Negli anni, il box di Ecologia Politica di Effimera è stato luogo di un dibattito variegato e multidimensionale nel campo della critica socio-ecologica. Dalla rivalutazione della natura intrinsecamente di classe delle lotte ambientali alla critica del valore, dal potenziale rivoluzionario alle trappole che una “transizione verde” capitalista prospetta – l’attenzione si è diretta tanto a questioni di economia ed ecologia politica tout court, quanto alla sperimentazione di alternative per mondi post-capitalisti. Una parte importante di questo percorso si è articolata nel campo dell’ontologia e dell’epistemologia moderno-capitaliste, in quanto parte fondante dei dispositivi di sfruttamento, estrazione e messa-a-valore del mondo umano e non umano. In quest’ottica, la riflessione più prettamente filosofica si è dimostrata direttamente politica: la dicotomia tra pensiero e prassi ci pare superabile attraverso una molteplicità di linguaggi, uno dei quali si gioca per l’appunto nell’interrogare le categorie di base che in-formano l’azione quotidiana e storica.
L’ecosofia che si sviluppa soprattutto a partire dall’opera di Félix Guattari e che nei decenni incrocia correnti di pensiero differenti, tra cui la fenomenologia, è sicuramente una tappa centrale di questo percorso di ri-pensamento filosofico delle (socio-)ecologie contemporanee. Di recente pubblicato per ombre corte, “Ecologia del Possibile” di Gianluca De Fazio ci pare un libro significativo e un’occasione importante per fare il punto a proposito non solo dello stato di questo dibattito ma anche, e soprattutto, della posta in gioco politica. La prefazione di Ubaldo Fadini all’opera funge da moltiplicatore delle linee di apertura ed esplorazione che il libro nel suo complesso mette in campo, oltre a tracciarne le linee di maggiore interesse. Condividiamo allora la Prefazione di Fadini, preceduta da un breve estratto “composto” dal libro di De Fazio, ringraziando gli autori e ombre corte per la disponibilità.

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L’ecosofia può essere concepita come una lotta teorica per la tutela della finalità senza scopo, ovvero dell’idea di una autonomia del vivente e della “natura” rispetto alla riduzione a oggetto/noema e contro qualsivoglia forma di teleologia trascendente.
Tutelare l’idea di finalità senza scopo è fondamentale per non trasformare l’ecologia filosofica in una massima della Ragion pura. Quest’ultima ipotesi, infatti, tratterebbe il momento ecologico come nuovo imperativo categorico, che suonerebbe pressappoco così: pensa al vivente e alla natura sempre come fine e mai come mezzo. Se, sotto un piano pratico-morale, una tale massima può sembrare, non solo auspicabile, ma del tutto necessaria, su un piano etico-politico si opera un vero e proprio green washing del Soggetto trascendentale sovrano, di fatto continuando a sussumere il molteplice, con tutte le sue finalità senza scopo, alla moralità teleologica dell’Uomo (bianco, maschio, ricco, adulto, capitalista, borghese, etc.) che per bontà agirebbe con la magnanimità di buon padre di famiglia nei confronti della natura e dei viventi, intesi come soggetti deboli da tutelare, nascondendo e invisibilizzando l’alto portato conflittuale di quelle esistenze minoritarie, irriducibili, per massima o principio, alle forme trascendentali del giudizio teleologico e alla modalità universale dell’Uomo.
L’idea di una ecosofia aspira a fare a meno di una massima morale, per fare attenzione alle pratiche di significazione. Con pratiche di significazione intendiamo le dinamiche di costruzione di ambienti semiotico-paesaggistici atti alla vita comune dell’animale umano in quanto essere vivente. Le pratiche di significazione sono concepibili come una variegata e molteplice pragmatica dell’esistenza. Aspirando a uscire da un dualismo tra Teoretico e Pratico, l’ecologia intesa nel senso ecosofico richiede una educazione sentimentale nella quale l’autonomia del vivente rispetto al giudizio possa diventare produttiva, una forza capace di trasformare le pragmatiche di significazione esistenti, ovvero i concatenamenti collettivi di enunciazione.
È questa educazione sentimentale che un progetto ecosofico pone alla base del proprio lavoro, con l’obiettivo, senza dubbio utopistico sul piano macropolitico, ma del tutto auspicabile su quello micropolitico, di poter istituire forme collettive di esistenza – e dunque istituzioni – con i più ampi margini di gioco per le soggettività implicate nei processi di significazione. Ed è per difendere questa educazione sentimentale che la finalità va tutelata nella sua autonomia rispetto a un telos che, dall’esterno, ne oscurerebbe il possibile che vi è immanente.
