Abbiamo recentemente pubblicato la recensione di Giorgio Griziotti al libro di Maurizio Lazzarato di recente uscita per DeriveApprodi: “Il capitalismo odia tutti. Fascismo o rivoluzione”. Oggi su Il Manifesto ne esce una versione ridotta, accompagnata da un’altra, più critica, di Benedetto Vecchi. Continuiamo anche noi la discussione, con un pezzo di Giuliano Spagnul.

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Giorgio Griziotti, nella recensione all’ultimo libro di Maurizio Lazzarato[1], si (ci) chiede dove sta l’errore, quell’errore alla base “della sconfitta storica del post ‘68”. Una sconfitta la cui portata, col passare dei tempi, sembra aggravarsi sempre più a causa di quel suo mix tra sconfitta politica e sconfitta teorica. Il libro di Lazzarato “ci ricorda come nel secolo scorso masse di quasi analfabeti siano riuscite a compiere rivoluzioni in paesi poveri e colonizzati (…) mentre oggi il tanto celebrato General Intellect, all’origine dei nuovi paradigmi tecnologici” subisce nell’impotenza l’ascesa del fascismo (vecchio o nuovo 2.0 che sia). È un limite delle teoriche postsessantottine che va dai nomi richiamati nell’articolo: Foucault, Deleuze, Negri, Agamben, ma che potrebbe proseguire con quelli (oggi molto seguiti) di Haraway, Stengers, Latour. Da questi presupposti, il merito di questo libro sta, per Griziotti, nel “farci comprendere che il problema è essenzialmente politico”. Se le masse semianalfabete sono riuscite a promuovere eventi rivoluzionari di portata mondiale (non importa come siano andati a finire, ci hanno provato e questo, eccezion fatta per eventuali rivoluzionari da salotto, dovrebbe ben bastare) allora l’errore, che stiamo cercando, non può che trovarsi altrimenti che nel politico. Non è qui il problema di quanto corrisponda questa recensione al libro, sono i temi così esposti da Griziotti ad essere importanti e decisivi nella loro secchezza di esposizione che il carattere recensorio ha il pregio di offrirci. Sono problemi e angosce che caratterizzano tutti noi in quest’epoca attanagliata da quella montante depressione a cui Mark Fisher ha saputo, suo malgrado, delineare la nuova fisionomia di un’immaginazione non più desiderosa di andare ‘al potere’ per trasformare il mondo, ma di stare a guardare come il potere distrugge il mondo. In un qualche modo, anche se con accenti diversi, tutti noi siamo presi da quest’ansia di individuare dove si è sbagliato; quali errori, ma ancora meglio, quale errore. Individuare quello che è stato decisivo nel farci impantanare dentro il campo, dentro la palude definitiva, della sconfitta. Ma poi Griziotti ci dice che anche il capitale ha fatto un errore, e grosso. E cioè di aver confidato troppo nelle possibilità dell’avvento di quella biopolitica, preannunciata da Foucault e coadiuvata dai nuovi dispositivi tecnologici: “Se è vero che lo smartphone che ci portiamo addosso è il dispositivo di rete biopolitico per eccellenza, pare ormai evidente che questo regime reticolare neoliberista non riesce ad imporre una sussunzione vitale generalizzata (solo) tramite questi strumenti.” Ora, a parte questa visione un po’ estremizzata di una biopolitica alla Orwell o alla Huxley che non considera la necessaria convivenza di forme plurime di potere (poteri come quello disciplinare, per esempio, continuano per Foucault a sussistere a fianco di quello biopolitico), c’è qui una specie di sopravvalutazione e contemporaneamente sottovalutazione di ciò che gli strumenti della rete biopolitica stanno facendo. Non sono strumenti di potere coercitivo che ci possono costringere a fare quello che non vogliamo fare; sono delle sottili e micidiali aperture che fendono i nostri corpi rendendo le nostre interiorità terreni produttivi a diverse tipologie di colture. È un grande, enorme esperimento che non ci vuole solo addestrati a obbedire ma anche sempre capaci di pensare, reagire e finanche resistere. L’importante  è che tutto questo sia alla fine governabile e che renda il potere ancora più forte e capace di perpetuarsi all’infinito. Il potere, abbiamo cominciato a capirlo grazie a Foucault, grazie a Marx, ha un rapporto “positivo” con la libertà. Dà libertà ai propri amministrati per potersela riprendere con gli interessi. Un’idea ostica per quelli come noi abituati a considerarci solo oppressi. Marshall Berman nel suo, peraltro, splendido libro Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria(2) contesta a Marx proprio questo:  per Marx “L’amorale principio del libero commercio obbligherà la borghesia a concedere anche ai comunisti il diritto fondamentale di cui godono tutti gli uomini d’affari, il diritto di offrire, di promuovere e di vendere le proprie merci a tutti i clienti che riescono ad attrarre. Così in virtù di quella che Marx definisce ‘libera concorrenza nel campo conoscitivo’ perfino alle opere e alle idee più sovversive – come allo stesso Manifesto – deve essere concesso di uscire, semplicemente perché possono avere mercato. (…) Di conseguenza, Marx, a lungo andare, riesce a convivere con il nichilismo borghese, perché lo considera un nichilismo attivo e dinamico.” Una visione del potere  che esula dalla classica visione puramente coercitiva non può che essere, suo malgrado, complice. È così che, ancora per Berman, “Foucault offre ad una generazione di sopravvissuti degli anni Sessanta un alibi storico-pratico per giustificare il senso di passività e d’impotenza che ha colto tanti di noi negli anni Settanta.”  