Ho conosciuto Mark Fisher negli ultimi anni, ho letto alcuni suoi scritti (non tutti), ho avuto diverse (poche) occasioni di incontro con lui. Le poche volte che l’ho incontrato ero intimidito dalla sua timidezza. Mi era difficile accedere alla sfera della sua toccabilità fisica, non credo che mi abbia abbracciato, o di averlo abbracciato, come faccio (forse anche troppo) con gli amici, le amiche, con tutti. La sua presenza fisica emanava una vibrazione fragile, come la sua voce che si rompeva e si faceva inaudibile, sottile, tremante.

Ora Mark ha fatto quella cosa che non mi stupisce ma mi raggela, ha compiuto il salto alla dimensione del nulla.

E sgomenti parliamo di politica come se la vita e la morte la felicità e la depressione dipendessero dalla politica.

Non è così. Non capiremo niente della crisi sociale, non immagineremo nulla del futuro, se non capiamo la felicità e la depressione. Ma questo non vuol dire che la felicità e la depressione si possano risolvere nella dimensione politica. Nessuno è depresso perché si rende conto che non c’è via di uscita dalla trappola. Questa è la disperazione, non depressione. E la disperazione è una condizione dell’intelletto, non del cuore, non del corpo. La disperazione (l’assenza di speranza) non toglie energia come fa invece la depressione. Lo ha detto anche Francesco, che in una conversazione meravigliosa uscita su La civiltà cattolica subito dopo la sua elezione al trono di Pietro ha detto che la chiesa è un ospedale da campo, e che tra le virtù teologali (interpreto molto liberamente dio mi perdoni) non è importante né la fede né a speranza. Importante è la carità, l’abbraccio, la carezza, la solidarietà

La decisione di Mark è maturata in un periodo in cui la dimensione sociale appare totalmente disperata. Se proiettiamo materialisticamente futuro a partire da quello che vediamo scritto nel presente vediamo la tragedia della guerra, del razzismo, Auschwitz ricostruita sulle rive del mediterraneo, lo sfruttamento brutale di chi lavora per salario, l’eliminazione di chi sta ai margini (si veda la demonetizzazione in India, si veda l’aggressione mortifera dell’Unione europea contro il popolo greco).

Mark Fisher ha spiegato la sua sofferenza in relazione diretta con il suo modo di percepire se stesso nello sguardo degli altri, e ha detto di sentirsi buono a nulla. Siamo cento milioni che come lui siamo indotti a sentirci buoni a nulla perché non riusciamo a soddisfare le richieste competitive in cambio delle quali viene certificata socialmente la nostra identità. È lo sguardo del potere che ci fa sentire buoni a nulla, ma lo sguardo del potere ci schiaccia solo se siamo soli.

Come raccontiamo a noi stessi la depressione? Cerchiamo di darle un senso, ad esempio un senso politico, ma il contenuto della depressione non è il senso, bensì la percezione dell’assenza di senso. Perciò  come dice Hillmann la depressione è condizione vicina alla verità, perché è il momento in cui si coglie la verità del non essere del senso. Ma la coscienza del non essere del senso non è depressione quando la solidarietà carezzevole costituisce la condizione dialogica in cui il senso che non c’è esiste come illusione condivisa che chiamiamo mondo.

Buono a nulla è un’espressione che rimanda alla dimensione sociale, alle domande che il sociale rivolge, alle pressioni che il sociale esercita, alle pressioni identitarie che ci spingono a voler essere qualcosa che invece non riusciamo a essere. Per spiegare cos’è la depressione dobbiamo comprendere l’impotenza, cioè l’incapacità di attualizzare un possibile che è iscritto nel nostro essere sociale ed erotico, ma che non si attualizza.

Il nucleo profondo della depressione sta nella contrazione fisica, nell’incapacità del corpo di toccare il corpo dell’altro e di esserne toccato, traendo da questo toccamento la certezza del senso, che non è in nessun luogo, nel mondo, ma proprio e solo in questo toccarsi della mia pelle e della tua pelle.

