In questa fase di transizione del capitalismo, che conosce la distruzione del fordismo e la finanziarizzazione dispotica dell’economia come strategia di potere assolutamente consapevole da parte delle classi dominanti, la violenza e la guerra diventano forza produttiva e vettore di produzione di plusvalore e di accumulazione di capitale. In questa ottava puntata del “Diario della crisi” – progetto nato dalla collaborazione tra Effimera, Machina-DeriveApprodi e El Salto – Gianni Giovannelli riflette su come la povertà, l’espropriazione e la privazione dei diritti diventino vere e proprie leve di valorizzazione, il cui fine ultimo è quello di togliere ogni autonomia e di mettere fuori legge ogni alternativa per le classi lavoratrici e povere dell’Unione Europea e dell’intero pianeta

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Fury, rage madness in a wind        

sweet through America

(William Blake, America, X)      

Dentro l’attuale transizione – durante il passaggio, cioè, dal vecchio modo di produzione fordista all’attuale struttura economica finanziarizzata – assistiamo, in sequenza, variegata ma continua,  all’attuazione di scelte istituzionali e di decisioni imprenditoriali che concretano un progetto di accumulazione originaria, naturalmente aggiornato e contestualizzato, così da poter essere lo strumento con il quale il nuovo assetto capitalistico intende ottenere un dominio pieno e incontrastato, piegando alle proprie esigenze di profitto gli abitanti di ogni territorio. Come nel passato anche questa nuova accumulazione deve caratterizzarsi necessariamente in una acquisizione coattiva e violenta delle risorse monetarie (ma non solo monetarie) da mettere in circolazione, per impiegarle e trasformarle in (plus)valore. L’evento eccezionale consente, direbbe Carl Schmitt, l’uso dello stato di eccezione da parte dell’istituzione politica; in effetti tutti i governi, compreso quello italiano, non esitano ad invocare come inevitabili misure qualificate straordinarie  nel momento della loro introduzione, ma concepite invece fin da subito come permanenti. La moderna forma stato, in tutte le sue concrete sedimentazioni e pur con indubbie differenze, vive in simbiosi con la crisi, di essa si nutre, tanto che, quando tarda a manifestarsi o si presenta troppo tenue, viene sollecitata, provocata, stimolata, accresciuta rimuovendo i freni. Per sottomettere la moltitudine precaria e meticcia, e vincere lo scontro aperto in questa transizione, la violenza assume un ruolo strategico, il capitale non può non usarla che a piene mani; il ricorso a metodi tipici dell’accumulazione originaria non è affatto un ritorno al passato o, tanto meno, una rievocazione del fascismo inteso come riproposizione di un sistema ormai consegnato alla storia del secolo scorso. Le suggestioni nostalgiche proposte da segmenti reazionari e/o razzisti nei parlamenti europei vengono usate, in congiunzione o in contrapposizione controllata, insieme alle istanze liberal(i) volte ad ottenere trattamenti paritari nelle società civili. È dunque l’invenzione di un moderno dispotismo, assai articolato nella sua formale veste giuridico-statuale, molto simile nei suoi interventi di gestione politico-economica a breve termine. Il vecchio fordismo era un sistema dotato di una sua stabilità, a patto che si salvaguardasse la permanenza dell’aumento di produttività, per consentire l’incremento contemporaneo del salario reale e del profitto. Tuttavia, a partire dagli Anni Ottanta, si è consolidato il capitalismo cognitivo e finanziarizzato, poi evoluto in un capitalismo delle piattaforme; ma ciò ha comportato anche una instabilità strutturale, non rimuovibile con i provvedimenti di tipo fordista. È la crisi che alimenta il capitalismo, non viceversa: per questo proprio durante l’insorgere di una crisi il capitalismo si rivitalizza, cresce e non soffre.

Questo spiega la mobilità contraddittoria delle alleanze, il continuo mutamento delle ideologie rivendicate (sovranismo, monarchia, parlamentarismo, presidenzialismo e così via), la coerenza nell’incrementare la spesa militare e nell’attaccare il sistema di diritti sociali, ogni forma di residuo welfare (per quanto attenuato). Neppure vi è contraddizione fra un alto livello di sviluppo scientifico-tecnologico e l’utilizzo, dentro la transizione, di meccanismi tipici dell’accumulazione originaria, per accelerare il processo di trasformazione e/o incrementare il profitto. Anzi. Per riuscire a mettere a valore l’intera esistenza della generalità degli abitanti di un territorio è utile togliere loro ogni risorsa, sottrarre qualsiasi diversa alternativa, perfino quella di autarchica autonomia mediante piccole collettività insediate in luoghi appartati. Il capitale del XXI secolo è più feroce di quello che lo ha preceduto, non concede tregua, non tollera diserzioni  e resistenze, in nessuna forma e di nessun genere.

