Pubblichiamo come terza lettura estiva di Effimera, un denso e importante saggio di Sara Baranzoni e Paolo Vignola tratto dal libro, a cura di Obsolete Capitalism, Moneta, rivoluzione, filosofia dell’avvenire. Nietzsche e la politica accelerazionista in Deleuze, Foucault, Klossowski, Guattari (Obsolete Capitalism Free Press-Rizosfera, 2016). Il testo discute le tesi del Manifesto per una politica accelerazionista di Srnicek e Williams. L’analisi critica della teoria dell’accelerazionismo verte sulla seguente domanda: è possibile applicare il costante sviluppo della techne alla soggettività umana? D’altro lato, come interpretare la proletarizzazione del General Intellect, cioè la deprivazione del sapere sociale consentita dalla governamentalità algoritmica? E ancora: che cosa è l’Antropocene se non compimento del capitalismo? Le analisi di Bernard Stiegler, Franco Berardi e di Maurizio Lazzarato ci mostrano che il cognitivismo umano è spesso impregnato da Nichilismo organologico che non sempre consente un progressivo e costante sviluppo dell’appropriazione tecnologica. Su questa biforcazione si gioca il futuro della “sinistra”. Non siamo forse, tra tanta complessità, posti di fronte all’occasione di “ripensare l’umano e l’inumano, il fuori e il dentro, l’agency e le affordances, la stessa sinistra, nonché i processi d’individuazione psichica e collettiva”?
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Nei tre anni che passano dalla pubblicazione nel 2013 del Manifesto per una politica accelerazionista ad oggi si è verificato un moltiplicarsi di saggi, conferenze e riferimenti filologici in favore o contro l’ipotesi tracciata da Srnicek e Williams – i quali hanno infine pubblicato un libro, Inventing the Future, in cui le loro tesi politiche vengono espresse più ampiamente. Dal punto di vista filosofico, comunque, già il Manifesto ha avuto il merito di attrarre magneticamente a sé, non per forza come alleati, un folto insieme di autori inclini a ragionare sulle sorti dell’umanità al tempo della catastrofe capitalistica contemporanea. Due libri collettivi usciti nel 2014, in particolare, raccolgono una serie di riflessioni inaggirabili per chi volesse comprendere la posta in gioco teoretica e politica del dibattito sull’accelerazionismo: #Accelerate. The accelerationist reader, a cura di Avanessian e McKay, e per il pubblico italiano Gli algoritmi del Capitale, curato da Matteo Pasquinelli. Entrambi i volumi riportano integralmente il Manifesto di Srnicek e Williams, come una sorta di pietra focaia che con la sua scintilla permette di illuminare le pagine di alcuni grandi filosofi della seconda metà del Novecento, come Deleuze e Lyotard, nonché di due immensi predecessori: Marx e Nietzsche.
Di Marx sono due i riferimenti più importanti all’orizzonte del ragionamento collettivo. Il Manifesto per una politica accelerazionista chiama a testimoniare Il Capitale, e con esso la prospettiva generale di Marx per cui i vantaggi prodotti dal capitalismo «non dovevano essere invertiti, ma accelerati oltre le restrizioni della forma valore capitalista» Dal canto suo, il riferimento a Nietzsche, anche per il medium discorsivo che lo porta in primo piano, appare nella sua sfavillante problematicità. Tale medium è L’anti-Edipo di Deleuze e Guattari, libro a dire il vero tempestato di riferimenti nietzscheani che lo hanno reso, al netto del dibattito psicoanalitico e di quello post-sessantottino, un autentico capolavoro teoretico-politico a cui molti filosofi continuano ad attingere – risentimento, forze reattive, cattiva coscienza, crudeltà, giudizio, debito, divenire, nomadismo, tra gli altri. In particolare, il passo in questione è il seguente: Ma quale via rivoluzionaria, ce n’è forse una? Ritirarsi dal mercato mondiale, come consiglia Samir Amin ai paesi del Terzo Mondo, in un curioso rinnovamento della «soluzione economica» fascista? Oppure, andare in senso contrario? Cioè andare ancor più lontano nel movimento del mercato, della decodificazione e della deterritorializzazione? Forse, infatti, i flussi non sono ancora abbastanza deterritorializzati, abbastanza decodificati, dal punto di vista di una teoria e di una pratica dei flussi ad alto tenore schizofrenico. Non ritirarsi dal processo, ma andare più lontano, «accelerare il processo», come diceva Nietzsche: in verità, su questo capitolo, non abbiamo ancora visto nulla.