“L’imbroglio ecologico. L’ideologia della natura”, scritto da Dario Paccino nel 1972 per l’editore Einaudi, è stato pubblicato in una nuova edizione da Ombre corte. L’autore è stato un partigiano nella Resistenza, giornalista e saggista, oltre che militante del movimento antinuclearista, anche attraverso la direzione della rivista “Rossovivo”. Il libro, come si può leggere nella quarta di copertina, evidenzia che “l’ecologia pensata e tradotta politicamente senza aver presenti i rapporti di produzione e di forza sociali, rappresentava ipso facto un imbroglio. È quest’uso ideologico e mistificato della natura che l’autore contesta e problematizza in tutto il suo lavoro teorico e militante, cercando di mettere al centro del dibattito i rapporti di potere ed i meccanismi socio-economici che determinano lo squilibrio, con l’obiettivo di dare vita a una ecologia conflittuale finalizzata a costruire un rapporto equo ed armonico tra gli esseri umani, le organizzazioni sociali e la natura”.

Di seguito, si propongono in lettura un frammento dell’introduzione scritta da Gennaro Avallone, Lucia Giulia Fassini e Sirio Paccino e alcune pagine del libro.

 

Alle origini dell’ecologia politica in Italia

di Gennaro Avallone, Lucia Giulia Fassini e Sirio Paccino

Le lettrici e i lettori di questo libro, pubblicato in una nuova edizione a circa conquant’anni di distanza dalla prima del 1972, si ritrovano tra le mani “lo ‘scritto’ di un povero untorello, che si permette di ficcare il naso nel sancta sanctorum dell’ecologia, per accertarsi se per caso non abbia trovato rifugio proprio lì il vecchio dio dei padroni”.

È con queste parole che l’autore si definì in una lettera alla rivista “Ecologia”, inviata nello stesso 1972. Già da queste parole è chiaro il tumulto che Paccino sollevò con questo suo libro, e in generale con i suoi scritti, nell’ambiente culturale e scientifico italiano dell’epoca. Cercare e studiare i suoi lavori pubblicati tra gli anni Cinquanta e Novanta del secolo scorso scatena un’intensa tempesta intellettuale, emotiva e umana. Sono molte le testimonianze che ricordano la ricchezza della sua produzione culturale e politica, così come molte sono le collaborazioni dello stesso Paccino, che non si è mai risparmiato nell’analisi dei rapporti socioecologici, di produzione e di potere all’interno dell’organizzazione capitalistica.

Giorgio Nebbia, tra i principali studiosi in Italia di temi ambientali, ad esempio, lo ha definito un ecologo inquieto, “un anticipatore di problemi che sarebbero esplosi molti anni dopo e che avrebbero preso il nome di ‘ecologia’, di attenzione, cioè, ai rapporti fra gli esseri umani e il mondo circostante”. Anticipazioni come quelle presenti in Domani il diluvio, pubblicato nel 1970 con una presentazione del docente e studioso di botanica ed ecologia Valerio Giacomini, relative alle alterazioni ambientali che avrebbero potuto trasformare ogni pioggia abbondante in un diluvio. Nella presentazione di quel testo, Giacomini scrisse di Paccino come di un “terzo uomo”, colui che “si incarica di creare una comunicazione fra il produttore specialistico di scienza e di tecnica (‘primo uomo’) e qualsiasi altro uomo (‘secondo uomo’) che manifesti ben legittime esigenze di informazione e di conoscenza. Ha tanto più diritto – il secondo uomo – a questa informazione quando si tratta di questioni che riguardano interessi fondamentali della sua stessa esistenza e sopravvivenza”.

