Nella disputa sull’inizio dell’Antropocene è già stata proposta, fra tante, una data netta, il 16 luglio 1945, quando il Trinity test esplose la prima bomba nucleare nel deserto di Alamogordo 

[1] inaugurando l’Era nucleare. Mi sembra tuttavia, dalla mia documentazione, che questa datazione non sia stata molto ripresa, e comunque non approfondita come dovrebbe essere: anzi il Manifesto Ecomodernista, promosso da una rete di think-tanks, centri di ricerca e istituzioni finanziarie, propone niente meno che l’adozione diffusa dell’energia nucleare, dei cibi geneticamente modificati e della geoingegneria come soluzioni definitive ai cambiamenti climatici [2].

Vorrei qui prendere una posizione molto netta contro quest’ultima tesi, e documentarla. Con questo, sia chiaro, non intendo esprimermi sul problema della datazione dell’Antropocene-Capitalocene. Il mio modesto parere – che riflette posizioni ampiamente espresse nel dibattito in corso – è che sia stato l’avvio della Prima Rivoluzione Industriale del XVIII secolo in Inghilterra ad inaugurare una svolta epocale nello sfruttamento e mercificazione della Natura e delle sue risorse, dando l’avvio a processi di produzione di merci realizzati in condizioni di temperatura e pressione, e attraverso reazioni chimiche artificiali, che l’ambiente naturale terrestre non è in grado di degradare [3]. Da questo punto di vista non ho alcun dubbio che l’Era nucleare abbia costituito una svolta estrema: una svolta con caratteristiche definitivamente irreversibili (con buona pace di coloro che cercano nel nucleare una soluzione!), ma che io vedo come un’accentuazione (un salto di qualità) del processo avviato dalla Rivoluzione Industriale Capitalistica (processo ovviamente tutt’altro che lineare, che si è sviluppato attraverso una serie di svolte negli sviluppi scientifici e nelle innovazioni tecnologiche in corrispondenza con i cambiamenti della struttura economica e sociale).

Quello che qui voglio argomentare è che l’Era nucleare ha realizzato processi e prodotti artificiali che la Natura sulla Terra non è, e non sarà, assolutamente in grado di eliminare per i prossimi secoli: i problemi che ha creato non hanno soluzione, e continueranno ad aggravarsi tanto più quanto più il nucleare, civile e militare, verrà sviluppato (gli armamenti nucleari, poi, mantengono e aggravano il rischio epocale di soppressione della società umana tout court). Da anni sostengo che il nucleare è una strada senza uscita e senza ritorno: una volta imboccata essa genera necessariamente prodotti artificiali che non sono eliminabili in alcun modo, sono estremamente pericolosi per la salute e l’ambiente (oltre a perpetuare rischi di proliferazione militare), e non possono essere custoditi in modo assolutamente sicuro.

Queste affermazioni hanno un fondamento nelle leggi della fisica nucleare e non dipendono dalla scoperta di future tecniche innovative, e per argomentarle dovrò addentrarmi inevitabilmente anche aspetti di natura tecnico-scientifica, nei termini più semplici possibili.

Devo premettere una precisazione. Dalle mie considerazioni sono escluse le applicazioni mediche della fisica nucleare: non ho le competenze per parlarne, ma una cosa che posso senz’altro affermare è che ogni medico oggi è consapevole che qualsiasi uso di radioisotopi o di radiazioni ionizzanti a scopo terapeutico o diagnostico ha inevitabilmente degli effetti dannosi sull’organismo e la salute, e il ricorso ad essi va fatto solo in casi di comprovata necessità e con una rigorosa valutazione del rapporto costi-benefici. Inoltre i rifiuti nucleari ospedalieri (ancorché inevitabili) costituiscono anch’essi un problema molto serio.