[3] La maggior parte delle interpretazioni che di questo passo sono state date, pur nella loro eterogeneità o perfino antinomia nel giudizio – errore strategico oppure lungimiranza rivoluzionaria –, paiono contraddistinguersi da un lato per il focus sulla deterritorializzazione, e dall’altro lato per un certo disinteresse filologico o almeno una minimizzazione dell’ambiguità del discorso nietzscheano infoderato nella retorica di Deleuze e Guattari. In altre parole, mentre si interpreta l’accelerazione dei flussi di decodificazione del mercato come una opportunità rivoluzionaria per i processi di soggettivazione che possono nutrirsi della carica disruptiva di tali flussi nei confronti dello stato, della famiglia, della morale e della disciplina, si attesta implicitamente e di conseguenza una sola direzione alla prospettiva nietzscheana, quella espressa nel frammento “I forti dell’avvenire”: «Il livellamento dell’uomo europeo è il grande processo che non si deve ostacolare: bisognerebbe affrettarlo ancora di più»[4]. Questo passo nietzscheano oggi può essere considerato alla radice dell’accelerazionismo, persino dell’accelerazione della specie umana, ma l’intenzione di utilizzarlo a fini anti-capitalisti, rivoluzionari ed emancipativi della soggettività – dunque di attualizzarlo e perciò di attualizzare l’inattuale – presenta sicuramente alcuni fattori di complessità di cui probabilmente bisognerebbe tener conto. In particolare, se è nel 1887 che si esprime l’afflato accelerazionista di Nietzsche, è dello stesso anno la sua prognosi sul compimento del nichilismo nei due secoli a venire[5], ossia ora – e i sintomi, come vedremo, possono già essere segnalati dal punto di vista politico, sociale e culturale. In tal senso, seguendo solo una delle due indicazioni, quella pro-attiva e ignorando quella pro-gnostica, si corre il rischio di mutilare la prospettiva tragica di Nietzsche e, a fortiori, il suo prospettivismo, di cui Deleuze ha sempre sottolineato la valenza teoretica, estetica e politica: Con ottica di malato considerare le nozioni e i valori più sani, poi, inversamente, a partire dalla pienezza e dalla sicurezza tranquilla della vita ricca, guardare in basso il lavoro segreto dell’istinto di décadence – questo è stato il mio più lungo esercizio, la mia vera esperienza, l’unica in cui, semmai, sia diventato maestro. Ora è in mano mia, mi sono fatta la mano a spostare le prospettive.[6] Tale spostamento delle prospettive, a ben vedere, lo si può ritrovare all’opera anche in Deleuze, ad esempio nella duplicità della ripetizione, e persino in Deleuze e Guattari per ciò che concerne proprio il rapporto tra accelerazione e deterritorializzazione. È ciò che Franco Berardi Bifo ha esibito nel suo saggio critico sul Manifesto di Srnicek e Williams, mostrando come la spinta accelerazionista presente in L’anti-Edipo trovi il suo antidoto in Che cos’è la filosofia?, quando i due autori affermano: “Abbiamo bisogno di un po’ di ordine per proteggerci dal caos. Nulla è più doloroso di un pensiero che sfugge a se stesso, di idee che volano via. Che scompaiono appena formate, già erose dalla dimenticanza o precipitate in altre idee che non possiamo più padroneggiare”.[7] Ritorneremo su questo passaggio, poiché, al di là della sua indubbia carica suggestiva, rimanda al titolo del presente saggio, ossia la biforcazione, e la sua relativa funzione nei sistemi complessi come concepita da Prigogine e Stengers. Ora è invece importante sottolineare che, forte di tale considerazione, e rifacendosi anche a Caosmosi di Guattari, Berardi sostiene che oggi «il processo di soggettivazione autonoma è devastato dall’accelerazione caotica, e la soggettività sociale è catturata e soggiogata dalla governance del capitale, sistema costituito da dispositivi automatici che corrono a velocità strabiliante»[8]. Si tratta di una questione cruciale, disattesa