Questa capacità di lettura e comunicazione è stata accompagnata da una serie di visioni che hanno precorso i tempi sul piano sia degli eventi storici che della proposta teorica. Peppe Sini, direttore responsabile del Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo, ad esempio, lo ha apertamente riconosciuto: Paccino “fu tra i primi a farci conoscere le nuove lotte degli indiani d’America, […] fu tra i primi a svolgere un discorso ecologico non ingenuo e non subalterno, fu tra coloro che sulla scienza e le tecnologie seppero dire cose vere e decisive. Nella lotta antinucleare fu un compagno prezioso e generoso; e nell’opposizione alla guerra, ai suoi strumenti, ai suoi apparati, alle logiche e ideologie sue”.

Siamo di fronte a un intellettuale, dunque, sebbene lo stesso Paccino in un’intervista abbia evidenziato che “da questo punto di vista, io non sono un intellettuale: mi limito a svolgere una funzione, sia pure schizofrenicamente, poiché in me convivono (per quella grande ‘volgarità’ che è il pane) il professionista e il militante. Non sentendomi prigioniero di alcun ruolo”.

È un viaggio necessariamente tumultuoso quello che si fa nell’opera di Paccino, che ne L’imbroglio ecologico trova un testo centrale della sua elaborazione, capace di segnare un momento fondativo in Italia dell’analisi anticapitalista dei rapporti capitale-natura-società.

Considerato il periodo storico nel quale viene riproposto, caratterizzato anche da posizioni politiche che misconoscono i grandi mutamenti socioecologici in corso, in particolare quelli connessi al cambiamento climatico e al riscaldamento globale, è necessario premettere che L’imbroglio ecologico non sostiene alcuna ipotesi negazionista. Al contrario. L’imbroglio di cui si parla, infatti, non si riferisce al fatto che la rilevanza della crisi ecologica sarebbe sovradimensionata o, addirittura, inventata, ma al fatto che essa viene affrontata attraverso un inganno, che consiste nell’evitare di andare alla radice delle cause strutturali che l’hanno prodotta e la riproducono. Tanto è vero che il libro “è dedicato a coloro che per guadagnarsi il pane devono vivere in habitat, che nessun ecologo accetterebbe per gli orsi del Parco Nazionale d’Abruzzo e gli stambecchi del Parco Nazionale del Gran Paradiso: gli operai delle fabbriche e dei cantieri”.

L’ecologia, praticata, sostenuta e divulgata senza tenere presenti i rapporti sociali di produzione e di forza, si trasforma in un’ideologia che copre e fa scomparire sia lo sfruttamento del lavoro sia i processi di messa a profitto della natura. È a questo uso dell’ideologia della natura che Paccino si riferisce, cercando di riportare al centro dell’attenzione i rapporti di potere e i meccanismi socioeconomici che danno vita alla crisi ecologica, in alternativa ad altre strategie che non si confrontano, per scelta o per la loro impostazione analitica, con gli effetti e i vincoli strutturali propri del modo capitalistico di produzione e di organizzazione della natura. […]

L’imbroglio ecologico e l’ecologica politica di Dario Paccino

Vincenzo Miliucci, storico esponente del Comitato politico dell’Enel e delle lotte contro il nucleare e per i beni comuni, ha scritto, in una nota del 4 giugno 2020 intitolata “15 anni senza Dario”, che è necessario confrontarsi al presente con i testi di Paccino, a partire dal libro qui ripubblicato, considerata l’evidenza e l’urgenza con “cui è venuta a ripresentarsi la coscienza della catastrofe ecosistemica dovuta al modello capitalistico di produzione e consumi, che fa dire alle nuove generazioni che si mobilitano ad ogni latitudine che responsabile non è il clima, ma il sistema”. Se si considera l’irruzione della pandemia da Covid-19, nella quale si sono riscontrate anche connessioni dirette tra produzioni capitalistiche e diffusione di agenti patogeni, questa necessità appare ancora più evidente, “non essendo pensabile che la vita umana possa perdurare per molto tempo sul nostro pianeta, se si continua a prediligere nella produzione (e quindi nel rapporto con la natura) il capitale”

È questa una delle tesi al centro de L’imbroglio ecologico, che costituisce una profonda critica all’ambientalismo istituzionale e all’uso capitalistico della natura, elaborata per evidenziare quanto il nesso natura-capitale sia fondamentale per i processi di accumulazione capitalistica, così come per le prospettive della lotta di classe (…).

