Mercoledì 21 novembre 2018 la Commissione Europea ha bocciato la manovra economica italiana per il 2019. È la prima volta che succede da quando, nel 1999, si è costituita l’Unione Monetaria Europea. L’accusa è di violare le norme relative al controllo del bilancio pubblico. Non si fa riferimento al rapporto deficit/Pil (il cui livello viene fissato al 2,4% negli obiettivi del Def italiano, quindi al di sotto del livello massimo consentito dal Patto di Stabilità – 3%) ma al mancato rispetto del rapporto debito/Pil (il cui limite massimo del 60%  è più che doppio nel caso italiano), con l’argomentazione che proprio per l’elevato debito pubblico, l’Italia deve intraprendere politiche di forte riduzione  anche del rapporto deficit/Pil. Se, quando l’euro è nato, 20 anni fa circa, il 30% dei paesi non rispettava quest’ultimo parametro (Italia, Grecia, Belgio…), oggi il loro numero è più che raddoppiato (alla lista si sono aggiunti Spagna, Portogallo, Francia…). Eppure, è l’Italia il primo paese a rischiare la procedura di infrazione. In questo articolo si analizzano le ragioni del pregiudizio europeo sull’Italia – che non debbono fare dimenticare le ombre sulla manovra italiana stessa

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In un recente articolo pubblicato su Effimera relativo al “Grande business sul debito italiano” e in un contributo di Giovanni Giovannelli, si era posta la necessità di indagare non solo le cause dell’incremento dello stesso debito e le pretese delle autorità europee di “governare” il debito italiano, ma anche affrontare il secondo punto dello scontro in atto tra governo gialloverde e Commissione europea. Ovvero non solo il target del 2,4% del rapporto deficit/Pil ma le stime della crescita economica italiana del 2019, che tale target dovrebbero garantire.

Lo facciamo ora, limitandoci solo alle previsioni di crescita per il 2019.

Secondo il Def governativo, l’economia italiana dovrebbe crescere nel 2019 all’1,5%. Tale crescita dovrebbe rendere realistico un rapporto deficit/Pil in crescita ma non superiore al 2,4%. A tal fine, il governo italiano chiede un incremento del deficit (numeratore del rapporto) di circa 27 miliardi di euro su un valore della manovra complessiva intorno ai 35,7 miliardi. Si tratta di una cifra che potrebbe essere compensata da una crescita, appunto, del Pil dell’1,5% (ovvero, un incremento guarda caso intorno ai 27 miliardi di euro), con un incremento del rapporto debito/Pil che si giustificherebbe prevalentemente per la spesa per interessi.

Già a settembre 2018, tale previsione sembrava non incontrare le stime degli analisti: secondo quanto riportato nel report di Banca d’Italia, infatti, lo stesso istituto di Via Nazionale prevedeva a luglio un +1,2% nel 2018 e ora solo un +1% nel 2019.

Nel mese di luglio 2018, la Commissione Europea (CE) ha rivisto al ribasso le stime sul Pil dell’Italia: per il 2018 vengono limate a +1,3% (da +1,5% previsto a maggio) e nel 2019 a +1,1% (da +1,2% di maggio).

Più recentemente (ottobre 2018), le stime per il 2018 vengono ulteriormente riviste al ribasso al +1,2%.

Si tratta di un dato che viene confermato anche dai dati Istat relativi all’andamento reale del Pil italiano nel III° trimestre 2018, che vede una crescita nulla (0,0%), con un andamento su base annua che scende al + 0,8%. Ed è notizia di questi giorni, la revisione della crescita del Pil per il 2018 a +1,1%.

Come se non bastasse,  a fine ottobre 2018 si aggiunge il Fmi, che stima una crescita del Pil del +1,2% nel 2018 e del +1% nel 2019

[1]. Ma, a differenza di altre stime, le previsioni del Fondo prevedono anche un calo del debito pubblico italiano dal 131,8% del Pil nel 2017 al 130,3% quest’anno e al 128,7% nel 2019: una traiettoria discendente che, secondo il Fmi, dovrebbe proseguire fino al 2023 quando si assesterà al 125,1%.

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Dai dati presentati, tutti di fonte ufficiale, si può notare come vi sia un sostanziale accordo nel ritenere che una previsione di crescita del Pil del +1,5% nel 2019 sia come minimo sovrastimata. Ed è su questa convergenza di previsioni che i media mainstream e le forze politiche più sensibili ai diktat della finanza (Pd in testa e Forza Italia a ruota) auspicano a gran voce una modifica del Def: chiedendo la rinuncia all’introduzione del cd. reddito di cittadinanza (Forza Italia) e la rinuncia alla riforma della legge Fornero (Pd e Boeri, presidente dell’Inps). Tali misure comporterebbero una spesa di oltre 16 miliardi di euro, la cifra necessaria per riportare il rapporto deficit/Pil al di sotto del 2%.