da Srnicek e Williams, e il saggio di Berardi, nella sua brevità, riesce a mettere in evidenza una certa debolezza dell’analisi socio-culturale che sta dietro al Manifesto. Proprio per via della sua brevità, però, tale saggio non affronta diversi aspetti legati all’ipotesi accelerazionista ma che non sono essenzialmente espressione del Manifesto, relativi in particolare al rapporto tra tecnologia e umanità, motivo per cui riteniamo opportuno dotarci di uno spettro teorico, composto anche dal pensiero di Berardi, più incline a ragionare su tale rapporto e, nel fare ciò, cercheremo di mantenere una sorta di diplopia per far sì che le due affermazioni di Nietzsche, sull’accelerazione e sul compimento del nichilismo, abbiano un’importanza commensurabile. In questo senso, la critica che proveremo a sviluppare nei confronti della postura accelerazionista dovrebbe essere intesa più come una sintomatologia che come una opposizione. Tale sintomatologia, che condivide l’atteggiamento critico di Benjamin Noys in quanto focalizzata su ciò che sta accadendo agli individui[9], punta dritta alla radice del rapporto tra uomo e tecnica; a partire da questo “luogo”, con l’ausilio di Stiegler, decideremo di attuare una biforcazione dal philum genealogico su cui ci paiono basarsi le ipotesi di accelerazione o addirittura di superamento della specie umana – biforcazione a nostro avviso necessaria per tenere politicamente assieme, oggi, le due considerazioni nietzscheane. Tecnicità originaria e proletarizzazione Prima di essere accelerazionisti o decelerazionisti, oppure prima di evitare tale dibattito, sarebbe opportuno domandarsi in cosa consiste l’accelerazione nel contesto sociale, ossia nel rapporto tra tecnologia, economia e società e quali ripercussioni, positive e negative, può avere sulla soggettività. Sarebbe cioè strategico dotarsi di una teoria in grado di comprendere cosa sta succedendo e cosa potrebbe succedere agli individui in determinati scenari futuri. In tal senso, si tratta di pensare o di ripensare il passato dell’uomo nei suoi rapporti con la tecnica, prendendo come sintomo il suo presente, che qui, grazie ai due frammenti di Nietzsche, comprendiamo come nichilismo. Stiegler offre una delle più interessanti ricognizioni del rapporto tra essere umano e tecnica, almeno per quanto riguarda la posta in gioco di un’eventuale accelerazione, in quanto, se compreso nella sua radicalità, tale rapporto costringe ogni afflato accelerazionista, così come ogni postura resistente, a fare i conti con una domanda letteralmente essenziale: non cosa si vuole accelerare, o si sta accelerando, ma chi sta e si sta accelerando? Esiste un chi? E come si sarebbe formato tale chi? E se pensiamo il chi innanzitutto come l’oggetto dell’accelerazione? Altrimenti detto, questo insieme di interrogazioni ci sembra ricoprire l’impensato, da parte della prospettiva accelerazionista – ma anche di quella trans-umanista ed extropianista –, del frammento di Nietzsche sui forti dell’avvenire. Non è un caso, dunque, che Stiegler, in quanto filosofo della tecnica e della tecnicità originaria, sia rimasto fino al 2016 un outsider rispetto al discorso accelerazionista ma anche alla sua critica diretta[10]. Veniamo però al sodo della questione. La tecnica, in quanto materia inorganica organizzata dall’uomo, è per Stiegler la «prosecuzione della vita con altri mezzi rispetto alla vita», ossia un agente di evoluzione non darwiniana e, in tal senso, un fattore fondamentale di differenziazione e biforcazione, ossia di differimento e diversione dell’entropia, perciò di accentuazione della neghentropia[11]. Al tempo stesso, e a maggior ragione a partire dall’industrializzazione, la tecnica rappresenta anche un’accelerazione dell’entropia, non solo perché consiste sempre in un processo di combustione e di dissipazione di energia, ma poiché l’effetto collaterale della standardizzazione industriale è il progressivo annichilimento della biodiversità e della sociodiversità, ossia della vita come proliferazione di differenze – in tal senso, la tecnica è anche agente di involuzione. La tecnica come pharmakon, rimedio e