Ed è qui, nella pienezza del tempo proprio della Jeune-Fille bio che vogliamo richiamare un concetto fondante per il femminismo: la libertà. La Jeune-Fille bio, evocata la prima volta in Francia nel 1999, si è tradotta dall’ibrido personaggio allora abbozzato nella realtà materiale che compone il nostro presente. Icona incongruente che condensa tutti gli imperativi del capitalismo, essa, scriveva allora il collettivo Tiqqun: “sarà responsabile, solidale, ecologica, materna, ragionevole, naturale, rispettosa, più autocontrollata che falsamente liberata, insomma biopolitica all’estremo. Non mimerà più l’eccesso ma al contrario la misura in tutto” (Tiqqun, 2003: 16).

Il divenire Jeune-Fille bio della donna e di tutti, si è dispiegato mentre analizzavamo come niente potesse considerarsi escluso dall’onnivoro capitalismo contemporaneo, nella performatività obbligata della precarietà esistenziale. Ma poiché, a partire da questi nuovi assetti, il processo di organizzazione teorico-pratica della nostra stessa re-esistenza anziché rafforzarsi sfuggiva drammaticamente, sempre più, ai più, abbiamo pensato di ri-cominciare, tornando ai fondamenti del pensiero delle donne. Evidentemente, l’ontologia precaria con la quale ci confrontiamo oggi si rivela differente rispetto a ogni tentativo di spiegazione precedente. Ogni richiamo al passato deve evitare di ritrovarsi vittima di un guscio ideologico, privo della capacità di immaginare il nuovo. Tuttavia è nell’imbatterci nel libro di Daniela Pellegrini e nel collegarlo, nelle distanze spazio-temporali, ad alcune riflessioni di Judith Butler e Wendy Brown, che noi abbiamo ritrovato il desiderio di rinterrogarci sull’antinomia libertà-potere e sul tema della critica all’ordine biopolitico. Riconoscendo in un certo sguardo femminista, un filo rosso che disegna un campo di pratiche contro-costituenti ancora attuali e stimolanti.

Vorrei l’altrove”, scrive Pellegrini, “e lo coltivo dentro di me, lo alimento e lo sento. E perché non rimanga solo un sogno, l’antico immaginario di cui si sono nutrite le donne nella depressione della non-esistenza, vorrei radicarlo nel calore dei nostri rapporti, nella strutturata materialità che i nostri desideri sanno e sapranno costruire” (Pellegrini, 2012: 124).

Ritroviamo in queste parole – mentre si approfondiscono gli imperativi coercitivi della crisi e si amplia la sofferenza vincolante del lavoro-vita, nella dispersione di energie immaginative costrette a nuotare nell’acquario di facebook – una verità che sta alla base della ricerca politica di sempre. È la spinta a cercare una pratica vivente non solo a livello simbolico, come sembra indicare il presente, introducendo la “differenza” come forma di “risarcimento” per le donne all’interno di una struttura data che non implica alcuna modificazione del vivere.

La dinamica della femminilizzazione del lavoro illumina uno dei momenti critici della genealogia del biocapitalismo cognitivo-relazionale contemporaneo, apice dell’espansione liberista. La posizione subalterna che la norma del maschile ha sempre ritagliato per i soggetti cosiddetti deboli (donne, omosessuali, giovani, immigrati), viene adesso ribaltata perché la loro adesione rivestirà l’intera società di un’aura di progressismo e di emancipazione.

Il neoliberismo ha eletto l’individualismo e l’uomo-impresa a fondamento dell’agire contemporaneo. Non è ammessa malattia, povertà, stanchezza, non si può aver voglia di fermarsi nel mondo organizzato dal capitalismo disorganizzato. L’ascetismo al servizio della prestazione, descritto da Dardot e Laval ne La nuova ragione del mondo, prevede la mobilitazione esclusiva di affezioni positive. La libertà neoliberale risponde alla molteplicità dei dispositivi e degli assetti di potere di un “mondo senza limiti”, pervaso da allucinazioni di onnipotenza e dove la retorica dell’espansione illimitata della democrazia cela la normatività neoliberista: sorveglianza, tracciabilità, valutazione, autocontrollo.

