La dinamica geopolitica e geoeconomica è in costante metamorfosi. Ma se lo scacchiere economico globale sembra oggi più orientato verso una crescente supremazia economica, tecnologica e logistica della Cina a scapito degli Usa e dell’Europa, non altrettanto si può affermare per l’ordine geopolitico internazionale. La Cina, dopo essere diventata l’economia a tecnologia più avanzata in molto settori, essendo in grado di controllare le rotte globali della logistica e del trasporto, sta ora insidiando la leadership Usa nello sfuttamento dei Big Data e nelle biotecnologie  e in un futuro prossimo potrebbe rovesciare il primato finanziario di Wall Street.

Sul piano politico, tuttavia, la situazione è più complessa. Nonostante le apparenze, un nuovo bipolarismo si sta affermando all’interno dei rapporti capitalistici internazionali tra un asse australe, capitanato dalla Cina, con India, Sud  Africa e  Brasile (seppur in crisi)  a sostegno (lo sviluppo intra-commerciale tra questi paesi  in forte ascesa), e un inedito asse boreale, fondato sulla trinità Usa (Trump) – Gran Bretagna (uscita dall’Europa)- Russia (Putin).  Si tratta di una crescente tensione capitalistica tra un Nord e un Sud del mondo, ovviamente non più riconducibile alla tradizionale dialettica degli anni Settanta tra “sviluppo-sottosviluppo”.

In questi giorni, gli incontri di Donald Trump con Theresa May (la firma di un patto di libero scambio tra Usa e GB in funzione anti-europea) e con Vladimir Putin per suggellare una condivisione di interessi strategici in opposizione alla Cina sembrano confermarlo. Va in questa direzione la guerra commerciale che Trump ha iniziato a muovere effettivamente all’Europa (introduzione dei dazi su acciaio e alluminio) e costantemente minaccia contro la Cina  (che ha, a dfferenza dell’Europa, armi più potenti di risposta) .

Contemporaneamente, sempre in questi giorni, una delegazione europea si è incontrata con le massime autorità cinesi e un nuovo trattato di libero scambio è stato firmato tra Europa e Giappone.

La situazione è quindi in fase di ebollizione, alla ricerca di un equilibrio che oggi appare assai improbabile. Per questo l’intervista a Martin Jacques (grande conoscitore della realtà cinese) è di estrema importanza, soprattutto perché ci consente di segnalare l’incapacità europea di capire da che parte stare in questo nuovo conflitto, così da evitare il proprio stesso declino. Si tratta di una fase nuova, dove i principi della “democrazia” non contano più (tramortiti, da quando il liberalismo economico è diventato egemone) e nuove armi di “distruzione di massa” (militari ed economiche) si affacciano all’orizzonte (A.F.).

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Se la crisi finanziaria globale ha simboleggiato il declino dell’Occidente, ha anche lasciato intendere che il futuro appartiene alla Cina – una superpotenza che “comprende” il mondo in via di sviluppo meglio di Stati Uniti, FMI o Banca Mondiale, secondo Martin Jacques

Yohann Koshy: come ha reagito la Cina alla crisi finanziaria globale?

Martin Jacques: Si trattava essenzialmente di una crisi occidentale, ma la Cina ha dovuto rispondere perché i mercati americano ed europeo, dai quali era abbastanza dipendente, all’inizio sono andati molto male. E lo ha fatto con un grande programma di stimolo economico. Ha immesso elevate quantità di moneta nell’economia con l’effetto che la crescita cinese, seppur diminuita leggermente, è rimasta comunque molto alta, passando dal 9 – 10 per cento durante il periodo di crisi al 12 – 13 per cento nel biennio successivo.
Nel lungo periodo, di fatto ciò che è successo è stato il tentativo di spostare il centro di gravità dell’economia cinese. Nel 1978, l’economia della Cina era un ventesimo rispetto alle dimensioni dell’economia statunitense. Le riforme dei decenni successivi hanno favorito la crescita  di un’economia trainata dalle esportazioni, dipendente dal lavoro a basso costo che proveniva da potenti movimenti migratori dalle campagne alle principali città, con, ovviamente, un forte contributo da parte dello stato.
Ma dopo la crisi finanziaria, si è andati verso un’economia sempre più trainata dal consumo interno rispetto quello estero, con una dipendenza molto maggiore da ricerca & sviluppo e con un tasso di crescita più basso. La “nuova normalità” [in cinese xin changtai, formula ufficiale, ndt] del tasso di crescita è tra il 6,5 e il 7 per cento, tasso che la Cina ha poi mantenuto fino ad oggi. Ma quando un’economia sta crescendo a quel ritmo, date le dimensioni dell’intero paese, l’impatto globale è ancora enorme: dalla crisi finanziaria occidentale in poi, la Cina ha cotribuito a una percentuale compresa tra il 40 e il 50% della crescita globale. Senza l’economia cinese, l’economia globale sarebbe nei guai.

