’esercizio come gesto ripetuto e dunque come costruzione di automatismi fisici ed esistenziali che formano l’umano, è il dispositivo istituente par excellence. In un certo senso, la tecnica è l’elemento che “inventa” l’anthropos, ma questo nel senso che l’uomo, nel suo rapporto costitutivo con gli ambienti (le sfere), è da sempre simultaneamente ecologico e tecnico. E non va dimenticato il fatto che, pur nelle sue ambiguità, la prospettiva antropotecnica di Sloterdijk (studioso formatosi nella Scuola di Francoforte) è stata sin da dalla trilogia Sphären un tentativo di pensare criticamente la globalizzazione, l’ambiente-limite delle nostre vite, e qui la struttura dell’asservimento del naturale all’artificiale.

Abbiamo detto della natura e della tecnica. E la politica? I saggi di Irrera, Leonardi e Nitrato Izzo, ci mostrano in modo tematico e particolarmente approfondito come probabilmente è nell’aspetto politico, implicito o esplicito che sia, che andrà cercato il collante più credibile, extra-teoretico o trasformativo, tra le speculazioni su physis, da un lato, e techne, dall’altro. È un discorso che evidentemente non può essere esaurito in queste pagine, e che il lettore avvertirà come tema diffuso e pervasivo nel presente volume. Alcuni spunti sono contenuti nelle analisi delle calamità naturali compiute da Nitrato Izzo in Note giuridico-politiche sulla soggettività nell’età delle catastrofi. Vi si mostra impeccabilmente come nel politico rientri a pieno titolo la questione dei diritti, precisamente della definizione di una soggettività giuridico-storica che prende forma in relazione al tema ecologico, dell’ipotesi dell’annientamento stesso dell’ecosistema che prende in carico il lato anche violento delle relazioni del naturale nel sociale. Noi siamo cioè, anche in questa accezione giuridica, soggetti naturali in quanto, per così dire, soggetti “di” natura. Irrera, specialista del pensiero di Michel Foucault, propone un percorso di ricerca sulle radici storiche di molte fra le questioni emerse in altri interventi, nel suo saggio Decentrare la biopolitica. Note per una genealogia coloniale dell’ecologia politica. Si tratta di un saggio notevole sul piano speculativo, in quanto tenta di ripensare, pur all’interno di un impianto foucaultiano, il problema della soggettivazione politica ipotizzando altri schemi di lettura, ossia ampliamenti del protocollo interpretativo che non rimangano fermi al concetto, un po’ logoro oggigiorno, di biopolitica. Si tratta forse di far precedere al biopolitico un’istanza storico-ecologica, recuperando nel lavoro di Foucault l’attenzione al “naturale”? L’idea originale di Irrera è quella di

tracciare, seppur schematicamente, qualche elemento di una prospettiva di analisi storico-politica più ampia: quella di una genealogia coloniale in grado di mostrare in che modo, attraverso quali saperi, quali tipi di normatività e quali forme di soggettivazione, la biopolitica, considerata su una scala globale che comprende quindi la storia delle complesse vicende coloniali e imperiali, può di fatto essere decentrata dall’ecologia.[21]

Leonardi, infine, specialista del pensiero di André Gorz, in La Green Economy come “ragionevole ideologia”. Note per una genealogia del nesso valore-natura e delle sue trasformazioni, esamina in un saggio molto ampio la radice marxiana dell’intero problema del valore nella natura e nella trasformazione del mondo, nonché la struttura logica e storico-materiale (cioè di economia politica) delle posizioni false dell’ambientalismo ingenuo, compreso quello che si appoggia al concetto di economia verde. Sia in Irrera che in Leonardi (per inciso: bisognerebbe tentare di leggere assieme questi due testi, come a con-fondere prospettive e aperture foucaultiane a una certe intransigenza gorziana) vediamo bene la necessità di un cambio di prospettiva, differente ma in ogni caso “politico”, rispetto ai modi di lettura automatici del fenomeno in oggetto e, specie in quello di Leonardi, il tracciamento di un orizzonte di comprensione teoretica del problema mediante la prassi.

Un fil rouge sembra connettere molti saggi del volume, a partire da quello di Iofrida, per terminare in quelli appena ricordati: non è possibile intendere l’intreccio natura/tecnica, nel quadro del discorso ecologico, senza interallacciare ambedue, assieme, con l’istanza politica. Non si tratta solamente di affermare che i nostri rapporti – dove “i nostri rapporti” sono la relazione politica, prima ancora che biopolitica – con la natura, con l’animale, con l’ambiente (e, perché no, col vegetale) dovranno cambiare, per riprendere Derrida. Non è, cioè, solo una questione di insostenibilità ambientale, che semmai è solo il sintomo del problema, come ben messo in luce da recenti studi, anche in Italia, fra cui quelli di Righetti[22]. Occorre andare più lontano. Non è forse il concetto stesso di polis – da cui deriva storicamente il termine politica – cioè del vivere assieme e della dimensione comune, a contenere, per certi versi, il vulnus del problema? La polis greca non fu forse, oltre al luogo elettivo per la nascita delle relazioni sociali-intersoggettive, un luogo dove il valore del comune è strutturato, da sempre, con il linguaggio, cioè con la comunicazione della cosa pubblica e la sua discussione, implicitamente entro un ordine che è, au fond, l’ordine simbolico da cui l’animale resta escluso? La polis non rappresenta anche, nella sua origine greca, la matrice di future inclusioni e esclusioni[23], il disegno preliminare di ogni perimetro che esclude l’animale, il perimento cioè che separa il soggetto politico dal vivente “altro”? E, da questo punto di vista, il recupero di una nostra relazione all’animalità, all’eterogeneità del bios, non è forse l’unico gesto rivoluzionario oggi possibile?

La politica oggi è per lo più gestione dell’esistente. Dunque, a stretto rigore, non è. La politica potrà essere solo se si ri-formerà in un senso ecologico: in conclusione appare essere questa una delle prospettive che implicitamente, qualche volta in forma esplicita, emerge da molti tra i contenuti a vario titolo e stile engagé di questo volume. Intendiamoci: vi entrano in gioco la questione ecologica nel suo senso più complessivo, e non nel suo senso ristretto e relativo di un governo delle criticità ambientali, orpello apotropaico che conferma pienamente le logiche dominanti. Il riferimento all’animalità, come visto, con l’enorme inviluppo di ambiguità assiologiche che essa produce, significa anche un riferimento ai nostri automatismi, siano essi naturali, artificiali o, in maniera forse più interessante, automatismi ibridi tra naturali e artificiali, tra biologici e acquisiti: tra prima natura, cioè il nostro lato biologico, e seconda natura[24], cioè l’habitus, la hexis in senso aristotelico come acquisizione di abitudini e di antropotecniche che divengono per noi naturali. A sua volta, l’automatismo è ciò a cui siamo assoggettati: la nostra passività. Ma il dispositivo “tecnica” non può che transitare da questi automatismi: parassita che necessariamente ci abita, ci muove, ci forma, che “diviene noi”, ma che in un gioco di retroazioni di secondo livello noi stessi possiamo modificare. Ma dov’è che la modificazione può accadere, se non nelle profondità inesplorate del corpo, nelle sue risposte non programmabili, nelle sue resistenze già politiche ai dispositivi tecno-poietici (si pensi alle invisibili ma determinanti reazioni agli scher