La duchessa di Sutherland

Il 21 gennaio 1853 uscì sul diffuso quotidiano New York Daily Tribune, espressione della linea politica antischiavista, un articolo di Karl Marx, al solito irriverente e ironico, che poneva all’attenzione del pubblico la figura della (defunta) duchessa scozzese Elisabeth Sutherland (1765-1839) e, sia pure indirettamente, del marito George, esponente del movimento Whig in cui pure si riconosceva il foglio che ospitava il pezzo (nota 1). C’era clima di crisi in quei giorni; dopo le elezioni la maggioranza si reggeva per soli sei voti, il tasso di sconto era cresciuto, i cereali scarseggiavano per via del cattivo raccolto, montava la speculazione su ferro e ghisa scozzese con crescita esponenziale del prezzo di mercato, non si placava la polemica sulla schiavitù avvicinando il tempo della ormai inevitabile guerra civile americana. Il liberalismo inglese era schierato per l’abolizione, con molta foga, senza tuttavia concedere nulla ai “liberi operai” del Regno Unito, che, in patria, subivano una costante repressione e angherie di ogni sorta. Marx non perse una ghiotta occasione per mettere i democratici europei alla berlina, rievocando quanto era accaduto, fra il 1814 e il 1820, nelle Highlands grazie alla sua duchessa, Elisabeth. L’articolo spiega come funziona in concreto il meccanismo di accumulazione originaria, dalla teoria alla pratica; e per questo rimane utilissimo anche oggi.

Pecore al posto di umani

Nel 1814 la duchessa di Sutherland ereditò i vasti territori delle isole; ci vivevano 3.000 famiglie, per un totale di circa 15.000 anime, e la terra era in uso comune, non del singolo agricoltore ma della collettività che abitava il territorio, nel suo insieme. Nessuno pativa la fame, il costo dell’affitto era modesto, sostenibile. Un illuminista scozzese, Dugald Stewart (1753-1828), calcolò che un campo coltivato nelle Highlands forniva sostentamento a un numero di persone dieci volte superiore rispetto ad uno di grandezza identica situato nelle province più ricche del Regno Unito (opere, volume 1^, capitolo XVI).

Purtroppo per gli abitanti l’agricoltura rendeva meno del pascolo alla duchessa, che, fra il 1814 e il 1820, ordinò di bruciare e distruggere i villaggi scatenando l’esercito contro chi resisteva alla deportazione e non esitando a passare i ribelli per le armi. Quindicimila Gaeli furono sostituiti da 131.000 pecore, divise in 29 allevamenti affidati a 29 famiglie (per lo più inglesi) che sostituirono le tremila indigene. I superstiti si videro assegnare seimila acri (poco meno di 15.000 ettari) abbandonati e incolti, ma non più in gestione collettiva bensì dietro pagamento di un elevato compenso per uso solo singolo. Gli esseri umani erano impoveriti, ma i profitti invece risultavano assai cresciuti, con l’aggiunta anche di una rendita fondiaria. La duchessa Elisabeth era una convinta abolizionista, sosteneva le ragioni degli antischiavisti già nei primi anni del suo secolo; evidentemente la filantropia, come ai giorni nostri, cerca beneficiati il più possibile lontani da casa propria!

Dispotismo e accumulazione primitiva

In un arco di tempo ridotto (2020-2023) si sono susseguite e accavallate tre crisi diverse, tutte con effetti e conseguenze di notevole peso per i soggetti che le hanno subite e per l’economia nel suo complesso: pandemia/sindemia, guerra russo/ucraina, banche/moneta/inflazione. Il neo-capitalismo finanziarizzato ha colto l’occasione per forzare le tappe del processo di sussunzione già avviato, attaccando ogni resistenza, ogni possibile opposizione.