Torniamo ai fondamenti del pensiero delle donne, perciò. Che cosa cerchiamo ancora nel mondo e nella vita? La malinconia che proviamo che cosa ci dice? “Questa vita che è mia, riflette su di me un problema di diseguaglianza e potere e, in maniera più ampia, un problema di giustizia e ingiustizia nell’assegnazione del valore. La mia vita è questa vita vissuta qui nell’orizzonte spazio temporale stabilito dal mio corpo ma anche fuori da qui nell’interazioni con altri processi viventi di cui io non sono che una parte” (Butler, 2013: 24-25).

Il nocciolo anti-identitario e ”non allineato”, ribelle, libertario, anticonformista del pensiero femminista delle origini fornisce più suggerimenti di qualsiasi altro discorso. Con un’accortezza: va tenuto in conto chelibertà è una parola scivolosa e facilmente viene tradotta nell’ideale assoluto di una “società aperta” dove chiunque ha diritto a vivere come crede e che rende ben volentieri accessibile il dispositivo prestazione/godimento a tutte le diversità, devianze e handicap inclusi. Per Wendy Brown, il concetto di libertà deve infatti fare i conti con una sovranità che “è turbata soprattutto da forme di potere sociale sempre più intricate,seppur diffuse” (Brown, 2012: 9). E, d’altra parte, la libertà come pratica relazionale costantemente contestualizzata e non come concetto assoluto, continua a rappresentare la più efficace misura per distinguere chi è in grado, seppure relativamente, di esercitare il controllo sulla propria vita o chi invece no, la linea che segna la linea di divisione tra coercizione e azione.

Così, l’ultimo passaggio ci servirà per dire che il concetto di libertà va sempre coniugato con quello di giustizia sociale, per quanto anche esso strutturalmente parziale e fragile. Tutto si gioca tra libertà individuale e libertà collettiva, fuori da ogni versione femminista mainstream che ha finito con l’accettare la distrazione, il mascheramento e l’occultamento di nuove ingiustizie e contraddizioni sociali, con conseguente generazione di inedite gerarchie. Mentre le istituzioni manifestavano un crescente impegno nello studio della “condizione femminile” che ha prodotto una sorta di ossessione verso il diritto positivo in difesa delle donne, ecco che “un femminismo fondamentalmente culturale ha preso il posto di quello delle grandi lotte con una funzione di controllo e selezione delle istanze e delle voci (…) La nostra produzione ci venne largamente espropriata e addomesticata” mentre il problema del lavoro di riproduzione è rimasto inevaso (Dalla Costa, 1996).

Quale è il punto, allora? La crisi distrugge ciò che eravamo ma crea anche nuovi legami tra le persone. Come vivere una vita buona, pur dentro le nostre complesse “varietà di esilio”? Essendo consapevoli dalle trappole suadenti del potere, recuperando strumenti autonomi di diagnosi, come l’autocoscienza, in cui il soggetto prenda parola senza intermediari, posizionandosi in modo conflittuale rispetto al potere e alle sue istituzioni, aiutandosi, attraverso il confronto collettivo, a sottrarre il “sintomo” (vivere) alla oggettivazione degli esperti e degli intellettuali di professione. Facendo con-vivere l’idea di libertà individuale con quella di comune. Ritrovando più che mai dentro una linea di sottrazione, di rifiuto di ruoli e funzioni assegnate nella vita e nella società, il cuore stesso della politica delle donne. Più rivoluzionario di qualsiasi promessa di rivoluzione, questa disposizione conflittuale va allargata, potentemente, dal privato al pubblico. La libertà delle donne (e degli uomini) passa da un processo di smobilitazione di questa vita, che deve, tutta, cambiare.

Riferimenti bibliografici

Tiqqun, Elementi per una teoria della Jeune-Fille, Bollati Boringhieri, Torino, 2003

Daniela Pellegrini, Una donna di troppo. Storia di una vita politica singolare, Franco Angeli, Milano 2012

Judith Butler, A chi spetta una buona vita?, Nottetempo, Roma, 2013

Wendy Brown, La politica fuori dalla storia, Laterza, Roma, 2012

Pierre Dardot e Christian Laval, La nuova ragione del mondo, DeriveApprodi, Roma, 2013

Mariarosa Dalla Costa, relazione presentata al convegno “Per un’altra Europa, quella dei movimenti e dell’autonomia di classe”, Torino, 30 marzo 1996

 

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