Recensione di Francesco Barbetta al libro di Yurii Colombo, La Russia dopo Putin, Castelvecchi Editore, Roma 2022, p. 140. Prefazione di Toni Negri.

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L’ultimo libro di Yurii Colombo La Russia dopo Putin, (Castelvecchi Editore, 2022), ci consente di riflettere sulla genesi del regime russo, le motivazioni che lo hanno spinto ad invadere l’Ucraina e le possibili conseguenze del conflitto sulla sua tenuta. L’autore spiega immediatamente come mai la guerra è scoppiata proprio in Ucraina: “Se l’ordine capitalistico mondiale dopo la tempesta perfetta del 2008 non ha più ritrovato un suo equilibrio, l’universo post-sovietico non lo ha mai raggiunto, e proprio per questo diventa l’epicentro delle tensioni internazionali.” (La Russia dopo Putin, p. 26)

A sostegno di questa tesi porta svariati esempi di guerre e rivolte che hanno infiammato le ex repubbliche dell’URSS. Ad esempio le rivolte innescate da uno sciopero generale in Kazakistan nel gennaio del 2022, l’invasione russa della Georgia nel 2008 o le rivolte in Bielorussia a causa delle elezioni-farsa dell’agosto del 2020. L’Ucraina non è un’eccezione in questo mondo instabile. Colombo descrive un paese con un grande potenziale economico ma con un prodotto interno lordo pro capite, prima dell’invasione russa, di 3000 dollari l’anno ed enormi opportunità d’investimento grazie a una forza lavoro istruita e molte risorse naturali. Tuttavia, dalla sua indipendenza, è ostaggio di un’oligarchia estremamente corrotta le cui responsabilità ora si sommano ad un indebitamento insostenibile per far fronte alla guerra.

“Il debito pubblico estero dell’Ucraina dopo l’inizio del conflitto ammonta complessivamente a 54 miliardi di dollari. Solo nel 2022 ha dovuto pagare 7,3 miliardi di dollari di interessi. Più della metà è dovuta a creditori privati come banche e hedge fund, mentre la maggior parte del rimanente è dovuta a istituzioni multilaterali come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca Europea per gli investimenti.” (p. 31)

Una situazione simile a quella vissuta da molti paesi latinoamericani per cui il debito ha rapidamente assunto la forma di un cappio al collo. Insomma, la guerra è una grande opportunità per il capitale per appropriarsi delle risorse ucraine in cambio del pagamento del debito. Colombo fa riferimento a uno studio dell’Oakland Institute che descrive le richieste dei creditori occidentali al governo ucraino che includono una riforma fondiaria per facilitare l’acquisizione delle fertili terre ucraine e la privatizzazione delle aziende pubbliche.

Per quanto riguarda la Russia, l’autore ci offre una spiegazione dettagliata dell’ascesa al potere di Putin e dei mutamenti della struttura economica russa. Sappiamo che Putin ha lavorato per il KGB nella DDR e quando l’URSS si è dissolta ha iniziato a lavorare per il sindaco di San Pietroburgo Anatoly Sobchak. Nel 1998 diventa il capo del FSB (erede del KGB) con il compito, mai realizzato, di diminuire il personale dei servizi segreti russi a 4000 unità. Nel 1999 Eltsin lo individua come suo erede e diventa premier. Eltsin lo considerava “un liberale ma cekista, capace di collaborare con gli americani ma di mostrare i denti come lui [Eltsin] non era riuscito a fare di fronte all’attacco della Nato alla Serbia l’anno prima.” (p. 52)

Dopo la vittoria delle elezioni presidenziali iniziò una feroce guerra, dal carattere populista, contro gli oligarchi che si erano arricchiti durante gli anni ‘90 a spese della maggioranza dei russi. L’operazione serviva per mettere le mani sull’industria energetica russa utilizzando oligarchi e manager a lui fedeli. Contemporaneamente introdusse una flat tax del 13% e un nuovo Codice del Lavoro che “rendeva illegali gli scioperi qualora non fossero legati al mancato pagamento dei salari” (p. 53)

Dopo il 2007 avviene la svolta nella politica estera di Putin. Intuisce che nel mondo, anche grazie all’ascesa di paesi come Cina e India, i rapporti di forza stavano cambiando e prova ad agganciare la Russia a questa tendenza, consapevole della mancanza di risorse per scalare in solitaria le gerarchie della globalizzazione. Infatti Colombo sostiene che la Russia ha potuto solo mimare, per questo motivo, una politica estera finalizzata allo sviluppo dell’ex Terzo Mondo.