L’emergenza sanitaria ha consentito, nel biennio 2020-2021, di limitare il diritto di critica e di sciopero, di accelerare ulteriormente la compressione dei salari e la precarizzazione anche mediante provvedimenti per decreto, di introdurre la delazione (intesa quale dovere civico) nelle comunità territoriali, di aggredire la sanità pubblica consegnando a quella privata ingentissimi profitti con imposizione fiscale agevolata grazie agli accordi europei sul costo del vaccino e sulle modalità di pagamento (ma anche grazie alle convenzioni nazionali sulla cura e sul costo dei farmaci). L’ingerenza dell’autorità, imposta agitando il timore del contagio, si è consolidata in un accettato autoritarismo e questo va evolvendosi in un moderno dispotismo che non ammette forme di reale opposizione o resistenza. Il governo, dentro la pandemia, poteva decidere con totale discrezionalità quel che si era autorizzati a produrre e/o vendere; in quei giorni le imprese della logistica e delle armi non subirono alcun fermo o limitazione, benché depositi e fabbriche si trovassero in località epicentro del contagio, con incremento geometrico dei profitti di quei settori merceologici. Perfino i vaccini e gli autisti furono in qualche modo “militarizzati”.

A seguire, dal febbraio 2022, la guerra in Ucraina ha consentito (e giustificato ideologicamente nella comunicazione) un formidabile attacco alle condizioni di vita dei ceti popolari. L’aumento dei costi dell’energia elettrica è stato il pretesto per una crescita incontrollata del prezzo dei generi di prima necessità, quali pane, pasta e frutta; l’incremento del costo di gestione delle autovetture private e del riscaldamento domestico ha colpito soprattutto i redditi più bassi; in generale i maggiori oneri provocati dalle sanzioni antirusse hanno comportato, per naturale conseguenza, un prelievo a strascico di risorse, sottratte ai meno abbienti, che si è poi concretato in un rilevante allargamento della forbice ricchezza/povertà e, al tempo stesso, in profitti enormi sia per i monopolisti dell’energia sia per quelli dell’industria militare, che già godevano di posizioni privilegiate. Il costo del gas era pari ad Euro 0,084 nel terzo trimestre del 2020, poi era salito ad Euro 0,285 nel terzo trimestre del 2021 (ancora anteguerra), toccando il picco di 1,247 nel dicembre 2022 (dopo l’attentato alle condotte) per poi scendere ad Euro 0,608 nell’aprile 2023 (in regime di tutela). Al termine dell’operazione complessiva (che ha consentito guadagni immensi) il prezzo dell’erogazione rimane comunque almeno sette volte superiore a quello del 2020, ma non troppo dissimile da quello di inizio guerra, segno palese di una crisi fraudolenta. Il conflitto fra Russia e Stati Uniti, trasformato dalla propaganda dei due governi in guerra patriottica, si è risolto in una generalizzata riduzione del livello medio di vita, in un impoverimento complessivo che rende più debole la resistenza dei corpi messi a valore e più forte il dominio sulle esistenze dei subordinati.

Ed ora le conseguenze dei fallimenti bancari americani si vanno legando all’inflazione già in essere durante la guerra, al minor costo del lavoro, alle fluttuazioni monetarie, esaltando uno stato di crisi i cui costi sono risolti con il vistoso ulteriore calo della spesa pubblica, con il taglio di residue forme di Welfare, con sempre più diffuse forme di prelievo che invadono ormai l’area dei trattamenti previdenziali e perfino pensionistici.

Il susseguirsi delle crisi diviene, con sempre maggiore evidenza, lo strumento necessario per attuare il disegno neocapitalistico di finanziare il costo della transizione mediante forme moderne della storica accumulazione originaria. E poiché la violenza assume un ruolo strategico in ogni passaggio di accumulazione c.d. primitiva, non può stupire la scelta di usare la guerra su larga scala territoriale (non solo in Ucraina!) e la coazione come strumento di governo (il dispotismo: quello democratico, quello teocratico, quello liberista, quello del c.d. socialcomunismo reale). In veste nuova siamo di fronte alla formazione violenta del capitale nella transizione.