 

Scale di energia incommensurabili

È opportuno partire da un primo aspetto, necessario per comprendere tutti gli altri. Che cosa hanno i processi nucleari di così diverso dagli altri processi che avvengono nell’ambiente naturale terrestre? Senza entrare in troppi dettagli tecnici, gli atomi sono composti secondo le concezioni moderne da un nucleo centrale, composto da protoni e neutroni, circondato da elettroni esterni [4]. Gli elettroni esterni sono responsabili di tutte le reazioni chimiche, le quali non toccano in alcun modo il nucleo dell’atomo. Il punto determinante è che il nucleo dell’atomo per venire modificato richiede energie dell’ordine del milione di volte di quelle che sono in gioco nella transizioni degli elettroni esterni: qui sta la radicale differenza fra processi chimici, che coinvolgono gli elettroni esterni, e processi nucleari; banalmente il motivo per cui le bombe atomiche sono enormemente più potenti degli esplosivi chimici (dinamite, tritolo e via dicendo).

Questa elementare nozione è alla base di tutte le considerazioni che seguono. Le radiazioni nucleari, cioè emesse nella trasformazioni dei nuclei, possiedono energie dell’ordine del milione di volte rispetto alle radiazioni emesse nelle transazioni elettroniche, che sono di natura elettromagnetica: queste ultime sono necessarie alla vita sulla Terra (il che non esclude che possano essere dannose, i raggi ultravioletti, di energia più alta della radiazione visibile, possono avere effetti cancerogeni, e senz’altro i raggi X [5]), mentre le radiazioni nucleari (alfa, beta, gamma) ionizzanti [6] hanno sempre sulle cellule viventi effetti devastanti.

Si deve precisare, senza entrare in troppi dettagli, che sulla Terra avvengono certo processi nucleari, dovuti ad isotopi naturali instabili (radioattività naturale), che comunque non sono esenti da effetti nocivi: le rocce per esempio contengono il gas radon radioattivo, vi sono infatti programmi di monitoraggio e si sconsiglia l’uso di certi materiali da costruzione perché contengono quantità rilevanti di radon. In ogni caso alla radioattività naturale siamo esposti tutti. Tuttavia sulla Terra i processi nucleari hanno solo un ruolo marginale, proprio perché tutte le trasformazioni sono di natura chimica e mettono in gioco nei processi individuali energie dell’ordine del milionesimo rispetto ai processi nucleari: il Sole e le stelle utilizzano le reazioni nucleari, avendo al loro interno temperature di milioni di gradi [7]. Ma dagli anni Trenta si realizzarono acceleratori di particelle cariche che raggiunsero energie sufficienti ad attivare reazioni nucleari, producendo nuclei artificiali, che non esistono in natura e sono altamente instabili (radioattivi) e si disintegrano emettendo radiazioni nucleari ionizzanti.

La produzione di isotopi e reazioni nucleari che non esistono in natura è poi divenuto un fatto massiccio con la realizzazione delle bombe nucleari e poi dei reattori nucleari.

Questa è la ragione di fondo dell’incompatibilità dei prodotti dell’Era Nucleare con i processi naturali dell’ambiente terrestre, e quindi l’impossibilità di risolvere i problemi che essa ha generato e continua e generare.

Dico subito che posso immaginare l’obiezione che possono muovermi certi colleghi, dei quali conosco bene (e ho criticato per decenni) la cieca fiducia nel potere della Scienza, la quale sarà capace di risolvere qualsiasi problema [8] (tanto per fare un esempio, “bruciare” le scorie nucleari in appositi reattori, ovviamente nucleari). Qui devo forzatamente limitarmi a dire che non sarei assolutamente d’accordo: qualsiasi processo nucleare è destinato – proprio per le energie a cui avviene – a produrre altri prodotti nucleari instabili. Come si brancoli nel buio su questi problemi può essere testimoniato dalla proposta che era stata avanzata di lanciare le scorie radioattive nello spazio, sul Sole! Per una tale megalomania non è ovviamente sufficiente avere contaminato il nostro Pianeta (che, sappiamo già, stiamo consumando a ritmi ben superiori alla sua capacità di rinnovare le proprie risorse naturali). Fortunatamente ha prevalso la considerazione del disastro che conseguirebbe a un lancio fallito, come già ve ne sono stati, con vittime umane.

 

L’insostenibile eredità dei test nucleari … una vera guerra nucleare

L’inquinamento radioattivo, crescente, della superficie e dell’atmosfera terrestre ha già causato danni incalcolabili, infermità, contaminazioni di vaste aree per incidenti o test nucleari, diventate praticamente inabitabili. La grande ambientalista Rosalie Bertell (1920-2012) valutava venti anni fa in ben 1 miliardo e 300 milioni le “vittime dell’Era nucleare” [9]!