veleno al tempo stesso, agente entropico ma potenzialmente neghentropico, è allora ciò che, pensata dalla tradizione filosofica occidentale in quanto nulla o comunque inessenziale rispetto all’uomo, tuttavia contribuisce sostanzialmente alla costituzione dell’essere umano e ne rivela la non-essenza costitutiva, il suo «difetto di origine», vale a dire la sua essenziale incompletezza. Ciò che comunemente chiamiamo l’uomo può diventare quel che è, per dirla con Nietzsche, solo attraverso protesi tecniche che, supplendo tale difetto originario, lo conducono al di là di sé, ad ex-istere e perciò, simondonianamente, a individuarsi. Questo è il senso antropopoietico o antropo-maieutico del supplemento necessario, che Stiegler, seguendo e separandosi da Derrida, ricava dal paleoantropologo Leroi-Gourhan: È lo strumento, ossia la techne, che inventa l’uomo, e non l’uomo che inventa la tecnica. O ancora: l’uomo s’inventa nella tecnica inventando lo strumento – «esteriorizzandosi» tecno-logicamente. Ora, l’uomo è qui «l’interno»: non esiste esteriorizzazione che non designi un movimento dall’interno verso l’esterno. Tuttavia, l’interno è inventato da questo movimento: non può perciò precederlo. Interno ed esterno si costituiscono di conseguenza attraverso un movimento che inventa, al tempo stesso, l’uno e l’altro: un movimento in cui si inventano l’uno nell’altro, come se vi fosse una maieutica tecno-logica di ciò che si chiama l’uomo.[12] Questo passaggio mostra un aspetto fondamentale della prospettiva stiegleriana, che vale la pena sviluppare poiché spesso rimosso da letture troppo veloci. A differenza di altri autori che hanno messo in evidenza gli effetti tossici delle tecnologie sulla vita sociale, Stiegler, pur impegnandosi da più di venti anni in tale denuncia, non può assolutamente essere considerato né tecnofobico né desideroso di salvaguardare una qualche purezza originaria dell’uomo. Il concetto che probabilmente ha finito per dare questa impressione è la grammatizzazione come agente di proletarizzazione, anche se essa implica precisamente il contrario di una purezza originaria, e può essere compresa nella sua interezza solo se si assume la prospettiva farmacologica. Per tale motivo, si rende opportuna una prima digressione terminologica che dipani i dubbi relativi al rapporto tra grammatizzazione, umanizzazione e proletarizzazione. Seguendo Stiegler che si rifà a Sylvain Auroux, la grammatizzazione è stata, da un lato, l’agente principale di costruzione della psiche e di sviluppo della civilizzazione mediante il processo continuo di esteriorizzazione della memoria, dalla selce scheggiata ai graffiti rupestri, dalla scrittura alla discretizzazione industriale dei gesti, dei linguaggi e dei comportamenti, fino all’archiviazione dei Big Data; in tal senso, in quanto discretizzazione dei flussi cognitivi, emotivi ed esperienziali e archiviazione della memoria su supporti materiali, essa è il vettore di trasmissione dei saperi nel corso della storia dell’umanità – dal momento che, stando a Husserl e Derrida, il sapere, per essere trasmesso e appreso, ha sempre bisogno di una sua esteriorizzazione e reiterazione tramite un supporto materiale. Dall’altro lato, lo stesso processo di grammatizzazione ha finito per generare anche l’effetto contrario, ossia una progressiva perdita di sapere, che Stiegler definisce proletarizzazione. In quest’ottica, Platone è allora il primo pensatore del proletariato, dal momento che la questione del Fedro relativa alla scrittura come pharmakon, ossia alla memoria (anamnesis) che viene delegata al suo supporto materiale (hypomnesis), descrive una perdita di sapere per via di una esteriorizzazione dei contenuti di memoria senza ritorno, ossia senza re-interiorizzazione, se a tale pharmakon non viene affiancata una “terapia”, ossia una pratica pedagogica, euristica o politica. Si tratta di una proletarizzazione cognitiva, prima che materiale, ma nell’ottica di Stiegler è legata a doppio nodo con quella marxiana, «se è vero che il proletariato è l’attore economico sprovvisto di sapere, perché senza memoria: la sua memoria è passata nella macchina