La questione del salario minimo

Il recente rapporto OIL (Organizzazione Internazionale Lavoro) presentato a Roma il 22 dicembre 2022 conferma il continuo processo di riduzione del salario in Italia; fra il 2019 e il 2022 la fascia di retribuzione più bassa è passata da 9,6% a 10,5%, certificando come anche all’interno degli occupati sia in aumento la povertà. Durante la doppia crisi pandemia-guerra, per la prima volta nel XXI secolo, nel corso del 2022 la diminuzione del salario reale è registrata su scala mondiale, sia pure in piccola percentuale; in Italia l’erosione del salario è stata di 6 punti percentuali (12 punti nel periodo 2008-2022). I dati forniti dall’OCSE nel 2021 (a pandemia in corso) confermano come l’Italia sia l’unico paese europeo in cui le retribuzioni di fatto siano diminuite nel trentennio 1990-2020 (2,9%); per contro la Lituania (che però partiva da una base assai contenuta) mostra una crescita del 276%, la Grecia del 30,5% e la Spagna del 6,2%. Sono in linea i dati ISTAT: fra il 2007 e il 2020 le entrate reali dei lavoratori sono scese almeno del 10%, mentre sono cresciute le imposte a loro carico del 2% e si è invece ridotto l’importo previdenziale a carico delle imprese (4%). Con poche eccezioni nel pianeta lavorare porta meno introiti e lo sciame precario -se si tiene conto del costo necessario per esistere- si avvia verso una povertà democratica (nel senso di ugualitaria) che pone all’ordine del giorno la questione del salario minimo come argine al peggio visibile osservando l’orizzonte.

Le organizzazioni sindacali, con sempre meno iscritti, mostrano segni di evidente debolezza e di propensione al cedimento inteso come male minore (a prescindere dai crescenti episodi di patrocinio infedele o di corruzione, che, per quanto ignobili, non spiegano tuttavia quanto sta avvenendo). La contrarietà del sindacato all’introduzione di una soglia di salvaguardia a tutela di chi vive lavorando viene motivata, in modo per la verità assai poco convincente, con la necessità di non rompere il fronte dei lavoratori uniti, difendendo l’istituto del contratto collettivo ed evitando l’atomizzazione delle retribuzioni. Ma sul campo un simile progetto è rimasto senza riscontro, è apparso senza gambe per camminare, mettendo solo a nudo l’incapacità di reagire al costante attacco del moderno capitale. Significativa appare la pronunzia della Corte d’Appello di Firenze (sentenza n. 68 del 28 marzo 2023) che ha dichiarato la nullità del CCNL sottoscritto da CGIL CISL e UIL per il settore dei Servizi Fiduciari, ravvisando nei minimi retributivi accettati dalle OO.SS. la violazione del precettivo articolo 36 della Costituzione in punto di un c.d. minimo vitale. Utilizzando quale parametro di adeguatezza la soglia di povertà individuata da ISTAT  e esigenze minime di un essere umano vivente in Toscana la Corte (una Corte peraltro tradizionalmente prudente nelle sue statuizioni) ha rilevato che il corrispettivo previsto dal contratto nazionale di settore si collocasse in una fascia inaccettabile secondo i principi della nostra Carta. E’ il segnale di una crisi operativa dell’istituzione-sindacato, di una abdicazione che lascia scoperta la casella di quel ruolo che nel secondo dopoguerra era stato tradizionalmente riconosciuto dai governi occidentali.

È ben vero che il limite dell’art. 36, almeno in astratto, dovrebbe garantire a tutti, senza bisogno di una norma specifica, il salario minimo; ma si tratta in realtà di pura ipocrisia, non è pensabile che per ottenere in concreto il risultato un lavoratore sottopagato debba ingaggiare un legale e rivolgersi, senza risultati certi, a un Tribunale! Dunque si pone come un obiettivo necessario e realistico quello di rivendicare una chiara legge, di poche righe, che imponga una soglia minima inderogabile a compenso dell’ora e della giornata di lavoro effettivo (in tempi di lavoro intermittente, di prestazione da remoto, di esecuzione spesso discontinua il riferimento non può essere solo orario, ma in alternativa anche giornaliero). Non è certamente un programma rivoluzionario, ma, in una situazione di debolezza e di trincea difensiva, pare oggi anche l’unico che può trovare gambe per camminare e conquistare vasta adesione.

La povertà in aumento è una scelta lucida del potere, non un incidente di percorso.