La Russia, infatti, è un “impero della periferia”, per usare la definizione di Boris Kagarlitsky, già dal Sedicesimo secolo, quando forniva materie prime per la marina e l’industria inglese in cambio di tecnologie. Questa posizione periferica nell’economia-mondo è una costante della storia russa, con l’eccezione del tentativo staliniano di creare un mercato mondiale alternativo a quello occidentale. Nella divisione internazionale del lavoro già negli anni’ 70 l’URSS iniziò a vendere all’Occidente le proprie materie prime in cambio di tecnologie e risorse finanziarie per poterle estrarre. Alla dissoluzione dell’URSS è seguita la deindustrializzazione di molte regioni della Russia che ha coinvolto in particolare le attività ad alto contenuto tecnologico mentre cresceva la produzione di materie prime e prodotti semilavorati.

Questo processo non è stato uniforme né a livello nazionale né in tutti i settori. Yurii Colombo fa l’esempio dell’industria metallurgica russa, rimasta competitiva anche dopo la fine del socialismo reale e non a caso è stata messa in crisi dalle sanzioni occidentali. Oppure, per quanto riguarda le disparità territoriali venutesi a creare, città come Mosca e San Pietroburgo iniziarono a catturare una quota crescente del reddito nazionale grazie allo sviluppo di attività finanziarie e commerciali mentre altre regioni, come quella del Volga, subirono un rapido processo di impoverimento e deindustrializzazione.

A tutto questo si aggiunse la crisi del 1998. Il tasso di cambio mantenuto su un livello sopravvalutato, unitamente alla maggiore apertura all’importazione di beni di consumo, ha eroso la produzione industriale nazionale.

Diversamente da molti marxisti eretici come Amadeo Bordiga e Charles Bettelheim, per Colombo l’URSS non era un capitalismo di Stato, anzi, questo è stato realizzato in Russia proprio da Putin. L’autore ha iniziato a sostenere questa tesi già nel libro “La sfida di Putin. Come cambierà la Russia” in cui affermava che, in questo periodo della storia russa, il settore statale è passato dal 30% al 70% del PIL. E ora aggiunge che:

“Due terzi della capitalizzazione di borsa sono in mano di aziende statali anche solo attraverso il controllo della maggioranza dei pacchetti azionari. (…) Il capitalismo di Stato rappresenta anche la base di massa del consenso al regime. In un’inchiesta pubblicata dal portale “Kapital Strany” si viene a conoscenza del fatto che le persone che dipendono dal bilancio in Russia sono 60 milioni, di cui 17,5 milioni sono dipendenti pubblici (43 milioni di persone sono pensionate).”(p. 93-95)

Questa trasformazione è stata accompagnata dall’istituzione di un finto processo elettorale in cui possono avere spazio solo opposizioni fittizie, come il partito comunista russo, con percentuali di voti modeste ma non irrilevanti. Il partito di Putin, Russia Unita, ha assicurata la maggioranza assoluta che si accompagna con l’esclusione di tutte le forze politiche antisistema dalla Duma.

Colombo ha sostenuto in più occasioni che la Russia è una variante particolare di semiperiferia, “a causa della sua estensione geografica, del peso del suo arsenale nucleare e delle dimensioni del mercato” (La sfida di Putin. Come cambierà la Russia, p. 48)

Il concetto di semiperiferia è molto scivoloso perché difficile da definire. A grandi linee la semiperiferia allevia la congestione del capitale nel centro dell’economia-mondo. Quando avviene un cambiamento nella situazione internazionale e il centro ha bisogno di reindirizzare il capitale investito in un certo processo, ormai non così redditizio, la semiperiferia assorbe questo capitale, spesso sotto forma di investimento diretto all’estero. La fascia di paesi periferici più competitiva può ottenere profitti da processi produttivi divenuti meno monopolizzati e che verranno trasferiti dal centro. Questo trasferimento avviene perché, nella nuova congiuntura, non è più possibile estrarre il massimo saggio di profitto mantenendo questo processo produttivo nel paesi del centro dell’economia-mondo. Per ottenere il massimo profitto è necessario sfruttare i vantaggi competitivi di altri paesi.

È importante rendersi conto che questo trasferimento di capitali dal centro verso la semiperiferia è una scelta basata sulla prospettiva di raccogliere sempre il massimo profitto possibile. Quindi, l’espansione geografica del capitale implica l’approfondimento dei rapporti di sfruttamento e, di conseguenza, contribuisce a promuovere livelli più elevati di ricchezza e concentrazione del reddito. Il capitalista non sceglie di sviluppare quell’area periferica, è obbligato a farlo. Per questo Giovanni Arrighi parlava dell’illusione dello sviluppo attraverso la quale passa la semiperiferia. Ecco perché tutti i tentativi russi per sviluppare produzioni ad alto valore aggiunto sono falliti (Colombo cita la società statale Rosnano per quanto riguarda le nanotecnologie e il telefono russo YotaPhone) senza alcuna ripercussione per i manager vicini al potere di Putin, nonostante gli investimenti pubblici stanziati.

Tuttavia la Russia è una semiperiferia particolare soprattutto per la sua potenza militare e per l’appartenenza ad organismi internazionali come il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, di cui è membro permanente con diritto di veto.