Tuttavia queste prese di posizione sono viziate da un pregiudizio ideologico piuttosto che da un’approfondita analisi dei dati. Sia ben chiaro che le posizioni politiche in materia di immigrazione, repressione sociale, riduzione dei diritti civili e di cittadinanza, aumento dei poteri coercitivi di questo governo, non ci trovano assolutamente consenzienti e ci collocano su un’opposizione dura e radicale. Ma, per quanto riguarda gli aspetti economici, riteniamo che alcune osservazioni più approfondite siano necessarie:

 

  1. Nella previsione di crescita del Fmi, della CE e della Banca d’Italia non è chiaro se siano stati contemplati gli eventuali effetti sulla crescita delle misure che si vogliono adottare nel Def a sostegno della domanda (in particolare, gli effetti della misura del cd. reddito di cittadinanza). Normalmente, i calcoli di previsione sulla dinamica del Pil vengono effettuati sulla base di modelli econometrici che possiamo definire “retroattivi”. Che significa? Semplice: si tratta di simulazioni economiche che si basano su modelli teorici, per lo più effettuati sulla base della metodologia DSGE (Dynamic Stochastic General Model), all’interno dei quali le relazioni tra variabili macroeconomiche sono, seppur in modo stocastico, predeterminate. Ciò significa che eventuali “comportamenti anomali” di alcune variabili (consideriamo ad esempio il consumo) sono descritti da shock esogeni (nel caso del consumo, shock di domanda), e non vengono quindi considerati effetti strutturali. Facciamo un esempio: l’Istat stima che una misura, seppur condizionata e limitata, come il cd. reddito di cittadinanza, in base “a un aumento dei trasferimenti pubblici pari a circa 9 miliardi”, avrà un impatto, una tantum, dello 0,2% sul Pil. “Questa reattività potrebbe essere più elevata, e pari allo 0,3%, nel caso in cui si consideri l’impatto del reddito di cittadinanza come uno shock diretto sui consumi delle famiglie”. Questo impatto sul Pil è stato preso in considerazione? Se non lo fosse, le previsioni, mediamente intorno al +1,1%, potrebbero arriva al +1,3%, +1,4%. A ciò si deve aggiungere la stima degli effetti della riforma della legge Fornero sulla dinamica occupazionale. In questo caso l’incertezza è sicuramente maggiore. Il governo sostiene che ridurre l’età del pensionamento ha come obiettivo l’incremento del turn-over per l’inserimento nel mondo del lavoro dei più giovani. Non ci sono dati al riguardo ed è quindi difficile stimare l’impatto dell’eventuale turn-over. Al riguardo, occorre tenere conto che, nel contesto di scelte strategiche di breve periodo e altamente volatili, data l’attuale situazione congiunturale, il pensionamento anticipato verrà probabilmente utilizzato dalle imprese per dismettere contratti di lavoro stabile o senza alcuna sostituzione  oppure via inserimento di lavoro precario. Sostanzialmente c’è il rischio che la sostituzione non sia tra lavoratore anziano e lavoratore giovane, piuttosto tra salario privato e pensione pubblica. Di conseguenza, gli effetti sulla crescita del Pil saranno sicuramente assai ridotti[2].

 

  1. Nei modelli econometrici di previsioni basati sulla metodologia DSGE, nel calcolo della stima sulla crescita dl Pil, svolge un ruolo importante il cd. output gap, ovvero la differenza (gap) tra Pil potenziale e Pil reale. Il primo indicatore definisce il massimo livello di Pil raggiungibile se tutti i fattori produttivi fossero impiegati al meglio. Il secondo il valore reale del Pil nel corrente anno. Maggiore è la differenza, maggiore è la sotto-utilizzazione dei fattori produttivi e viceversa. Se l’indebitamento netto strutturale è, assieme al debito, il principale criterio di valutazione della solidità dei bilanci pubblici, la stima dell’output gap non è ininfluente. Tanto più alto è il gap tra Pil potenziale e Pil reale, tanto più basso sarà il rapporto tra indebitamento nominale e Pil potenziale. Quest’ultimo dato consente anche di “misurare” la sostenibilità del debito pubblico nel medio-lungo periodo: infatti, se il Pil reale è molto distante da quello potenziale, ciò significa che il paese non ha sfruttato al massimo il suo potenziale e quindi che ci sono spazi per un incremento del Pil che possa ridurre lo stesso rapporto debito/Pil. Ora, è poco noto (se non agli addetti ai lavori, che però su questo punto tacciono) che le metodologie econometriche sottese ai modelli del Fmi e della CE partoriscono dei risultati molto diversi circa la stima del Pil potenziale.