Le crisi che caratterizzano questo terzo decennio del secolo hanno accelerato sia l’allargamento della forbice fra ricchezza e miseria sia l’incremento al momento inarrestabile della quota di soggetti costretti ad un’esistenza indigente. La fascia di povertà assoluta (629,29 Euro mensili, ISTAT, 2021) toccava già 1,9 milioni di famiglie, 5,6 milioni di persone, il 7,5% degli abitanti in quella che Giorgia Meloni chiama nazione italiana (CENSIS, 2 dicembre 2022). La povertà relativa (qui il parametro varia, possiamo collocarla intorno a 826,7 Euro) comprende 2,9 milioni di famiglie, 8,8 milioni di persone, 11,1% del paese. Entrambe crescono senza sosta, l’ISTAT valuta in 18 milioni i soggetti a rischio; il CENSIS (ultimo rapporto sulla situazione sociale in Italia) ritiene, in ragione dei dati acquisiti, che gli individui soggetti al rischio di povertà o di esclusione sociale o in condizioni di grave deprivazione sono ormai il 25,4% della popolazione (uno su quattro), e il 32,4 fra gli stranieri (uno su tre).

Contribuisce all’impoverimento complessivo il costo di un bene necessario quale è la luce elettrica per uso domestico. Le fonti statistiche ARERA evidenziano un costo pari a 18,84 Euro per KW/H nel 2016, sceso a 16,08 nel 2020, poi impennato a 46,3 Euro e a 66,01 Euro nel 2022 (crisi di guerra) per poi assestarsi nel 2023, dopo il prelievo forzato, a 23,75 Euro. Dopo il referendum lo stato, per una sorta di vendicativa ritorsione, ha deliberatamente omesso di investire sulla manutenzione della rete idrica; per conseguenza le perdite aumentano e (in piena crisi di siccità) si collocano ora ben oltre la soglia del 40% (almeno 42% secondo ISTAT) e almeno 18 milioni di residenti non hanno collegamento con la rete. L’Istituto di Statistica segnala che il 28,4% della popolazione non beve acqua di rubinetto perché “non si fida” consentendo all’industria legata a quella minerale un aumento quasi geometrico del profitto, godendo di concessioni scandalosamente a buon prezzo, senza alcuna concorrenza del pubblico. L’impoverimento genera profitto, l’impoverimento crea valore.

Casa e risparmio: il cerchio si chiude

Il rapporto Federproprietari-Censis del 12 dicembre 2022 indica una percentuale di chi vive nella casa di proprietà pari al 70,8%, mentre il 20,5% abita in locazione (la parte residua in usufrutto o per diverse ragioni senza versare corrispettivo). Fra il 2010 e il 2019 il prezzo medio degli immobili è cresciuto del 19,4%, mentre in Italia, proprio per la maggior diffusione della proprietà, è salito meno, del 16,6%. Al tempo stesso, nelle metropoli italiane (e non solo nelle metropoli) cresce la propensione all’investimento immobiliare, attirando capitale estero. Con l’inflazione, e dentro la crisi degli istituti bancari privati americani, il capitalismo contemporaneo aggredisce il risparmio di famiglia (caratteristica molto italiana, per qualità e quantità); con l’aumento dei costi di gestione delle case in concreto abitate e il contemporaneo disegno europeo di ristrutturazione energetica coattiva si prepara l’aggressione a questa ulteriore sacca di resistenza popolare.

La spesa militare – cresciuta fino a 28,7 miliardi, ovvero 1,54% del PIL – assorbe ogni investimento e lo sottrae sia alla sanità, sia alla ricerca, sia ovviamente al c.d. sociale. La crisi di guerra viene evocata per legittimare come inevitabile una scelta che invece la precede, con una continuità incontestabile fra governo Draghi e governo Meloni. La soppressione di quel che residuava del modesto reddito di cittadinanza si colloca con assoluta coerenza nel piano generale in via di attuazione.

Sussunzione formale e sussunzione reale si intrecciano, in attesa che il mosaico del dispotismo che caratterizza questo susseguirsi di crisi dentro la transizione consenta alla seconda di inglobare la prima. La rimozione di ogni sicurezza e il costante incremento dell’area di povertà (relativa e assoluta) sono la via violenta per mettere l’esistenza a valore; ancora una volta la violenza si rivela una forza produttiva. Il fantasma della duchessa Elisabeth Sutherland si aggira in Europa, anzi nel pianeta.

 

NOTE

1. Marx Karl, “La duchessa di Sutherland e la schiavitù”, in Opere, 2021, volume 11, pag. 511, traduzione di Elsa Fubini.

 

Articolo pubblicato in contemporanea su Machina-DeriveApprodi

Articolo tradotto in spagnolo e pubblicato su El Salto