Tutelare la finalità significa pensare l’ecologia non come un sistema valoriale che determina le giuste azioni conformi allo scopo, ma come metodologia di analisi del presente, atta non tanto (o quanto meno, non solo) a interpretare criticamente il presente, ma a contribuire, nella possibilità della pratica filosofica e intellettuale, a costruire attrezzi concettuali capaci di interagire con il non filosofico, al fine, ancora utopistico e auspicabile, di operare una vera e propria trasvalutazione delle attuali pragmatiche di esistenza.
Quello che qui ci interessa sottolineare è l’urgenza di quella che abbiamo definito ecologia psico-sociale. Non perché questa urgenza sia superiore ad altre più propriamente ambientaliste o marcatamente epistemologiche, ma perché si riconnette ai processi di trasformazione delle pragmatiche collettive di significazione. Ecco emergere qui il problema dell’amicizia. Su un piano ecosofico, la sfida è quella di pensare una vera e propria ragione amicale come modalità etico-pratico alternativa alla Ragion pura. Una ragione amicale non agisce conformemente agli scopi morali, bensì istituisce al proprio interno una molteplicità di vincoli che non obbligano, impegni reciproci che non richiedono obbedienza ma cooperazione. Come avremo modo di vedere, l’amicizia è una virtù e in quanto tale essa va praticata e per praticare una virtù è necessaria, di nuovo, una educazione sentimentale. Se è vero che oggi i corpi viventi sono messi al lavoro nelle macchine sociali capitalistiche – ma, ci sentiamo di aggiungere, anche nelle società a regimi non immediatamente capitalistici – diventa quanto mai necessario – e quanto mai difficile! – trasformare questi corpi, farne degli amici. Ecco un senso ecosofico della finalità senza scopo: istituire un telos immanente che non preesiste alle composizioni finalistiche dei molteplici corpi uniti, messi insieme non da fini fuori di sé, ma da una interna urgenza comune e collettiva, una inerenza reciproca dei mezzi e dei fini.
Ecco un senso possibile dell’idea per la quale la natura e i viventi non sono un “oggetto” . L’autonomia del vivente non rende quest’ultimo un soggetto debole da tutelare, ma una forza intensiva di vitalità, creatività e immaginazione col quale è possibile fare rizoma, istituire pragmatiche di significazioni collettive irriducibili alle conformità a scopi: una creazione di valore autonoma (seppure interna) rispetto alle istanze capitalistiche. In questo senso la natura, il vivente non è fuori, o meglio: il fuori, come cercheremo di dire più avanti, è già dentro, dentro e contro il presente.
Opporre a una Ragion pura una pratica ragionevole degli affetti. Si tratta di immaginare un pensiero capace di uscire non solo al di fuori della sua stanza ben riscaldata, ma anche dalla comfort zone dei suoi apparati burocratici . Si tratta di creare un pensiero capace di avventurarsi nel fuori, di andare in giro per il mondo, un pensiero esploratore e vagabondo capace di muoversi anche stando fermo. Un pensiero capace di attendere, senza spegnersi, e di stare all’erta.
Per concludere, l’ecosofia, nella sua declinazione psico-sociale, ci appare sensata solo a partire da queste urgenze. Si tratta, senza dubbio, di un maldestro tentativo di fare ordine tra i pensieri di una prassi teorica che è tutta in divenire, in movimento, in atto.

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L’ecologia in cammino

di Ubaldo Fadini

Se c’è un motivo, tra i tanti significativi, che colpisce in questo testo di Gianluca De Fazio è quello di fare dell’ecologia un discorso – di ripresa del valore – del possibile, di collegare cioè ad essa pratiche di esistenza “aperta”, di articolazione differente, di relazionalità plastica, di ricerca di un altro corrispondere con il mondo: in definitiva, di livelli ontologici più avanzati rispetto a quelli attuali. In questo senso, viene pure ripresa produttivamente la lezione guattariana delle “tre ecologie”, che presuppone poi l’accettazione anche di segno etico delle alterità, delle diversità, rivolta a sottolineare la possibilità concreta di collegare tra loro l’ecologia ambientale, l’ecologia mentale e quella politica sulla base dell’assunzione che ogni ricerca su un problema ambientale postula “lo sviluppo di universi di valore e di conseguenza un impegno etico-politico”.