Ecco, quindi, che l’ecologia diventava un imbroglio laddove viene considerata come scienza autonoma dai processi di produzione e dai conflitti sociali che ne scaturiscono. Questo timore e la necessità di una critica pratica dell’economia e dell’ecologia dominanti sono ancora più fondati oggi, in un mondo in cui, nel 2019, si contano circa 620 milioni di persone che soffrono la fame, secondo i dati del rapporto ONU sull’alimentazione, il cui stato di denutrizione dipende anche dai cambiamenti climatici, che hanno alterato le stagioni agricole e, quindi, i raccolti disponibili a causa di siccità e alluvioni, oltre che dalle guerre diffuse e dalla crisi economica.

Di fronte alla degradazione accelerata degli ambienti di vita, alla moltiplicazione e diversificazione delle forme di saccheggio delle cosiddette materie prime, alla diffusione di malattie e cancerogeni, alla proliferazione delle armi nucleari, biologiche e chimiche – processi già osservati da Paccino nel libro del 1972 e in successive pubblicazioni – non sono sufficienti le prese di posizione dell’etica ecologica, che non mettono in discussione le necessità socioeconomiche vigenti ma, semplicemente, si affermano come “ecologia del padrone”. In questa modo nulla cambia di un sistema di produzione che si basa sul ricatto dell’alternativa tra inquinamento e disoccupazione, come vissuto dagli abitanti della città di Donora negli Stati Uniti, a seguito del disastro ambientale che colpì questa comunità della Pennsylvania nel 1948, e di tutte le “Donora” del mondo, Taranto con l’Ilva compresa, e che non può fare a meno del saccheggio e di crescenti disuguaglianze socioecologiche. Così come quello che nel testo si definisce il leviathan socio-economico non può rinunciare a un’ideologia della natura che la banalizza, la riduce a cosa e la separa dall’organizzazione sociale e dalla storia umana, riproducendo un dualismo umanità-natura funzionale alla sua feticizzazione e subordinazione oltre che al sostegno alla nascente industria del disinquinamento, antesignana della cosiddetta green economy che si affermerà alla fine del secolo.

Il successo dell’ideologia ecologica non cancella la rilevanza dell’ecologia. Come Paccino scrive in una nota, “non si vuole con questo ignorare quanto vi può essere di positivo nella spinta ecologica. […] L’ecologia […] può costituire uno dei più validi motivi per lottare contro il capitalismo. Il che non toglie che siano tanti coloro che scambiano il folklore con la lotta, e questo anche nella ‘nuova sinistra’”. Le critiche di Paccino si concentrano anche sulla sinistra politica, compresa la sua espressione statuale che si richiama al comunismo in Unione Sovietica e quella filosofico-politica rappresentata dal marxismo ufficiale. Entrambe queste esperienze hanno rifiutato un caposaldo di qualunque concezione materialistica della storia naturale e umana, quello secondo cui “è l’ecologia (intesa come storia naturale) l’eterno prius dell’uomo”. Di conseguenza, sul piano delle politiche realizzate “non fa eccezione l’Urss, dove il padrone (il burotecnocrate) e la struttura socioeconomica che gli conviene costituiscono un leviathan analogo a quello occidentale”. In sintesi, “per l’ecologia […] Usa e Urss sono sostanzialmente la stessa cosa”. Mentre sul piano analitico, in dialogo con le analisi sviluppate da Sebastiano Timpanaro, si evidenzia la necessità di “rimettere la filosofia marxista sulle proprie gambe, ponendo come prius di tutto (anche dell’essere sociale), e non solo come antefatto dato una volta per tutte, l’essere naturale”.