riproduttrice dei gesti che questo proletario non ha più necessità di saper fare, dato che deve semplicemente servire, ridivenendo così un servo»[13]. La proletarizzazione perciò non riguarda solo i proletari storicamente intesi, vale a dire coloro che, privati dei mezzi di produzione, dispongono unicamente della propria forza-lavoro. Proletarizzato è chiunque perde una forma di sapere, sia esso pratico, corporeo o teorico: il lavoratore dell’industria perde il proprio saper-fare, assorbito dalla macchina, il consumatore perde il proprio saper-vivere, annullato dal marketing, il lavoratore cognitivo la sua stessa vita mentale, formattata dai sistemi informatici del cosiddetto “capitalismo cognitivo”. Inoltre, facendo un passo avanti – o a lato – della scrittura stiegleriana, possiamo affermare che, se a livello individuale viene proletarizzata la vita mentale, e se il capitalismo cognitivo si basa sullo sfruttamento della cooperazione tra i cervelli, a livello collettivo ciò che viene proletarizzato, ossia privato del proprio sapere sociale, è niente di meno che il General Intellect. La proletarizzazione generalizzata sembra poi raggiungere il proprio culmine nella società digitalizzata, o società automatica, basata sull’automazione della produzione e sulla governamentalità algoritmica degli individui. Infine, e a proposito dei saperi corporei, con i sensori wearables, i senseables, i dispositivi ambientali di cattura e trattamento dei dati, nonché le biotecnologie di potenziamento cognitivo, la proletarizzazione per mano tecnologica sembra raggiungere persino le radici fisiologiche della sensibilità e l’affettività, e con esse le condizioni di possibilità del saper-vivere e delle altre forme di sapere (saperi teorici e saper-fare). Nel descrivere questa serie di fenomeni, non si tratta di essere fatalisti o catastrofisti, quanto dell’essere disposti a leggere i sintomi di questo fenomeno, e di divenire, come Nietzsche, in grado di spostare le prospettive, facendo della situazione di disagio un territorio ed un volano per trovare la possibilità di rifunzionalizzazione deproletarizzante dell’esperienza, al di là di ogni facile tecno-entusiasmo. L’abilità critica è infatti ciò che permette la solidità necessaria per non confondere rischi e vantaggi, e per spingere l’acceleratore, questa volta sì, sul piano terapeutico. Ad ogni modo, una simile possibilità potenziante è quella ipotizzata da Mark Hansen attraverso la peculiarità dei cosiddetti “media del ventunesimo secolo”[14], da lui salutati come l’innovazione tecnologica finalmente in grado di aumentare le prestazioni del corpo e delle sue facoltà, grazie alla loro capacità di operare al di sotto della soglia della cognizione e della percezione umana. Rispetto ai media precedenti che lavoravano in funzione prostetica, ossia correlandosi direttamente alla capacità di sentire e di intraprendere processi cognitivi allo scopo di aiutarli registrando, stockando e trasmettendo informazioni, tali nuovi dispositivi avrebbero un’agency propria. In altre parole, essi sarebbero in grado di attuare operazioni slegate dalle facoltà individuali cessando dunque di essere al servizio dell’uomo. Tale indipendenza sarebbe inoltre rafforzata dal fatto che, essendo in grado di raccogliere dati nella stessa dimensione microtemporale dell’esperienza sensibile, che non può mai apparire in quanto tale alla coscienza, quest’ultima non può avere accesso a tali operazioni, che dunque non può influenzare. è proprio su questo piano, ci pare, che ad Hansen manca invece un vero e proprio apparato critico in grado di rendere quella che egli dichiara come la propria posizione farmacologica un punto di appoggio consistente per l’impalcatura della teoria. Da parte sua, infatti, egli dichiara che il rovescio negativo di questo potenziamento sta nell’indebolimento della facoltà percettiva, una perdita tutto sommato accettabile, a suo avviso, dal momento che grazie ai dispositivi sopra elencati il campo del sensibile si trova ampliato fino a raggiungere una “sensibilità diffusa” (worldly sensibility), o “sensibilità non percettibile” (nonperceptual