Mark Fisher ha scritto che le ferite che ci fanno soffrire sono ferite di classe.  Sono ferite di classe che rendono il nostro corpo contratto, incapace di rilassarsi al contatto del corpo dell’altro: le ferite della competizione, della precarietà. Ma dobbiamo chiederci se è possibile essere felici anche quando lo sfruttamento ci perseguita e appare inevitabile subirlo e non vediamo una via d’uscita dalla tirannide capitalista, e un pazzo criminale razzista si impadronisce della bomba atomica e minaccia di sterminarci tutti.

Sì, è possibile essere felici, anche quando non vediamo via d’uscita dallo sfruttamento, e il fascismo dilaga in ogni contrada del mondo.

Perché la felicità non è una cosa della mente intellettiva ma è una cosa della mente corporea, dell’emozione che apre il corpo alla carezza. Non la fede, non la speranza, ma la carità per dirla con un linguaggio che non è il mio. Non la coscienza disperata ci rende infelice, ma l’effetto depressivo che si produce sul corpo empatico. La sofferenza sociale si trasforma in depressione quando ottunde la carezzabilità. E la disponibilità alle carezze non è solo la condizione della felicità individuale, ma anche la condizione della ribellione, dell’autonomia collettiva, e dell’emancipazione dal lavoro salariato.

Il rapporto tra desiderio e impotenza spiega qualcosa della depressione. Quando si dice che occorre trasformare la sofferenza che nasce dal bisogno in un “noi desiderante” si dice una cosa ovvia. La domanda cui non troviamo risposta è proprio qui: come si trasforma la sofferenza del bisogno in noi desiderante?

Coloro che esaltano il desiderio come se fosse una forza buona non hanno capito. Il desiderio non è una forza, ma un campo. E soprattutto non è affatto buono, è (può essere) crudele, malefico, contorto, ambiguo, autolesionista, sfuggente, distruttivo, mortifero. Il desiderio è la pro-tensione di un corpo verso l’altro corpo, una pro-tensione che inventa mondi costruisce architetture, strade, porte e ponti ma anche abissi e sprofondi. Ma quando il corpo individuale o collettivo è reso incapace di rilassamento e piacere, quando la respirazione si fa nervosamente frammentaria, allora giungiamo a trasformare il desiderio in crudeltà oppure scegliamo la via del non desiderio ovvero la depressione.

Nelle cose che ho letto di Mark Fisher c’è insieme la coscienza del carattere sociale e storico della depressione, effetto doloroso del “there is no alternative”, (che in realtà vuol dire “there is no way out”) e la rabbiosa coscienza dell’inaccessibilità del corpo dell’altro, cioè di un’empatia che rende possibile la solidarietà sociale, la complicità delle persone libere contro il potere.

La questione dell’impotenza, e quindi della depressione è diventata la questione generale del nostro tempo. La presidenza Obama è stato il trionfo dell’impotenza. Si è presentato dicendo yes we can perché sapeva fin dal principio che gli americani vogliono sentirsi dire che possiamo, mentre l’esperienza dice e ripete che non possiamo niente. Non possiamo fermare la guerra non possiamo mettere sotto controllo il potere della finanza, non possiamo impedire alla gente di comprare armi dal fruttivendolo non possiamo calmare l’ansia assassina del popolo bianco e il fascismo crescente nel mondo.

Obama ha stimolato insieme il desiderio di solidarietà che non ha trovato concretezza, e il rancore aggressivo di coloro che ingeriscono tonnellate di oppioidi e votano un razzista per esorcizzare la loro depressione.

Infatti ecco Trump, la concrezione degli incubi più spaventosi e al tempo stesso la realizzazione dell’incubo razzista di un’umanità che aspira alla violenza come unico risarcimento della proprio miseria e della inconfessabile depressione come ho capito leggendo Jonathan Franzen. Mark ha preferito affrontare la sua intima fragilità con sincerità.

Cerchiamo altri percorsi per curare la depressione dominante senza morire. Il comunismo è urgente perché è la sola cura autentica di un male che sta inquinando il pianeta non meno del global warming, non meno della bomba nucleare.

 

La traduzione in inglese del testo di Bifo sul sito Novara Media, a cura di Luca Miotto

How do we explain depression to ourselves?’ Bifo remembers Mark Fisher. On the death of the comrade Mark Fisher.

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