“Il tipo di borghesia che si sviluppa nei paesi semiperiferici è stata definita “compradora” perché si pone nella catena delle relazioni centro-periferia come un anello di congiunzione tra il centro e lo sfruttamento delle materie prime. Questa borghesia si distingue per parassitismo, conservatorismo, sottomissione al centro fino a quando i propri interessi non sono messi in discussione. Nella variante inedita russa questo ruolo viene accettato con beneficio d’inventario, nell’attesa di riuscire ad entrare a far parte del “club dei grandi” o di costruire un centro alternativo.” (p. 49)

Ora resta da collegare l’analisi della struttura economica russa alla guerra. Molti compagni, in Italia come in Russia, hanno sfruttato la definizione di Russia come paese semiperiferico per giustificare la guerra, definendola una guerra difensiva. Spesso l’argomento principale a sostegno di questa tesi è la natura non imperialista della Russia a causa della sua economia. Colombo non affronta questa questione nel dettaglio ma la ritengo importante per sgombrare il campo da ogni ambiguità sulla guerra a sinistra.

Queste analisi ignorano la proprietà effettiva dei mezzi di produzione e la proprietà effettiva delle concentrazioni di credito nel circuito monetario, ovvero la capacità di allocare surplus o di implementare misure di stabilizzazione del saggio medio. L’imperialismo diventa letteralmente un rapporto tra PIL e PIL pro capite e quindi se un paese è più ricco di un altro è conseguentemente più imperialista. Nel caso russo abbiamo una nazione completamente sconfitta dalla globalizzazione e perciò si collega a pratiche di imperialismo regionale novecentesche. Ed è esattamente la tesi di Colombo quando afferma che: “questa guerra, da parte russa, si spiega (…) con il tentativo di colmare il gap che non le permette di restare tra le prime economie del mondo neppure dal punto di vista nominale.” (La Russia dopo Putin, p.107)

Questo declino economico non dipende dalla guerra o dalle sanzioni ma dal funzionamento stesso del regime russo che prova a trovare nell’invasione dell’Ucraina una soluzione ai suoi problemi. Questo tentativo è già fallito e occorre provare a delineare il futuro della Russia dopo la guerra. Gli scenari proposti sono tre.

Il primo è lo scenario iraniano. Il regime russo sopravvive alla guerra, annettendo solamente il Donbass e poche altre porzioni di territorio ucraino, ma non riesce minimamente a scalare nelle gerarchie della globalizzazione. L’opposizione al regime prende la strada dell’esilio e la classe lavoratrice russa è atomizzata e incapace di mettere in discussione la dittatura di Putin. Per Colombo è lo scenario maggiormente probabile. Il paragone con l’Iran viene direttamente da Jacob Mirkin, noto economista russo, il quale afferma che “se il regime di Putin dovesse reggere si potrebbe trasformare dal punto di vista economico per il 65-70% di probabilità in qualcosa di simile all’Iran” ovvero un paese capace di “sopravvivere per decenni semi-isolato dalla comunità internazionale e schiacciato dalle sanzioni”(p. 115) in cui, nonostante le sue vistose contraddizioni interne, il potere riesce comunque a riprodursi e sopravvivere.

Il secondo scenario è chiamato “variante Krusciov” cioè una rivoluzione politica dall’alto proveniente dalla stessa classe dirigente russa, magari con l’intento di salvare il paese addossando tutte le responsabilità della guerra a Putin per riprendere le relazioni politiche ed economiche con l’Occidente. L’unica certezza è che una simile rivoluzione dall’alto non potrà essere guidata dall’élite economica del paese che dipende direttamente dal Cremlino.

Il terzo scenario è l’ipotesi meno probabile al momento proposta da Colombo, ovvero una rivoluzione democratica che rovescia il regime di Putin. I dissidenti attualmente sono in galera o in esilio, elemento che rende difficile la ricostruzione di una forte opposizione organizzata nel breve periodo.

Colombo ha sempre affermato che questa guerra debba essere fermata il più presto possibile, altrimenti l’espansionismo russo ne creerà di nuove in tutto lo spazio dell’ex URSS ma “sarebbe un errore grossolano pensare di umiliare i russi. Liberarsi di Putin e del suo regime è compito del popolo russo e solo di esso, anche se il dovere di ogni internazionalista è ovviamente solidarizzare con le loro battaglie. Questa sconfitta può avere diversi sbocchi e condurre a nuovi, più violenti scontri in Europa oppure allo sviluppo di una fase in cui gli interessi, le culture, le vicende dei diversi popoli che ci vivono possano trovare una sintesi, nuovi equilibri: dove ci possa essere una rinnovata cooperazione economica, sociale, culturale. Un’Europa non segnata dall’aumento del militarismo e dallo “scontro di civiltà”. Se vuole esistere politicamente, l’Europa non può che includere la Russia.” (p. 133).

 

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