La Cina potrebbe seguire la via della finanziarizzazione come le economie occidentali? A Blackrock, il potente hedge fund, è stato recentemente concessa una licenza per iniziare a operare.

Non penso che il permesso concesso a Blackrock vada in questa direzione. Penso che i cinesi siano fortemente contrari a percorrere questa strada. Certo, hanno bisogno di un forte settore finanziario. Devono sviluppare i mercati dei capitali [da cui è possibile raccogliere denaro per gli investimenti]. Ma il fatto è che l’economia cinese è molto diversa dall’economia americana. Ha ancora un’enorme capacità produttiva, dà enfasi all’importanza del lavoro scientifico e tecnico. Lo Stato è fondamentale per il modo in cui funziona l’economia cinese. Rispetto alle economie occidentali, i cinesi sono stati molto più capaci di gestire anche gli interessi particolari. Il settore bancario è diventato [dominante] all’interno delle società occidentali durante il periodo neoliberista, dalla fine degli anni ’70 fino alla crisi finanziaria. Mi sembra ci siano poche prove che ciò stia accadendo anche in Cina.

E quando Mark Carney dice di essere preoccupato per il sistema bancario ombra in Cina…

Il principale problema del debito in Cina è il debito societario. Il sistema bancario di stato, ma in una certa misura anche il sistema bancario ombra, ha accumulato indebitamento perché è spesso intasato di schemi, piani e investimenti che non sono così solidi e il cui peso è cresciuto. Ma non è lo Stato ad essere indebitato, come negli Stati Uniti o in Gran Bretagna,… Quindi è un problema, ma è un problema interno, piuttosto che esterno. Per quanto riguarda  le piccole economie asiatiche, lo Stato  durante la crisi finanziaria asiatica [negli anni ’90] deteneva elevate attività in valute estere che poi si sono velocemente svalutate (ad esempio, la crisi del Baht thailandese nel 1997, ndt.) con l’effetto che i loro debiti sono aumentati rapidamente.
Inoltre, la stessa popolazione cinese non è indebitata. Tendono ad avere enormi risparmi, che è una delle ragioni alla base della solidità finanziaria del Paese … Occorre riconoscere che la gestione economica dell’economia cinese è stata davvero notevole. Sono andati avanti per 35 anni senza una grave crisi. Non c’è paragone con l’Occidente!

Un fattore chiave fondamentale, dal momento del crollo, è la creazione da parte della Cina della Nuova Banca di Sviluppo (Ndb) e della Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture (Aiib), a cui hanno aderito anche la Gran Bretagna e la Germania, con grande dispiacere degli Stati Uniti. Perché sono state create queste alternative alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale?

Dopo il 2007-08, i cinesi si sono resi conto … che non potevano fare affidamento sul fatto che gli interessi dell’economia statunitense e dell’economia globale coincidessero. Hanno dovuto creare proprie istituzioni. Gli americani avevano per altro anche puntato i piedi sulla riforma del FMI perché volevano mantenerne il controllo.
In questa situazione, non hai bisogno di istituzioni come il FMI e la Banca mondiale, che sono essenzialmente istituzioni occidentali e la cui funzione principale è servire le economie occidentali. Hai bisogno di qualcosa con una visione del mondo molto più ampia e inclusiva … Ecco perché sono nate la Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture, la Nuova Banca di Sviluppo (la banca dei BRICS), e vedremo uno sviluppo ancora maggiore con l’iniziativa Belt & Road [un massiccio programma di infrastrutture che mira a migliorare la connettività tra Europa, Medio Oriente, Asia e Australasia]. In futuro, la leva per la trasformazione globale sarà questa Belt & Road Initiative (Bri).

Che gli investimenti cinesi siano stati ben accolti dai governi è comprensibile. Tuttavia, in Ecuador ci sono comunità indigene che protestano contro rapaci società minerarie cinesi. In Gambia, i pescatori locali sono schiacciati da imprese cinesi. A livello morale e politico, la Cina come dovrebbe gestire queste lotte? Perché non c’è sviluppo senza conflitto.

