Questo testo nasce come commento al libro di Malcom Ferdinand Une écologie décoloniale. Penser l’écologie depuis le monde caribéen (Seuil, 2019).

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Noi non pensiamo in modo abbastanza decisivo l’abitare.

Quando infatti, da diverso tempo ormai, si parla di “ecologia” o di “ecologia politica” o di “ambientalismo”, si fa spesso riferimento ad una differenza di fondo, tra un ambiente con le sue regole da mantenere ed un “essere umano” che ad esse dovrebbe, suo malgrado, adattarsi. Spesso cioè il discorso ecologico, almeno nella sua dimensione pubblica, assume le forme di un discorso della paura e della costrizione. L’essere umano sarebbe cioè un dio in catene; un ente talmente potente da avere potuto quasi distruggere l’equilibrio millenario dell’Olocene, ora costretto a rimettere la sua potenza di fronte alle leggi di un pianeta che lo vincola, lo blocca, ne spegne la capacità creativa.

Chi rifiuta il discorso ecologico, ed auspica un’ulteriore accelerazione, lo fa quasi sempre tenendo presente questa particolare visione “catastrofista” dell’Antropocene, e ne propone un’altra ad essa immediatamente opposta: facciamoci carico, noi umani, semidei in terra, della nostra potenza, e guidiamo il pianeta come si guida un’astronave, per sempre! L’Antropocene sarà così l’era del dominio di un semidio.

Queste due visioni, apparentemente opposte, condividono un assunto di fondo, che possiamo senza paura definire “antropologico”: l’essere umano è il non della natura. Esso, cioè, si caratterizza per essere sempre separato dal mondo in cui vive, dall’esserne sempre proiettato al di là. L’essere umano è già da sempre s-fondato, s-radicato rispetto ad ogni ambiente naturale. Questo vuoto può essere parzialmente colmato solo nella ri-costruzione tecnica del pianeta, cioè nella creazione di un mondo artificiale adatto all’uomo.

Si tratta, in altre parole, di due posizioni che hanno un assunto di fondo: l’essere umano non abita mai nulla ecologicamente. Egli distrugge ciò che abita, ricostruendolo continuamente e integralmente in quella che molti chiamano ormai tecnosfera. Che si pianga su questa constatazione o si accetti con gioia questo dato, è qualcosa di accidentale, per chi voglia pensare criticamente il presente. Non si potrà mai pensare una soggettività che trovi il suo senso nell’abitare in uno spazio naturale di cui l’uomo non è il creatore onnipotente,se si parte dal presupposto di una separazione originaria. Che possano esistere forme dell’abitare non-ecologiche o se piuttosto alcune antropologie siano antropologie del “non-abitare” è questione da lasciare qui in sospeso, ma assolutamente decisiva.

I filosofi, come Marx vide con chiarezza nell’Ideologia tedesca, hanno l’abitudine perniciosa di pensare i processi storici esclusivamente come processi concettuali. In questo senso è possibile tracciare una storia esclusivamente concettuale del rapporto tra come, in Occidente, è stato pensato l’uomo a partire dal suo non-essere, dalla sua separazione originaria rispetto al piano del “semplice” vivente. Si corre dunque il rischio di dare la “colpa” di questo modo di concepire (e evidentemente di vivere) il non-rapporto contemporaneo tra “esseri umani” e mondo naturale a Heidegger o a Cartesio. Si tratta di un atteggiamento comprensibile, per quanto errato, per chi passa la vita a studiare appunto Heidegger o Cartesio.

Se invece questo particolare modo di porre un binomio tra uomo e negativo, ovvero quest’idea per cui “umano è l’ente che non abita una natura” (in questa sede pensiamo questa frase come sinonimo di “l’umano è l’ente che non abita ecologicamente una natura”) fosse piuttosto la modalità specifica con cui una certa parte del genere umano ha imposto il suo dominio su altre parti? Se invece la proposta di questa “antropologia negativa” (negativo da intendersi in senso ontologico) non fosse che il segno di un etnocentrismo di fondo? Se cioè questo uomo s-radicato fosse semplicemente l’immagine che una parte dei Moderni ha di sé, e attraverso la quale questa parte ha organizzato il dominio coloniale e la distruzione di segmenti di vita?