De Fazio prende di petto i sistemi odierni di valorizzazione, sempre insistendo sulla necessità della loro trasformazione radicale. È così che la riflessione si articola soprattutto con quella bussola il cui ago si orienta spontaneamente “a nord del futuro”, per dirla con Paul Celan, cioè attraverso il recupero di un’idea di utopia non irrigidita e/o consegnata comunque a un ennesimo destino di super-codificazione. In tale ottica, l’autore si rapporta alla dimensione della “finitezza esistenziale”, per riprendere ancora Guattari, mettendo al centro – relativamente – della sua indagine la pratica degli incontri e degli affetti, apprezzandone la valenza compositiva (e non solo) vista la caratterizzazione critica di quest’ultima, indicativa quindi di tensioni, urgenze, contraddittorietà che in essa appunto si esprimono. Il problema è sempre quello – ma oggi ancor più del solito particolarmente pressante – di come vivere nel “mondo”, di ciò che richiede conoscenze e altri talenti specifici capaci di alimentare condotte, pratiche, esperienze plurime con il sovrappiù dell’immaginazione e del suo tradursi in “fantasticazioni” (Gianni Celati). E alla base di tutto questo c’è anche la riproposizione della questione del soggetto, delle linee di soggettivazione, nel senso di riuscire a capirne le ragioni parziali di effettuazione in una realtà che appare sempre più “rugosa”, come scrive il poeta delle “suole di vento”, il Rimbaud così raffigurato da Paul Verlaine, ed è qui che entra in scena il particolare complesso di posizioni teoriche della ricerca filosofica che viene messo a valore nel confronto con la questione che preme a De Fazio: spicca, tra tali posizioni, quella di Merleau-Ponty, soprattutto nell’attenzione dedicata a quel rapporto tra etica e ontologia che rileva l’essenzialità della relazione. È proprio il motivo della relazione che consente di dare ancora più sostanza all’idea di una ecologia del soggetto che lo coglie come un insieme di potenzialità, tale cioè da non poter mettere in piedi, nei suoi confronti, delle operazioni di riduzione, di semplificazione brutale, del carattere di variazione continua del suo esistere. Le variazioni sono proprio ciò che restituisce il valore dell’inerire corporale nel rapporto di corrispondenza con l’ambiente e in definitiva con le alterità, con tutto quello che conferisce maggiore valore alle potenzialità che si esprimono sempre in modalità limitate, spazialmente e temporalmente determinate.
Certamente a me verrebbe immediatamente da richiamare altri piani del pensiero filosofico moderno e contemporaneo, comunque fortemente segnati dalle vicende ricche di significati della stagione di apertura dell’impresa fenomenologica, nel momento in cui si porta l’attenzione sui concetti di ambiente, di natura (anche umana…), di relazione, di limite: ad esempio, l’antropologia filosofica moderna, con la sua non banale appropriazione della “teoria dell’ambiente”, della Umwelt, delineata da Jakob von Uexküll, che non colloca la natura “dalla parte vecchia” (Ernst Bloch) e la svincola così dalla presa delle filosofie della storia d’impronta monodirezionale proprio in virtù di un rivolgersi netto, senza incertezze, verso la dimensione dell’esistere e, più in generale, del “mondo della vita”. È Max Scheler a far leva, in prima approssimazione, sui concetti di Umwelt e di Welt (mondo) in termini tali da riconoscere all’uomo la sua specifica facoltà di sospendere (in una chiave che rimanda evidentemente alla fenomenologia) il flusso vitale, la stessa relazione percettivo-sensoriale alla realtà presente. Attraverso una vera e propria presa di distanza, che corrisponde alla capacità di oggettivare, l’essere umano arriva così a poter conoscere il mondo e a ritornare produttivamente su stesso in virtù di una temporanea disattivazione di ciò che altrimenti lo coinvolgerebbe pienamente in relazioni immediate, date una volta per tutte. Mentre l’essere animale coglie soltanto ciò che gli è dato all’interno del suo mondo circostante, della sua Umwelt, l’apertura al mondo assicura all’essere umano l’accesso all’oggettività del reale, garantisce l’accoglimento dell’oggetto (che mancherebbe invece all’animale, non fornito di un mondo-realtà e legato dunque ad un fantasmatico mondo che risulta sempre proprio). Questo quadro di indicazioni, in riferimento a von Uexküll, è rintracciabile in Helmuth Plessner (che comunque muove la sua indagine in modo autonomo da Scheler) e in Arnold Gehlen, ovviamente con tutte le differenze del caso, in un senso che tende a sottolineare il carattere particolare della “posizione” dell’essere umano nel mondo, della sua “posizionalità”, nel suo risultare “speciale”, originale, in vista dell’articolazione di una vicenda vitale complessivamente varia e capace di arricchimento di contenuti essenziali, in grado di sostenere lo slancio, la spinta verso una un’alterità, qualcosa cioè di radicalmente differente dall’immediato e che si può raffigurare nell’immagine plessneriana del “luogo utopico”.