sensibility), in grado di aprire un mondo sconosciuto e ulteriore rispetto ai limiti della soggettività. Dal nostro punto di vista, un simile rovescio non pare innanzitutto essere coerente in termini di farmacologia, in quanto, per essere tale, essa ha sempre bisogno di un individuo che “assuma” il farmaco e sul quale questo possa agire – mentre se si parla di un ampliamento della sensibilità ambientale (o diffusa) si procede precisamente verso la sua eliminazione. Mancando dunque questo piano, il rischio è quello di non accorgersi della capacità di tali tecnologie di generare ulteriori livelli di proletarizzazione. Nel momento in cui la percezione smette di essere considerata come necessaria nel processo di esperienza sensibile – questo pare sostenere Hansen – perché sostituibile dal più potente feed forward operato da certe tecnologie della sensibilità, verrebbe da chiedersi cosa ne è del processo noetico che permette di sviluppare senso dal sentito. Più che potenziate, le facoltà cognitive paiono essere cortocircuitate e ridotte ad una dimensione meccanica molto più simile all’efficienza ed immediatezza di un database all’interno del quale si immagazzinano contenuti che, in quanto segnali automatici avulsi da qualsiasi significazione propria, non paiono essere esenti dal contribuire al rischio nichilistico del livellamento delle facoltà, riducendole a puro calcolo analitico assistito dagli algoritmi di computazione di dati, senza un piano di sintesi generatore di nuovo sapere. Nichilismo organologico Queste considerazioni ci forzano ad esplorare in profondità i sintomi nichilistici del presente, che Stiegler ci invita a pensare a partire dal concetto di Antropocene, ossia l’epoca in cui l’uomo sarebbe diventato un fattore geologico di prim’ordine, in grado di trasformare, mettendolo seriamente a rischio, l’equilibrio geo-fisico e chimico della Terra.[15] A tal proposito, in La société automatique I. L’avenir du travail, Stiegler pone in parallelo la realizzazione contemporanea dell’Antropocene, «la cui storia coincide con quella del capitalismo», con il sorgere della governamentalità algoritmica descritta da Thomas Berns e Antoinette Rouvroy, vale a dire l’inedito modo di governo basato sull’estrazione di dati, metadati e tecniche di profilaggio nell’ottica di una previsione a lungo termine dei comportamenti individuali e collettivi[16]. Dalla macchina a vapore, le leggi della termodinamica e il climate change, ai Big Data e alle matematiche correlazioniste, il filosofo francese individua il fil rouge della mathesis universalis che, sotto la spinta dell’accelerazione tecnica, conduce alla totale automatizzazione della società e, dunque, al compimento del nichilismo come era dell’Antropocene e della governamentalità algoritmica, la quale rappresenta lo stadio attuale delle società di controllo deleuziane, quello dell’iper-controllo, «generato dai dati personali auto-prodotti, auto-captati e auto-pubblicati dalle stesse persone – deliberatamente o meno – e sfruttati dal calcolo intensivo prodotto su questi dati di massa»[17]. Frammentati in una miriade di dati, gli individui divengono infinitamente calcolabili, comparabili, indicizzabili, e come tali preda di tali tecniche “su misura”. D’altra parte, ciò alimenta la compulsione a produrre dati: una volta rese le esistenze computabili, l’auto-(iper)controllo delle proprie prestazioni diviene tendenzialmente irrinunciabile, e il desiderio di adeguarsi alle prescrizioni che l’analisi di tali producono, “divenendo il proprio profilo”, in un certo senso totalizzante. Ad accomunare nichilisticamente queste due condizioni, l’Antropocene e la governamentalità algoritmica, è una particolare concezione dell’entropia che, ripresa dalla termodinamica, viene tradotta nel sociale. Quanto tale trasposizione possa tenere sul piano teoretico sarà una questione da valutare a breve. Per il momento risulta opportuno osservare ancora più da vicino in cosa può consistere l’avvento del nichilismo oggi. Stiegler concepisce il nichilismo occidentale, quello relativo al livellamento delle differenze, come una disindividuazione generalizzata, ossia