L’esperienza sovietica, e in parte quella cinese (cui dedicherà il libro successivo, L’ombra di Confucio) verso la quale Paccino nutre maggiore speranza considerando i presupposti in parte diversi sui quali la Rivoluzione (compresa quella culturale) si è fondata, dimostra che andare oltre il padrone non è sufficiente, sebbene necessario. Nessuno è sicuro che un processo rivoluzionario rimetterà al centro il riconoscimento del primato e dell’imprescindibilità dell’organizzazione bioecologica, ma è certo che nessuna politica dei due tempi (prima il potere, poi la lotta ecologica) può dare esiti positivi. È necessaria da subito un’ecologia conflittuale, anch’essa non sufficiente da sola, che si concentri immediatamente sugli obiettivi della salute negli ambienti di vita (dentro e fuori i luoghi di lavoro), come indicato ripetutamente anche dagli studi coevi di Giulio Maccacaro sui nessi tra scienza, malattia, salute e capitale e, seppure con orientamenti politici diversi, di Giovanni Berlinguer, ad esempio sulla malaria urbana, elaborati in connessione con le lotte operaie e popolari contro le nocività dentro e fuori le fabbriche, contro lo scambio tra salario e salute e sui temi del governo del territorio […].

 

Da L’imbroglio ecologico. L’ideologia della natura

Capitolo “Ideologia o rivoluzione”. Domani potrebbe essere la catastrofe

di Dario Paccino

Mentre politicamente il cammino che la Cina fa sul terreno della rivoluzione, è cammino fatto anche per i rivoluzionari di tutto il mondo, il cammino ecologico vale per la Cina soltanto, e non sempre, che, ad esempio, se gli altri le inquinano i mari, la fauna marina arriva inquinata sul desco dei cinesi, anche se la repubblica pratica la più rigorosa politica ecologica. Se dunque l’imperativo di camminare con le proprie gambe, vale per la politica in generale, vale ancor più per l’ecologia, che nessuna rivoluzione culturale cinese potrà arrestare il progressivo deterioramento dei nostri habitat, sacrificati dal padrone sull’altare del profitto. Ragione per cui, rimandando la lotta ecologica al momento successivo all’emarginazione del padrone capitalista, si rischia la complicità con lui nella preparazione della catastrofe che sta preparando; in ogni caso si rinuncia a impugnare nella lotta un’arma altrettanto valida di quella per la salute in fabbrica: salute, per altro, che può essere tutelata soltanto se, a misura d’uomo, oltre la fabbrica, si fa anche la città, liberando entrambe dalla degradazione che le accomuna.

Indubbiamente, in tempi di fanfecologia dilagante, la stessa parola ecologia non può non suscitare sospetto. Ma c’è un criterio infallibile per distinguere l’ideologia ecologica dalla lotta rivoluzionaria per l’ambiente, ed è la conflittualità. Dove son tutti d’accordo, come in parlamento, dal Msi al Pci, sui grandi temi ecologici, non c’è dubbio che il padrone sta consumando un altro imbroglio. Ma altrettanto chiaro è che nessun partito del sistema accetterebbe un’ecologia che, in armonia con la proposta rivoluzionaria marxista, ponga l’imperativo di ristabilire il prius naturale, posposto dalla cultura del padrone al leviathan socioeconomico.

Certo, non è con la sola ecologia conflittuale che si arriva, finché c’è un padrone, alla fabbrica a misura d’uomo. Ma si otterrebbe almeno il risultato di spuntare un’arma ideologica, mostrando chi sia l’unico, vero responsabile della quotidiana strage ecologica. E si contribuirebbe a rimettere la filosofia marxista sulle proprie gambe, ponendo quale prius di tutto (anche dell’essere sociale, e non solo come antefatto dato una volta per tutte) l’essere naturale. A questo fine però bisognerebbe che i primi ad essere convinti che la natura è il prius di tutto, fossero i marxisti, quelli almeno che si contrappongono come reali antagonisti del padrone. Il che generalmente non è, in quanto l’arma critica che ha consentito loro di rompere, sul terreno socioeconomico, col revisionismo di stampo sovietico, non è valsa, per lo più, a consentir loro, rispetto alla realtà naturale, il riscatto dalla subordinazione all’idealismo, contro la quale partì in guerra Lenin con Materialismo ed empiriocriticismo, e che oggi serve alla burofilosofia sovietica per teorizzare la perenne validità, anche in regime socialista, della divisione sociale del lavoro.