Molte di queste vittime hanno nomi precisi. Citando ancora Rosalie Bertell: “Fino al 1963 i militari hanno effettuato i test nucleari in atmosfera, contaminandola. Si calcola che questi test abbiano causato in tutto il Pianeta un milione e mezzo di morti tra i bambini e due milioni di morti per cancro alle ossa, alla tiroide e per leucemia. Anche piccoli incrementi nelle radiazioni elettromagnetiche possono causare problemi di salute come cataratte e leucemie, possono alterare la chimica del cervello, il livello dello zucchero nel sangue, la pressione sanguigna e la velocità cardiaca” [10].

La radioattività prodotta dalle esplosioni nucleari a partire dal 1945 raggiunse un valore massimo nel 1963-64 nell’emisfero nord e un anno più tardi ai tropici (nel 1963 vennero ufficialmente proibiti i test nucleari in atmosfera, anche se alcuni Stati li hanno proseguiti, la Francia fino al 1995).

Nel deserto del Nevada, negli Usa, vennero eseguiti dal 1951 al 1962 100 test nucleari in atmosfera (da Las Vegas, a un centinaio di km sottovento, e da Los Angeles si vedevano i “funghi” delle esplosioni[11]) e successivamente 921 sotterranei (per un totale di 1.021), che hanno lasciato una radioattività sotterranea residua pari a 4.9×1018Bq. Ancora oggi si trova Stronzio radioattivo nei denti dei bambini americani [12]. Come in quelli dei bambini britannici attorno al sito nucleare di Sellafield: ovviamente il governo non potendo negare minimizza le conseguenze [13].

Nel Pacifico furono eseguiti fino al 1962 ben 105 test nucleari in atmosfera. Nell’atollo di Bikini, nelle Isole Marshall, vennero effettuati 23 test nucleari tra il 1946 e il 1958, trasferendo selvaggiamente la popolazione su un’altra isola[14]: essi hanno hanno prodotto una spaventosa contaminazione radioattiva, da dati ufficiali della IAEA[15], Trizio 3.4×1019Bq[16], Stronzio-90 8.0×1016Bq, Cesio-137 1.3×1017Bq, Plutonio-239 inferiore a 1.0×1015Bq. Dopo 60 anni l’atollo è ancora inabitabile[17]! E per colmo di sventura gli abitanti delle Marshall ora sembrano forzati a un nuovo esilio dall’innalzamento del livello del mare a causa del cambio climatico[18].

I sovietici non furono da meno nel Poligono nucleare del Kazakstan[19], dove hanno lasciato una contaminazione di 3.5×1015Bq di Stronzio-90, 6.6×1015Bq di Cesio-137, e Plutonio-239 inferiore a 1.0×1014Bq.

Oltre a queste contaminazioni bisogna ricordare il contenuto di scarichi radioattivi in mare valutati fra il 1946 e il 1993 in 86×1015Bq[20].

Il 3 dicembre 2003 fece scalpore (a dire il vero presto dimenticato) una lettera inviata dal notissimo specialista Ernest Sternglass al Segretario per l’Energia degli USA Steven Chu nella quale egli denunciava “un tragico errore dei medici e dei fisici … [per avere assunto] che l’esposizione a piccole dosi di radiazioni dai test e dalle centrali nucleari non avessero conseguenze significative sulla salute … [causando] un enorme aumento di tumori e di diabete”[21].

 

I costi insostenibili dei programmi nucleari (in)civili

Dalla metà degli anni Cinquanta si sono sviluppati i programmi nucleari detti “civili” per la produzione di energia elettrica. La crescita esponenziale iniziale di questi programmi cominciò a rallentare negli anni Novanta, per il moltiplicarsi di disastrosi incidenti nucleari (1979 Three Mile Island, 1986 Chernobyl, 2011 ben quattro incidenti a Fukushima, per citare solo i più gravi) a seguito dei quali vennero via via inasprite le norme di sicurezza e di conseguenza i costi aumentarono enormemente: negli ultimi due decenni la produzione di energia elettronucleare e la costruzione di nuove centrali di potenza ha prima raggiunto un plateau e, dopo Fukushima, ha avuto una contrazione[22].