È proprio a tale “luogo” – considerato come una sorta di “fuori”, per dirla con Maurice Blanchot e Michel Foucault, che si presenta dentro il complesso delle pratiche, come il suo fattore effettivamente incognito – che si può riferire il delinearsi di paesaggi sempre mossi di relazioni, di interazioni, che l’ecologia critica, l’“ecologia politica” nel senso di Gorz, ha il compito di analizzare con la consapevolezza dell’ambivalenza di fondo di tutto ciò che si presenta insieme come umano “e” naturale. Come suggerisce De Fazio, cercare di essere dentro al “fuori” vuol dire ritrovare parzialmente quest’ultimo, come espressione della positività della differenza, di una alterità dunque mai cancellabile, all’interno di un cammino difficile, complicato, sul piano specifico dell’approccio “disciplinare” (ecologico) e su quello più politicamente “avversativo” rispetto alle condizioni di esistenza date, imposte e presentate come dogmi indiscutibili. In questa prospettiva risulta ancora più convincente il rinvio all’“umanesimo avventuroso” di Merleau-Ponty, alla rilevazione dettagliata del manifestarsi plurale dell’imperfezione anche nell’istituito appunto dell’/nell’umano con le sue pretese di relativa identità, che a me piace declinare soprattutto in direzione di una presa d’atto del valore critico di un movimento, quello dell’avventurarsi, da apprezzare per quelli che risultano essere i suoi contenuti di concretezza, di vera e propria materialità resistente a qualsiasi tentativo di semplificazione e di resa conforme (a ciò che conta e pensa/pretende di durare al di là del consentito e comunque limitatamente auspicabile). Movimento essenziale quello dell’avventura – non a caso strumentalmente sollecitato a sparire, come scriveva Jean Baudrillard, nel vortice dell’accelerazione, delle velocità di funzionamento delle nostre organizzazioni sociali, che vuole condurlo all’estremo per togliergli così senso differente – perché veicolo di un disambientamento, certo parziale, che può permettere di vedere diversamente la molteplicità degli spazi vitali, dei “mondi”, e di rendere visibili, praticandoli, alcuni dei loro aspetti, il loro configurarsi. È sempre opportuno ricordare Edgar Morin, quando afferma che “vivere è una avventura”, nell’ottica di una riqualificazione del movimento di quest’ultima che porta senz’altro a perdersi, qualche volta, per poter così ritrovarsi diversamente. Ferruccio Masini richiamava magistralmente quel senso dell’avventura che consiste nel far apparire ciò che comunemente viene considerato impossibile come possibile e che a me pare traducibile, dalla parte di De Fazio, anche nella segnalazione del carattere ambivalente della “passeggiata” (a partire da Robert Walser e arrivando a Thomas Bernhard), che certamente vale come una conferma di sé, del “camminatore”, nell’apertura all’incognita. Con una aggiunta: che nel tempo della passeggiata si dà la possibilità della conferma di sé attraversa una disattivazione costante, una disconferma…, di quelle strutture mentali, di pensiero, vita, che significano qualcosa di positivo soltanto nel riconoscimento della propria provvisorietà/revocabilità di fondo. Quando si pensa da “fermi” (Elias Canetti direbbe: in termini paranoico-ossessivi), il pericolo che si corre è proprio quello dell’eventuale venir meno del sapore vivo, ricco, della conferma e della disconferma di ciò che si è, della perdita di ciò che può alimentare l’“allentamento dell’io”, in termini benjaminiani, del presupposto indispensabile per porsi nell’ottica di arrivare a mettere in piedi delle pratiche di “padronanza” dei corpi “nuovi”, differenti, diversamente disposti, delineati dalla particolare “passione per l’improvvisazione” che supporta quel “viaggio nella lontananza” (Peter Szondi) che è specifico della vicenda umana complessiva.

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