La ragione sta prevalentemente nel fatto che il modello della CE è assai rigido e non considera alcune variabili. Non solo l’Europa è caratterizzata da un’ineguale distribuzione della crescita e dell’occupazione che la espone periodicamente a shock, con seri rischi per la sostenibilità del progetto europeo, ma il modello di misurazione dell’output gap della CE amplia le differenze tra i paesi. Per calcolare il pieno utilizzo del fattore lavoro, la CE utilizza il Nawru (Non-Accelering Wage Rate of Unemployment[3]), mentre  l’Ocse e il Fmi utilizza il Nairu (Non-Accelering Inflation Rate of Unemployment[4]).

Il primo definisce la piena occupazione a quel livello tale da non incrementare i salari; il secondo invece a quel livello tale da non aumentare i prezzi. Per L’Italia, la scelta della CE è particolarmente penalizzante e austera. Negli ultimi anni, infatti, la dinamica dei salari italiani è stata del tutto stagnante. Ciò significa che, poiché i salari sono stabili, il mercato del lavoro è in equilibrio e che, quindi, gli attuali livelli occupazionali in Italia sono quelli “naturali”? Difficile crederlo, visto il tasso di disoccupazione attuale è stabile all’10%. Eppure la acritica adesione alla teoria liberista dell’equilibrio economico generale dinamico (DGE) porta a questa conclusione, a dimostrazione che l’econometria è tutto tranne che una scienza esatta.

Il risultato finale è che, utilizzando l’output gap dell’ultimo rapporto del Fmi e della CE si osserva una differenza nel Pil potenziale assai rilevante. Entrambi stimano nel triennio 2017-19 una riduzione dell’output gap (risultato già di per sé opinabile) ma la differenza tra i due modelli è ragguardevole. L’output gap del Fmi è pari a +1,7% per il 2017, a +1,2% per il 2018 e +0,8% per il 2019; l’output gap stimato dalla CE è pari a +1,0% per il 2017, a +0,3% nel 2018 e, addirittura, a -0,3 per il 2019 (il che significherebbe che il livello del Pil reale risulterebbe superiore a quello potenziale). Per il 2019, quindi, il Pil potenziale stimato dal Fmi è maggiore di quello della CE per un punto di Pil (quasi 18 mld di euro). Non proprio decimali. Qualora il governo italiano utilizzasse il modello del Fmi avrebbe maggiori risorse da spendere per la crescita, mentre nel modello europeo il paese si troverebbe in un regime di piena occupazione (!) e con dei seri rischi di inflazione.

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A parte la considerazione che l’econometria non è mai stata adeguata per governare l’economia e diventa stravagante nelle mani di chi pensa che l’Europa e l’Italia siano da tempo usciti dalla crisi, sino a mettere in discussione l’intero impianto utilizzato dalla CE per “giudicare” i bilanci degli Stati, occorre invece riflettere sui margini di crescita di cui l’economia italiana potrebbe godere.

Dall’analisi effettuata si può concordare sul fatto che la previsione di crescita del Pil pari a +1,5% nel 2019 sia sovrastimata e difficilmente raggiungibile. Tale conclusione deve essere però accompagnata dalla constatazione che i margini di crescita potenziale dell’economia italiana sono più ampi da quelli sottostimati dalla CE. La questione dunque è l’analisi di quali politiche potrebbero (e dovrebbero) essere adottate per meglio sfruttare questi margini di crescita. La discussione si sposta quindi da quella relativa ai vincoli quantitativi (a cui si aggrappano i pasdaran dell’equilibrio di bilancio e dell’austerity, Pd e Repubblica in testa), a quella relativa agli aspetti qualitativi della crescita e della distribuzione del reddito.

Un dato certo emerge: la necessità di adottare una politica espansiva in grado di rovesciare i due tempi della politica economica finora perseguita: prima l’austerity e poi la crescita. Abbiamo visto che nonostante il bilancio italiano abbia maturato negli ultimi 25 anni quasi 800 mld di euro di avanzi primari, il rapporto debito/Pil è comunque cresciuto, proprio per la scarsa dinamica del numeratore. E ora di sperimentare politiche economiche che, pur favorendo inizialmente un incremento del debito, creino però i presupposti per una successiva ripresa dell’accumulazione. Ricordiamo che una delle regole del capitalismo è che non c’è accumulazione senza indebitamento.