Al di là di questi aspetti, quello che qui interessa sottolineare è che in questi 60 anni si è pensato solo al business di costruire nuove centrali nucleari, mentre si accumulavano crescenti, ed enormi, quantità  di cosiddetti residui radioattivi (evito il termine comune di “scorie” perché tra i residui vi sono il Plutonio e gli attinidi che sono materiali di enorme interesse militare). Nessun paese al mondo ha ancora realizzato un deposito definitivo dei residui nucleari: sono state fatte molte esperienze, a volte si sono poi rivelate sbagliate, se non fallimentari. In Germania, ad esempio, era stato realizzato il deposito geologico di Asse, in Bassa Sassonia, in una ex cava di sale, ritenuta impermeabile all’acqua, ma nella quale poi si sono rivelate infiltrazioni [23]! Più di 100.000 fusti di residui radioattivi devono venire rimossi, con enormi problemi e una spesa di 140 milioni all’anno.

Il termine deposito “definitivo” necessita una spiegazione: vi sono varie categorie di residui nucleari, classificate a seconda della loro radioattività, vi sono residui che mantengono livelli di attività pericolosi per secoli, o anche più, per cui si capisce bene che il termine “definitivo” è relativo. I residui radioattivi in generale devono venire isolati dalla società umana per un tempo praticamente indefinito.

Per il momento quasi tutti i residui radioattivi vengono stoccati in depositi considerati “temporanei”, proprio perché si attende di trovare la sistemazione “definitiva”, o per lo meno a lunga o lunghissima scadenza. Così si sono accumulate enormi quantità di residui radioattivi, i quali non devono assolutamente entrare in contatto con le attività umane.

Si calcolano nel mondo circa 830.000 metri cubi di residui ad alta attività, quelli evidentemente più pericolosi (quelli a bassa media attività sono molti di più). Un articolo del marzo 2018 discute il drammatico accumularsi di residui radioattivi in tutto il mondo, con il titolo eloquente: “Montagne di residui nucleari continuano a crescere”[24].

Solo nel 2011 la UE ha stabilito l’obbligo per tutti i paesi di adottare politiche nazionali per il trattamento dei residui nucleari. Nel 2013 il Regno Unito aveva accumulato 154.550 metri cubi di residui a media ed alta attività, la Francia 132.200, la Germania 25.534 [25].

Alcuni paesi hanno intrapreso progetti costosi e a lungo termine per realizzare un deposito nazionale. La Finlandia sembra avere il progetto più avanzato, un tunnel sotterraneo che dovrebbe costare 3,5 milioni di euro per la realizzazione e la messa in opera nell’anno 2121, quando le volte verranno sigillate per sempre[26]. La Francia è impegnata nel progetto di un deposito geologico profondo per residui di media e alta attività, una rete enorme di gallerie mezzo km sotto terra nei pressi di Bure, nel Nord Est, il cui costo è stimato in 25 miliardi di euro. La costruzione iniziò nel 2000, fra forti contestazioni dei movimenti antinucleari, e dovrebbe essere completata nel 2025. “Quando il lavoro sarà completamente finito, nessuno potrà mai più entrare, o per lo meno per 100.000 anni … garantendolo dall’intervento umano per un tempo impossibile – più di 4.000 generazioni umane”[27]. La Francia produce circa 13.000 metri cubi di residui radioattivi all’anno, circa 2 kg per ogni persona.

Solo un cenno all’Italia che non è certo un caso emblematico, semmai un caso patologico. Ha avuto dal 1963 al 1987 programmi elettronucleari di modeste dimensioni (quattro soli reattori di potenza, i primi tre di piccole dimensioni, poi Caorso di potenza medio grande che ha funzionato per soli 6 anni), che quindi hanno prodotto quantitativi relativamente limitati di residui radioattivi: eppure dopo più di 30 anni dalla chiusura essi rimangono stoccati in una ventina di depositi “temporanei”, le cui condizioni si vanno pericolosamente deteriorando da tempo, mentre il progetto di un deposito nazionale langue, ed è diventato un giallo poiché la lista dei siti che dovrebbero essere idonei per il deposito è pronta da più di due anni ma rimane misteriosamente chiusa in qualche cassetto, plausibilmente perché qualunque governo ha il sacro terrore che se la rende nota esplodano le rivolte delle popolazioni locali che non lo vogliono. Intanto lo smantellamento delle quattro centrali procede a passi di lumaca, mentre gli utenti continuano a pagare nella bolletta elettrica una voce “oneri nucleari”. Ma non intendo qui entrare nei dettagli di questa vicenda.