Se si volesse provare ad andare oltre questa prospettiva, dunque, ciò che prima di tutto bisognerebbe fare sarebbe precisamente pensare e vedere come storicamente si sono date forme dell’abitare. Entrambe queste prospettive, cioè da un lato l’idea che il colonialismo e la crisi ecologica abbiano una comune origine in una determinata forma di (non) abitare il mondo e dall’altro quella per cui se si vuole pensare ad un’ecologia politica davvero efficace ciò che va fatto è concepire forme diverse dell’abitare, sono ciò che viene indagato nel testo che vogliamo qui discutere.

È, tra le altre cose, anche questo che prova a pensare Malcom Ferdinand, nel suo ultimo libro Une écologie décoloniale. Penser l’écologie depuis le monde caribéen, uscito, ovviamente, per Seuil, che da molti anni porta avanti una coraggiosa operazione editoriale che lascia spazio a studiosi giovani e non per le loro ricerche a proposito del problema ecologico. Il testo si struttura, in poche parole, come una critica all’ambientalismo liberale, cioè all’ambientalismo che pensa, da un lato, la crisi ecologica come un portato dell’uomo en tant que tel, e dall’altro ricerca soluzioni tecnico-ingegneristiche a tale crisi, che essa sia il green capitalism o la geo-ingegneria.

Il problema di questi approcci, per Ferdinand, sta nel fatto che essi continuano ad operare una distinzione assoluta tra problemi ambientali e problemi sociali. Tali approcci non riescono quindi a cogliere che un determinato rapporto al mondo si costituisce sempre su un abitare, che in quanto tale è un modo di organizzare umani e non-umani in un determinato spazio geografico. “Colpevole” della crisi ecologica contemporanea possono esserlo solo forme storiche di abitare il mondo. Se però si ragiona in questi termini, si passa necessariamente a considerare la dimensione ecologica come mediatamente più vasta di sé stessa, o almeno più vasta di come viene di solito concepita. Parlare di crisi ecologica significa sempre parlarne in termini de-coloniali, giacché essa non è che un portato di una forma storica dell’abitare, quella coloniale. Allo stesso tempo, dentro di essa noi avremo non solo modi di organizzare il non-umano, ma anche i modi con cui pezzi dell’Occidente hanno soggiogato la donna, mantenendola in uno spazio di confine tra natura e umanità e ponendola sullo stesso piano della ri-produzione, insieme ai territori. Ferdinand è molto concentrato sulla questione del genere all’interno di una possibile ecologia decoloniale. Essa è rinvenuta da lui come assolutamente specifica, per quanto interna al dominio coloniale. Le donne schiave vivevano una condizione specifica a cui, oltre allo sfruttamento più classico, si andava ad aggiungere una continua sottomissione allo stupro, all’opera in tutte le americhe. Si tratta di un tema che sta molto a cuore all’autore, e che però non sviluppa per troppo spazio. Vi saranno dunque delle specificità, interne a questo abitare, non riconducibili tutte le une alle altre, eppure conviventi. Un’ecologia decoloniale, per Ferdinand, ha il merito di tenere insieme tutta questa serie di rivendicazioni e di forme di potere, poiché si fonda sulla nozione di abitare. Giacché, si potrebbe dire, l’uomo non fa altro che abitare, porre la questione in questi termini consente di pensare la crisi ecologica come esito di una forma-di-vita e quindi di quella che, uscendo un po’ dal lessico dell’autore, possiamo chiamare organizzazione sociale.