come il drastico indebolimento fino all’arresto progressivo dei processi d’individuazione psichica e collettiva su cui si fondano il divenire e l’avvenire della società[18]. Questo annichilimento dei processi d’individuazione, che si traduce nel venir meno dei legami sociali, nella decadenza dei saperi (saper-vivere, saper-fare, saperi teorici), degli affetti e del sentimento di esistere, è il risultato di un determinato rapporto tra apparati psico-fisiologici, sistemi tecnici e istituzioni sociali, la cui co-evoluzione storica, così come la loro involuzione, è pensata nel senso di un’organologia generale, la cui definizione è la seguente: L’organologia generale è un metodo di analisi congiunta della storia e del divenire degli organi fisiologici, degli organi artificiali e delle organizzazioni sociali. Essa descrive una relazione trasduttiva tra tre tipi di “organi”: fisiologici, tecnici e sociali. La relazione è trasduttiva nella misura in cui la variazione di un termine in un organo coinvolge sempre la variazione dei termini negli altri due tipi di organi.[19] L’Antropocene o(ssia) il compimento del nichilismo sono fenomeni che, nel rendere esplicita la dimensione organologica dell’esistenza umana, esprimono anche, in quanto sintomi del suo disagio, l’insostenibilità di tale dimensione sotto l’egemonia del rapporto sociale capitalistico. L’insostenibilità ambientale rinvia a un’insostenibilità organologica che a sua volta non permette un riequilibrio ecologico, nel senso che ciò che non è sostenibile dal punto di vista sociale trova il suo omologo sul piano psico-fisiologico e i due non possono essere ri-organizzati senza un riaggiustamento del sistema tecnico, il quale appunto è insostenibile dal punto di vista ecosistemico. Più in generale, il divenire tecnologico provoca sempre uno sfasamento tra le sfere della vita umana, che Stiegler descrive come piani organologici, ossia come piani dell’individuazione psico-fisiologica, sociale e tecnica. Ciò si rende palese nei periodi di grande accelerazione che determinano una trasformazione repentina del sistema tecnico, in cui l’individuazione psico-fisiologica e quella sociale non riescono a stare al passo con l’individuazione tecnologica. In tal senso, per Stiegler lettore di Bertrand Gille, si produce un disaggiustamento tra i tre piani organologici, ossia la loro perdita di equilibrio reciproco. Ogni trasformazione del sistema tecnico provoca perciò uno shock organologico, da intendersi come la sospensione delle altre due forme d’individuazione, una sorta di epochè o di ritardo socio-culturale che richiede l’instaurazione di nuove norme sociali in grado di adottare la novità tecnica inserendola all’interno delle pratiche individuali e collettive. A ben vedere, la condizione di disaggiustamento è pressoché una costante del processo di individuazione e si può affermare che contribuisca alla sua realizzazione: l’equilibrio, come direbbe Simondon, è solo metastabile, sempre teso tra due tendenze contrapposte. Il disaggiustamento è perciò da intendersi all’interno della condizione farmacologica dell’individuazione, che Stiegler pensa al di là dello stesso Simondon. Se lo shock tecnologico sembra appartenere alla strategia della “distruzione creatrice” concepita da Schumpeter, vale a dire la sistematica e al tempo stesso vulcanica sostituzione dei prodotti e dei sistemi di produzione più deboli, relegati all’obsolescenza, per far posto all’innovazione più disruptiva e al conseguente sviluppo economico, l’analisi di Stiegler sottolinea invece l’effetto tossico di tale pratica sui processi d’individuazione psichica e collettiva: i continui shock dell’innovazione, di cui l’economia è dipendente, generano una progressiva perdita di individuazione. Al netto del lessico simondoniano, la distruzione creatrice, divenendo puramente shockante e incapacitante, si trasforma in una nichilistica distruzione distruttrice che devasta tanto gli organi psicosomatici quanto le organizzazioni sociali. All’interno di questa diagnosi organologica possiamo innestare le considerazioni critiche di Franco Berardi Bifo nei confronti del Manifesto acce