 

Lo smantellamento (decommissioning) delle centrali chiuse, un altro problema sottovalutato

Che fare delle centrali nucleari una volta che esauriscano il loro ciclo di vita? Ecco un altro grave problema ampiamente sottovalutato in passato, ma che sta diventando sempre più serio, dato che 234 delle 403 centrali in funzione ha superato i 30 anni di funzionamento[28]. Per capire come il problema veniva sottovalutato basta rifarsi al giudizio che dava l’ingegnere nucleare David Rose sull’autorevole Bulletin of the Atomic Scientistdel novembre 1985: “La stima più realistica del costo per decommissionare [una centrale nucleare] è il 10-15% del costo di costruzione, contrariamente a stime molto gonfiate”. Invece le cose stanno prendendo una piega assai diversa e i costi, e i tempi, stanno salendo vertiginosamente[29].

Sono eloquenti i casi nazionali. Secondo uno studio recente “la bonifica dei reattori francesi richiederà più tempo, sarà più problematica e costerà molto di più di quanto l’operatore EDF prevede”[30].

Lo stesso avviene per la bonifica del programma nucleare britannico. Fin dal 2013 il costo della bonifica del grande sito nucleare di Sellafield, in Cumbria, sarebbe costato di più della stima corrente di £70 miliardi[31], tre anni dopo questa stima era più che raddoppiata[32], la più recente stima ufficiale un anno fa era di £164 miliardi nei prossimi 120 anni[33](stima che oscura quella di £60 miliardi per la bonifica dei campi petroliferi e del gas del Mare del Nord). Ma che cosa potrà accadere nei prossimi 120 anni?!

E al di là di tutto questo occorre tenere presente che il decommissioning di centinaia di centrali nucleari produrrà quantità enormi di scorie radioattive!

 

Combustibile nucleare irraggiato, o esaurito

Si sono accumulate nel mondo circa 180.000 tonnellate di combustibile nucleare esaurito, o irraggiato (spent fuel).

Molto schematicamente (sarò costretto a drastiche semplificazioni in questo tema estremamente complesso), esistono due modi per la gestione del combustibile esaurito. Le barre estratte dal reattore sono talmente radioattive che non possono essere maneggiate (i radionuclidi artificiali generati producono anche un calore tale che le barre fonderebbero se venissero lasciate all’aria), e vengono direttamente trasferite nell’acqua di piscine di decontaminazione condizionate, dove devono rimanere immerse per almeno un anno, ma anche più, fino a smaltire l’attività e il calore più elevati. A questo punto si aprono sostanzialmente due possibilità, nessuna delle quali è … entusiasmante.

Cominciamo con la prima possibilità, la più seguita nel mondo, che consiste nel custodire le barre di combustibile irraggiato così come sono dopo il periodo preliminare di disattivazione. Le barre vengono rinchiuse a gruppi in grandi fusti d’acciaio (cask), alti circa 5 metri, a tenuta stagna e sigillati (dry storage). Le barre all’interno sono immerse in un gas inerte. Ogni cilindro (vi sono varie tipologie) è racchiuso da ulteriore strati d’acciaio, di cemento o di altri materiali che garantiscano la completa schermatura delle radiazioni per i lavoratori o altri addetti. In ogni caso questi fusti devono venire sistemati in un deposito finale.

E qui vengono gli enormi problemi. Come e dove conferire questi casks in un deposito che offra garanzie assolute di completo isolamento dall’esterno, assicurando l’assenza di infiltrazioni d’acqua, per almeno centinaia di anni? Molti paesi hanno grandi (e costosi) progetti in corso, ma nessuno ad oggi ha ancora realizzato un deposito definitivo per il combustibile esaurito. È eclatante negli Stati Uniti la vicenda del mega progetto del deposito geologico di Yucca Mountain, a 160 km da Las Vegas, destinato al combustibile esaurito, deciso dal 1982 (tanto per cambiare in territorio sacro per le nazioni indiane), approvato nel 2002 ma interrotto nel 2011[34].