Osserva Timpanaro nell’opera citata che “la posizione del marxista odierno, a volte, sembra simile a quella di chi, standosene al primo piano di una casa [struttura (N.d.R.)], dicesse rivolto all’inquilino del secondo piano [sovrastruttura (N.d.R.)]: “Lei crede di essere autonomo, di reggersi da solo? Si sbaglia! Il suo appartamento si regge solo perché poggia sul mio, e se crolla il mio, crolla anche il suo”; e viceversa all’inquilino del pianterreno [natura (N.d.R.)]: “Cosa pretende lei? di sorreggere, di condizionare me? Povero illuso! Il pianterreno esiste solo in quanto è il pianterreno del primo piano. Anzi, a rigore, il vero pianterreno è il primo piano, e il suo appartamento è solo una specie di cantina, cui non si può riconoscere vera esistenza”.

A dire il vero, da parecchio tempo i rapporti tra il marxista e l’inquilino del secondo piano sono sensibilmente migliorati, non perché l’inquilino del secondo piano abbia riconosciuto la propria “dipendenza”, ma perché il marxista ha molto diminuito le sue pretese, ed è arrivato ad ammettere che il secondo piano è in larghissima misura autonomo dal primo, o, se non altro, che i due appartamenti “si sorreggono a vicenda”. Ma verso l’abitatore del pianterreno il disprezzo si è fatto sempre più pronunciato”.

Che, nonostante la ben nota ammirazione di Marx per Darwin, e nonostante la presenza nella letteratura marxista di opere come Dialettica della natura e Materialismo ed empiriocriticismo, sia potuto sorgere e accentuarsi questo disprezzo per la natura, si può anche comprendere, considerando l’esigenza di denunciare le ideologie scientiste come un nuovo inganno del padrone. Sta di fatto però che quando Gramsci, per sfuggire alla trappola positivistica, finisce col negare la realtà naturale, cade in una trappola peggiore (perché più arretrata) di quella positivistica: la trappola dell’idealismo agrario italiano, senza neppure rilevarne l’arcaicità rispetto all’ideologia empiriocriticista dell’imperialismo maturo (industriale). Se Gramsci ha potuto fare di Benedetto Croce, nel dibattito culturale, il proprio interlocutore privilegiato, è perché il suo marxismo, al pari di quello di Mondolfo, e in genere della socialdemocrazia imperialista, aveva scaricato la natura, perdendo così uno dei due ancoraggi che impediscono al materialismo dialettico di naufragare nella dialettica idealistica. Rotto quell’ancoraggio, quell’altro (della dipendenza della coscienza dall’essere sociale) non pare sia tale da garantire dalle contaminazioni idealistiche, come dimostra infatti l’omaggio del marxismo alle più scoperte ideologie del padrone, dalla psicanalisi all’esistenzialismo. Sempre, quando si subisca l’inquinamento ideologico del padrone, si perde terreno nella lotta, anche quando resti intatta (come in Gramsci) la proposta rivoluzionaria, ché in ogni caso risulta indebolita la capacità critica di analisi della realtà delle cose. Ed è infatti nel solco della tradizione gramsciana, che si è creduto di vedere il momento della rottura nello storicismo togliattiano, senza avvedersi che punto di partenza e di arrivo del suo venire da lontano e andare lontano non era la scienza di Galileo e la rivoluzione ininterrotta di Mao, ma la nuova scienza di Vico e la burofilosofia dei mandarini sovietici.

Print Friendly, PDF & Email