L’ipotesi di partenza di Ferdinand è infatti che non ci siano che modalità di abitare. Gli Occidentali, recandosi in America, in Africa, in Oceania, hanno imposto un altro modo di abitare, cioè di pensare e di vivere il mondo. Questo abitare coloniale, di cui Ferdinand descrive lungamente presupposti e principi, si costituisce su un’organizzazione storica dello spazio colonizzato, subordinandolo in via ontologica alla madre patria; fonda lo sfruttamento della terra senza porvi alcun limite, mediante il disboscamento e ancora di più sulla “piantagione”. Se si è parlato di Plantationcene, giungendo ad indentificare la nostra stessa epoca geologica a partire dalla piantagione, è perché l’abitare coloniale ha distrutto altre forme dell’abitare mediante l’istituzione dei territori come piantagioni. Non vi può essere colonialismo senza disboscamento e piantagione, poiché esso, nonostante le sue notevoli differenze interne, è prima di tutto un modo storico dell’abitare, che ha soppiantato e distrutto altre forme dell’abitare. L’essere-nel-mondo dei colonialisti è un essere in un mondo che tende tutto al Medesimo della piantagione e dell’abitare occidentale, che, detto per inciso, non può che costituirsi sullo sterminio delle popolazioni native e sulla messa al lavoro del genere femminile. È un essere nel mondo che si caratterizza in prima battuta per l’idea che ciò che vi è di specifico nella terra colonizzata ha scarsa rilevanza poiché ciò che conta realmente è altrove, e in seconda battuta che pensa quella terra da colonizzare come interamene donata per lo sfruttamento. Un rapporto, come dicevamo, essenzialmente negativo, poiché fondato (anche a livello banalmente linguistico) sulla categoria di distanza, di separazione tra il colono e la terra che egli deve colonizzare. Questa gli è data per il suo dominio.

Peraltro, Ferdinand non manca di notare un passaggio. Uno dei presupposti e allo stesso tempo degli esiti decisivi di questo abitare coloniale è naturalmente l’istituzione della proprietà privata. Essa, come è noto, non esisteva, o esisteva in forme assolutamente diverse dal modo in cui la concepiamo noi, prima dell’arrivo degli Occidentali. Si vede quindi come certamente la storia del modo di produzione capitalistico sia centrale nella storia di questo abitare, ma non che quest’ultima non sia ad essa riducibile: bisogna al contrario pensare il capitalismo come interno all’abitare coloniale. Un abitare de-coloniale/ecologico sarà allora al di là del capitalismo solo perché esso era parte della forma di quello coloniale, che però era molto altro. Non conviene, insomma, parlare di Capitalocene quando si parla della nostra epoca, poiché non tutto è derivato da quel rapporto. Si potrebbe leggere così la storia del socialismo reale: esso non ha fatto che riprodurre la stessa forma dell’abitare che aveva animato la modernità capitalistica, pur tentando di negare quel modo di produzione. Con questi presupposti la grande storia del comunismo sovietico non poteva andare molto lontano da quella di una “tabula rasa elettrificata”.

Per Ferdinand un’ecologia politica può essere pensata solo immaginando (e ricordando) altre forme dell’abitare. Questo perché la configurazione stessa di un popolo si dà solo nella modalità del suo abitare.

Vi è qualcosa di hegeliano nel modo in cui Ferdinand svolge il suo argomento a questo punto. Che i pensatori all’origine del pensiero post-coloniale (a cui Ferdinand è evidentemente molto legato) abbiano un forte rapporto con Hegel (a partire da Fanon) è qualcosa di tanto certo quanto, a mia conoscenza, abbastanza poco indagato. È un peccato, perché si tratta di un Hegel molto lontano da quello che siamo abituati a discutere in Italia, tutto schiacciato sull’idealismo italiano.Insomma: il “negre” ai Caraibi di Ferdinand assomiglia molto al servo di Hegel.

Lo schiavo ai Caraibi è per Ferdinand il possibile protagonista di una storia diversa. Questo perché se l’abitare coloniale è fondato sulla proprietà privata, abitante può essere solo il padrone bianco, il proprietario della piantagione. I neri, gli schiavi importati dall’Africa, non abitano. Ferdinand parla addirittura di un Négrocène a proposito dell’epoca che il colonialismo ha costituito: un’era cioè in cui il “Negro” viene prodotto a partire dal suo differenziarsi dal Bianco, come mezzo per il lavoro in piantagione, come essere che non abita nulla e come protagonista della produzione di valore nell’economia-mondo. A questo punto però, lo schiavo nero (e forse in questo salto, in questa rottura radicale che non è immediatamente un portato di una contraddizione, vi è una discontinuità con la figura del servo padrone) fugge dalla schiavitù. La paradossalità di questa mossa sta nel fatto che, nella fuga, il “nero” cerchi costantemente di tornare a casa, ma non alla Casa dei suoi padri, quanto ad un territorio che egli possa chiamare casa, che egli possa abitare. Il suo obiettivo è quello di tornare ad avere una terra, quella dove si è fuggiti. Egli cerca l’Africa ai Caraibi. Non si tratta affatto di una fuga infinita o di un indefinito nomadismo. Al contrario, ciò che anima l’esperienza degli schiavi in fuga è precisamente, per Ferdinand, questa assoluta necessità di ri-territorializzarsi, di costruirsi una casa nell’orizzonte delle montagne della Martinica, a Guadalupe, ad Haiti. Si fugge solo per trovare casa. Non è più il nomade la figura della resistenza; è il cercatore di orizzonti, colui che vuole passare al di là della “rottura ecumenale” cioè della distruzione di un orizzonte nel quale trovare spazio-di-vita, che caratterizza l’abitare coloniale. La figura della terra-Madre, propria dei nativi e devastata dai coloni, è tipica del “discorso” degli schiavi in fuga, tanto che Ferdinand parla di una vera e propria “matrigenesi” da parte loro.