La vera domanda da porsi diventa così la seguente: le misure adottate dal Def sono sufficienti a creare i presupposti per la ripresa dell’accumulazione? L’assenza di misure di struttura – investimenti pubblici e investimenti in Ricerca e Sviluppo – a vantaggio di misure correnti pone degli interrogativi circa la solidità della politica economica dell’attuale governo. Come più volte ricordato, domanda e offerta sono due facce della stessa medaglia che nel tempo cambiano il contenuto tecnologico con la crescita del reddito (Legge di Engel)[5]. Sebbene il Paese abbia un urgente bisogno di misure capaci di ridurre la povertà, la politica economica dovrebbe perseguire il governo dei grandi cambiamenti di struttura che il Paese deve affrontare. E tra questi vi è soprattutto la necessità di politiche strutturali a sostegno della domanda, non solo di investimenti ma anche di consumi. A quest’ultimo riguardo, potrebbe essere un buon inizio proporre l’introduzione di un salario minimo e forme di reddito di base che non si declinino come forme di coazione al lavoro e di controllo sociale ma piuttosto in grado di favorire  un più ampio accesso alla sicurezza sociale e una maggior libertà di scelta per incrementare quelle economie di apprendimento e di rete che oggi stanno alla base della crescita della produttività sociale. La critica maggiore che facciamo alla Legge di Bilancio 2019 non è l’innalzamento del rapporto deficit/Pil ma  proprio l’assenza di una politica economica coerente con le sfide che il Paese deve affrontare, con una avvertenza: i precedenti governi non hanno mostrato una sensibilità molto diversa sul tema.

P.S. La rigidità della Commissione Europea nel bocciare il Def e accettare, in cambio,  solo revisioni che hanno come obiettivo il rifiuto di adottare politiche, seppur limitate, di sostegno alla domanda, in nome dell’ortodossia che solo politiche di sostegno alle imprese sono accettabili, favorisce la crescita dell’incertezza e fomenta l’attività speculativa. I dati più recenti sulle vendite dei titoli di stato italiani  mostrano come sia in atto una convenzione speculativa al ribasso che alimenta lo spread, oramai stabilmente sopra quota 300. Si vende oggi, alimentando la svalutazione dei titoli di Stato, per comprarli poi domani ad un valore più basso e lucrare la differenza. Tale gioco speculativo, che abbiamo già visto operare più volte (in Italia nel 2011 e in Grecia nel 2010, per opera, rispettivamente, della Deutsche Bank e della Goldmann Sachs), è favorito proprio dalla rigidità europea. Prima si attira il lupo e poi si grida: al lupo, al lupo[6]! Ma gli effetti non sono indolori. Il rischio, oltre all’aumento della spesa per interessi, è l’aumento dei tassi d’interessi sui prestiti e sui mutui e la svalutazione del capitale sociale delle banche italiane, già di per se stesse sottocapitalizzate per l’insipienza dei  propri dirigenti e la commistione con gli apparati politici. È la classica “spada di Damocle”, o in altri termini, il “bieco” ricatto dei potentati finanziari, contro i quali le illusioni populiste e sovraniste  rappresentano  solo una semplice foglia di fico. È possibile oggi contrastare il potere dell’oligarchia finanziaria? Qui sta il punto.

 

NOTE

[1] Si tratta dei tassi di crescita più bassi nell’Ue, nonostante la revisione al ribasso delle stime per Germania e Francia.

[2] Al momento non c’è nessun provvedimento legislativo ed è difficile valutare chi, che cosa e come interverrà la riforma previdenziale. Inoltre, le stime del governo sui costi, come quelle del presidente dell’INPS, sono parziali. Sul punto si possono leggere i contributi di Felice Roberto Pizzuti su www.sbilanciamoci.info: ad esempio qui.

[3] Tasso di disoccupazione che non fa aumentare i salari. Per avere un quadro completo si può consultare qui. È disponibile anche il modello econometrico applicato che utilizza la CE ed è riferimento per i ministri competenti.

[4] Tasso di disoccupazione che non fa aumentare i prezzi. Per una rassegna sul tema si veda: Economics Department OCDE, 2009, ADJUSTMENTS TO THE OECD’S METHOD OF PROJECTING THE NAIRU.

[5] R. Romano e S. Lucarelli, 2017, Squilibrio, Ediesse.

[6] In realtà, il parallelo non è corretto: i lupi sono animali decisamente più buoni e accoglienti!