Hai ragione: c’è sempre conflitto nello sviluppo. La Cina è velocemente diventata sempre più presente in molti paesi in via di sviluppo. Da un lato, ciò ha garantito una domanda sempre maggiore per i produttori di materie prime [nei paesi più poveri] – dal petrolio ai metalli come il minerale di ferro – e questo ha avuto un forte impatto sulle loro economie. D’altro lato, la Cina ha portato anche una grande competizione in molti settori e questo può avere effetti negativi. Ci sono molti esempi in cui, nel manifatturiero di fascia bassa, la Cina ha vinto la competizione con le imprese dei paesi in via di sviluppo [espellendole dal mercato, ndr] che non possono sfruttare l’economia di scala e il livello di investimento necessari per competere.
In termini di relazioni con luoghi come l’Africa e il Sud-Est Asiatico, le aziende cinesi hanno avuto un ruolo importante nello sviluppo di attività produttive in luoghi come l’Etiopia, che in generale non le avevano mai avute prima. Penso che le relazioni della Cina con l’Africa siano state fondamentalmente molto positive. Non sto dicendo che non ci siano stati problemi. Ad esempio, c’è un forte risentimento verso le aziende cinesi che importano manodopera cinese per alcuni progetti infrastrutturali. Ma la ragione per cui ritengo che la presenza cinese sia stata decisamente positiva è che la Cina ha creato una nuova fonte di domanda per i produttori di materie prime africani. Ciò significa che hanno smesso di essere dipendenti solo dalla domanda occidentale; si è creato un mercato concorrenziale, che ha fatto crescere il prezzo delle materie prime durante quel periodo e ha fatto sì che si siano trovati in una situazione economica migliore.
In secondo luogo, ed è per questo che sono profondamente contrario all’idea secondo cui la Cina è la nuova potenza coloniale in Africa, la Cina comprende il problema dei paesi in via di sviluppo [in quanto paese di recente sviluppo, ndr]. Uno dei maggiori problemi è la costruzione di infrastrutture che forniscano trasporti, energia e le basi per un’economia più avanzata. Ciò che la Cina ha fatto in tutti i principali paesi africani è stato fornire sistemi stradali, ferrovie e così via. Per i cinesi lo sviluppo è tutto.
La Cina non si è sempre comportata bene. Se prendi il Myanmar, Pechino è stata troppo vicina al regime militare [che sta perseguitando i Rohingya] e una debolezza dei cinesi è … che spesso arrivano in nuovi paesi senza avere la necessaria sensibilità rispetto all’opinione pubblica locale. Questo è sicuramente successo in Myanmar e in Sri Lanka. Quindi quelle tensioni sono reali e importanti. E senza dubbio i cinesi faranno altri errori. La domanda è: stanno imparando da questi errori? Così ora stanno cercando di imparare come comportarsi con la società civile degli altri paesi, perché loro non ce l’hanno una società civile come quella della maggior parte degli altri paesi.

Finiamo con gli Stati Uniti. Cresce l’aggressivitò tra le due superpotenze. Tuttavia, le loro economie dipendono l’una dall’altra. La Cina possiede più debito USA, sotto forma di buoni del Tesoro, rispetto a qualsiasi altro paese, il che a sua volta consente agli Stati Uniti di spendere oltre i propri mezzi e acquistare i prodotti cinesi. È sostenibile?

In Occidente c’è difficoltà a comprendere la Cina. Basta ascoltare BBC Today o leggere The Guardian: c’è poca coscienza del cambiamento che si sta verificando nel mondo. Quanti articoli trovi sulla Belt & Road Initiative (Bri), cioè il più importante progetto globale della nostra epoca?
Ironia della sorte, Trump è stato il primo politico americano a rendersi conto del declino degli Stati Uniti: questa è la premessa di “Make America Great Again”. Tuttavia, la sua speranza di poterlo invertire è un’illusione. Sono convinto che ci sarà una guerra commerciale, ma non si potrà fermare l’ascesa della Cina. Sono in corso profondi processi storici, proprio come fu per l’ascesa dell’Europa nei secoli XVI e XVII. Quindi l’America deve fare i conti con l’ascesa della Cina e rinegoziare la sua relazione con la Cina. Per dare una risposta alla tua domanda bisogna chiedersi: l’Occidente come gestirà il proprio relativo declino?

 

Intervista originariamente pubblicata su The New Internationalist.  Martin Jacques, ex redattore di Marxism Today, è l’autore di When China Rules the World (Penguin, 2009).

Traduzione in italiano di Andrea Fumagalli e Gabriele Battaglia.

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