È in questa figura della fuga che Ferdinand vede la possibilità di pensare un’altra forma di abitare e quindiun altro popolo. Ma cos’è un popolo?

“Lascia partire il mio Popolo.” dicono, nell’Esodo, Mosè e Aronne al Faraone, riportando la parola del Signore. Nasce qui, ci dice Ferdinand con un’acutissima osservazione, l’idea tutta occidentale trapassata nell’abitare coloniale che il popolo pre-esista all’abitare. Che questa pre-esistenza sia data dal suo rapporto con un Dio o a qualcos’altro (al suo sangue) non cambia per noi molto. Solo un popolo che non esista che prima del suo abitare-un-luogo può essere un popolo perennemente in cerca di un “Terra promessa”, di un non-luogo che non arriva mai. L’Esodo, appunto, come condizione esistenziale di un popolo può esservi solo per un popolo che non abiti costitutivamente. Un popolo essenzialmente s-radicato. Quest’idea dello spaesamento e della s-radicatezza è giunta fino a noi senza soluzione di continuità, ed è precisamente l’idea dell’uomo come pervaso dal negativo che riportavo all’inizio.

La proposta di un’ecologia politica decoloniale non può che essere, invece, quella di provare a pensare la costituzione medesima di un popolo solo nel suo actum di abitare. Si può essere popolo solo abitando un luogo. Prendere in considerazione il mondo dei Caraibi, però, ha il pregio di evitare il rischio più evidente di questa posizione: l’essenzialismo, se non una forma di fascismo, cioè identificazione di un rapporto genetico-biologico determinato tra una popolazione (che diviene così razza) e uno spazio. Questo perché questo popolo si costituisce in primo luogo a partire da una fuga dal mondo (e quindi dall’abitare) coloniale, e non su una permanenza millenaria; in secondo luogo perché questo abitare non è altro che il ri-trovare una terra con cui avere un rapporto radicalmente differente da quello che “i bianchi” hanno con essa. Si tratta, usando un termine appartenente ad un’altra tradizione, di una forma di territorializzazione che non ha niente a che vedere con il riconoscere un’appartenenza originaria. L’abitare è un atto, consiste in un tessere relazioni. Relazioni che creano quindi forme di “casa”, di “storia”, di “identità” che nulla hanno a che vedere con la spregevole storia dei“teorici” nazistidel “Blut und Boden”. Parlare dell’ecologia “ai Caraibi” ha precisamente, dunque, questo senso: dire che non vi può essere popolo se non nell’abitare, ed anzi una definizione di un popolo che voglia trasformare radicalmente il presente essendo all’altezza della crisi ecologica deve necessariamente pensare ad una forma di territorializzazione come precondizione della delineazione stessa di un qualsiasi popolo. Questo però, proprio perché se ne parla “ai Caraibi”, non ha nulla a che vedere con un abitare fondato sull’idea di “appartenenza”, ma tutto con quella di relazione. Una relazione che non è né di dominio né di presa, ma, appunto, di nascondimento, di penetrazione, di mimesi. In cui il ruolo del soggetto non è quello di essere separato dal suo mondo, ma di esserne una parte integrante e, in una certa misura, di dipenderne. Un popolo che abita in questo modo non sarà mai un popolo (un soggetto) la cui caratteristica principale risiede nell’essere il non del suo mondo. Al contrario esso, essendo costituito e parte dell’ecumene, starà con esso in una relazione di gioco, di appartenenza relativa, di non-dominio.  