Questo lascia il governo degli Stati Uniti e le imprese senza un progetto a lungo termine per i residui ad alta attività, che rimangono stoccati in vari impianti nel paese. Attualmente è in funzione l’Impianto Waste Isolation Pilot Project (WIPP) in Nuovo Messico, collocato 660 metri nel sottosuolo. La pericolosità di questa situazione è dimostrata da un incidente che avvenne in questo impianto nel febbraio 2014 a causa dell’esplosione di un fusto nel deposito, che ha causato il versamento nel deposito e la fuga nell’ambiente esterno in superficie: si è valutato che almeno 368 fusti sono suscettibili della reazione chimica che si sospetta abbia causato la rottura del fusto, e la bonifica potrebbe costare più di $2 miliardi[35]. Ma l’incidente potrebbe nascondere risvolti più inquietanti[36].

La seconda possibilità per gestire il combustibile esaurito è sottoporlo al processo di ritrattamento (o riprocessamento), il cui risultato è essenzialmente la separazione del plutonio che si è generato nel processo di fissione dell’uranio: il plutonio è un nucleo artificiale transuranico che non esiste in natura ed è l’«esplosivo» nucleare ideale. Presenta quindi i maggiori rischi di proliferazione nucleare (v. oltre). Tra i paesi occidentali è rimasta oggi solo la Francia a praticare il ritrattamento del combustibile, e lo fa anche per conto di altri paesi (fra i quali l’Italia). Il ritrattamento si basa su processi molto pericolosi ed inquinanti, per l’altissima radioattività dei materiali, e produce quantità maggiori di residui radioattivi e tossici, poiché usa degli acidi per sciogliere la guaina delle barre. Dalla fine degli anni Settanta gli Stati Uniti sotto la presidenza di Jimmy Carter (che era di formazione ingegnere nucleare) abbandonarono il ritrattamento, proprio per i rischi di proliferazione.

A dire il vero, il plutonio può anche venire miscelato con uranio nel cosiddetto combustibile nucleare misto (Mox, mixed uranium oxide), ma da un lato sembra del tutto irrealistico potere utilizzare in questo modo gli enormi quantitativi di plutonio che si sono accumulati, soprattutto quando i programmi nucleari sono stagnanti, e in ogni caso la reazione a catena produrrebbe più plutonio di quanto possa essere riciclato come combustibile.

In realtà il ritrattamento del combustibile irraggiato è stato (e viene tuttora) effettuato da Paesi intenzionati a realizzare bombe nucleari: questa strada è stata seguita, ad esempio, da Israele, dall’India, e recentemente dalla Corea del Nord. Da questo punto di vista è opportuno osservare che desta allarme il Giappone, il quale sta riprocessando il combustibile irraggiato dei suoi reattori inviandolo in Francia, ma ha anche in corso il progetto di un impianto domestico di ritrattamento: il Giappone ha già accumulato 10 tonnellate di plutonio (e ne ha ancora circa 160 all’interno del combustibile non riprocessato), ed ha tutte le conoscenze tecniche e le capacità industriali per realizzare la bomba nucleare in tempi brevissimi, qualora decidesse di farlo. Si parla di proliferazione nucleare latente.

Negli Stati Uniti le circa 90.000 tonnellate di combustibile esaurito prodotto fino ad oggi rimangono stoccate circa per metà nelle piscine, e metà nei casks stoccati in depositi on-site nei pressi delle centrali: si prevede un raddoppio del quantitativo di combustibile irraggiato per il 2050, ma anche la progressiva eliminazione dello stoccaggio in piscine. Per ora tuttavia si brancola nel buio per individuare un deposito geologico, dopo che quello di Yucca Mountain è stato accantonato.

È importante osservare che il combustibile esausto possiede, come si è detto, valori spaventosi di attività radioattiva, e che essi perdurano per tempi indefiniti