È sempre la disfatta teorica di cui si parlava più sopra. Ovviamente le libertà offerte dal potere sono sempre di forme diverse, a seconda del tipo di potere egemone in un dato periodo storico. Il potere ecclesiastico, ad esempio, è stato capace di concedere, se non proprio sollecitare, libertà inaudite, come quella di permettere a un artista come Caravaggio di fare opere blasfeme, prive di trascendenza e piene di carnalità peccaminose, e addirittura di alzarle alla dignità di pale d’altare[3]. Finito il momento critico di passaggio alla controriforma, con la sua nuova concezione della carne e dello spirito, Caravaggio ha potuto essere dimenticato per i secoli successivi fino a una sua rinascita in un momento altrettanto critico ma con una affatto diversa modalità di fruizione da parte di un pubblico di fedeli di una nuova religione solo apparentemente più laica. All’interno di tutto questo c’è sempre, ovviamente, anche il fascismo, quella forma di dominio esplicita, brutale ma anche fragile e di durata breve che si rende necessario in momenti critici e comunque sempre paventato come possibile. E in questo fascismo vi sono fascismi nuovi, più soft, più sottili e pervasivi, ma altrettanto violenti. Non più stivaloni neri a passo di marcia ma cori razzisti e incendi e violenza singola e di massa; nella continuità, questo sì, di nutrire e nutrirsi di quella paura che alberga nel più profondo di tutti noi. La stessa di quegli ominidi neri nostri antenati delle savane africane dai quali ci separa (dal punto di vista geologico) una brevissima temporalità. Ma torniamo all’errore, a questo tarlo che Griziotti ha insinuato nella nostra mente. Dove cercare l’errore? Ma innanzitutto cosa è l’errore, almeno per quel che ci riguarda in quanto antagonisti, rivoluzionari o, sempre che abbia ancora un senso, di sinistra? Georges Canguilhem, nella sua scrittura fulminante, ci dice che “la verità è una specie di errore, nel senso di illusione vitale, senza la quale una certa specie di viventi, gli uomini, non potrebbero vivere” [4]. Anche la verità di chi ha combattuto contro il potere dominante potrebbe considerarsi un’illusione, per quanto vitale? La speranza di libertà degli schiavi che si ribellavano contro il potere, non avendo nessuna verità da contrapporre a quella di un mondo diviso in schiavi e padroni, non poteva che essere sconfitta a prescindere dalla forza delle armi. Occorre una verità come quella che gli uomini sono tutti uguali e che di conseguenza sia possibile un mondo dove tutti siano liberi, per avere la possibilità di una vittoria concreta, che cambi, comunque, lo stato delle cose. Sono le diverse forme di utopie che hanno reso possibile ai dominati di rendersi agenti visibili di una controstoria. Ma se oggi questa verità si è disvelata nella sua essenza di errore, se l’illusione ha spento la sua forza vitale perché il potere ha saputo costruire, di par suo, illusioni ancora più vitali, come possiamo noi pensare di resistergli, combatterlo, finanche pensare di vincerlo? Se i movimenti dell’inizio del XXI secolo non riescono a trovare una strategia, come lamenta Griziotti (e in questo non è certo solo) forse non sarà perché nessuna strategia è più possibile, se non, come avverte, la Stengers, coprendosi di ridicolo in quell’essere “convinti che tutto il futuro debba svolgersi alle condizioni che hanno posto loro” [5]? Non possiamo sapere quali istanze ed esperimenti fruttiferi siano in gestione in questi movimenti, ma possiamo guardare e cercare di aiutare, senza ambizioni strategiche, consci che questi non sono altro, come ha giustamente osservato Philippe Descola, che “esercizi di futuro” [6]. E in una fase storica in cui il futuro ha cessato di essere vettore di trasformazione se all’interno di questi movimenti, come diceva Antonio Caronia “si riapre la questione del futuro” [7] anche per qualche istante, per qualche momento, allora possiamo ancora pensare e combattere perché un nuovo potente errore possa ancora divenire reale.

 

Note

[1] Maurizio Lazzarato, Il capitalismo odia tutti, DeriveApprodi, 2019

[2] Marshall Berman, Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria, Il Mulino, 2012

[3] http://www.labottegadelbarbieri.org/la-vera-natura-di-caravaggio-di-tomaso-montanari/

[4] Georges Caunguilhem, Sulla scienza e contro la scienza in Scritti filosofici, Mimesis, 2004

[5] Isabelle Stengers, Cosmopolitiche, Sossella Editore, 2005

[6] Intervista a Philippe Descola https://www.antropologialimentare.it/antropologia-culturale/lantropologia-secondo-philippe-descola-lecoantropologia/

[7] http://www.palazzoducale.genova.it/audio/2011/cittaevoluzione/20111215_caronia.mp3

 

 

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