Se noi non impariamo almeno questo, e cioè che è un’intera forma dell’abitare che deve essere trasformata, secondo Ferdinand, ci poniamo in un’ottica che persevera i rapporti di forza che si collocano al centro della storia dell’Occidente. Allora la crisi ecologica potrà essere utilizzata come strumento per inasprire il dominio delle popolazioni indigene, come viene fatto costantemente nei luoghi dove, con l’idea di “preservare” spazi di natura più pura possibile, vengono spazzate via tradizioni millenarie che permettevano la vita delle popolazioni native di quei luoghi. La crisi ecologica non diventerà altro che un ciclone coloniale con cui, tra l’altro, sarà possibile aumentare la messa a valore della natura stessa senza forse nemmeno riuscire davvero a rallentare la crisi in sé. Non è forse questa la strada che, in fondo, persegue la retorica e la pratica del green capitalism? L’ambientalismo contemporaneo, con i suoi discorsi sulla Blue marble e quelli sul pianeta come una navicella che noi dovremmo imparare a gestire, finalmente, e a dominare, come si addice alla nostra specie, non sono forse discorsi magari apparentemente ecologici che però si dimenticano questa centrale questione dell’abitare? Allo stesso modo, una lotta anticoloniale che dimentichi il tema ecologico dimenticaciò che di più proprio ha il comando del colono sulla terra conquistata: la forma specifica del suo (non) abitare. Chi lotti contro il colonialismo senza lottarecontroquella forma dell’abitare, e quindi contro lo sfruttamento (ad esempio attraverso le piantagioni) illimitato del territorio non fa che sostituire ad un colono un altro colono: egli diviene,semplicemente, un nuovo signore della terra. Può avere scacciato i coloni bianchi, ma ha imparato da loro a conservare il nucleo del loro dominio.

Ecco perché ho iniziato questo commento scrivendo che noi non pensiamo in modo abbastanza decisivo l’abitare. Si tratta di un libero adattamento da una citazione di Heidegger. Chi lo ha colto, avrà potuto storcere il naso. A differenza del grande filosofo tedesco, però, che parlava di “essenza dell’agire” non ho scritto “essenza” per interpretare Ferdinand, giacché per lui l’abitare non ha un’essenza, ma è un atto. Non si abita l’Essere ma un orizzonte composto da umani e non-umani. Si sta sempre nel regno dell’enticità, per dirla con Heidegger. Pensare in modo decisivo l’abitare vuol dire inoltre, per noi, non già contemplare la storia destinale dell’Essere, quanto notare come già da sempre si diano modalità diverse dell’abitare e come esse riemergano costantemente nel corso delle lotte e del processo storico. Quello che succede in Val di Susa non è forse la strutturazione di una nuova forma dell’abitare? Una forma cioè in cui ci si colloca in un orizzonte anche naturale che non è a nostra disposizione per ogni azione possibile, ma che ha dei margini di non-costruibilità che non possiamo superare? Il fatto di abitare quel territorio però, significa che quegli spazi non sono affatto un limite che ci costringe, quanto il confine che ci apre, cioè che dona il senso ad una vita. Come la vita delle schiave e degli schiavi ai Caraibi acquisiva senso nel sapersi porre il limite di una terra da chiamare casa, così il senso di chi abita è stabilito dalla parte non-infinitamente-costruibile del suo territorio, da ciò che non è a totale disposizione. Questo abitare, che nasce da una fuga, non è forse anche l’insegnamento delle recenti esperienze migratorie? Emerge qui, ancora, il tema dell’intersezionalità delle lotte. Migrante è chi cerca un nuovo abitare, ma si può abitare solo ciò che non è già da sempre disposto alla distruzione di uno sguardo “coloniale” sui territori.

Volendo terminare come si è cominciato, cioè usando Heidegger per dire il suo opposto, e tenendo presente tutte queste esperienze e tutte queste “storie” di un abitare diverso, tenendo presente cioè quello che può essere un’“ecologia pensata a partire dal mondo caraibico”, possiamo quindi dire: siamo già stati salvati.

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