Esce oggi per Ombre Corte La natura è un campo di battaglia. Saggio di ecologia politica, di Razmig Keucheyan (edizione originale: La nature est un champ de bataille. Essai d’écologie politique, Paris, La Découverte, 2014). Condividiamo la notizia pubblicandone un estratto, che continua molte delle riflessioni portate avanti in Effimera attorno ai temi dell’ecologia politica.

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La finanziarizzazione dell’assicurazione contro le catastrofi climatiche da parte degli Stati ha una ragione profonda, il cui esame consente di mettere in relazione le questioni ecologiche con il capitalismo e le sue crisi

[…] Una caratteristica della crisi in corso è l’aumento vertiginoso dei debiti sovrani, vale a dire l’indebitamento degli Stati al centro dell’economia mondiale, Stati Uniti ed Europa in testa. Questo indebitamento è il frutto della consistente diminuzione delle imposte, di ispirazione neoliberista, per i più ricchi, e delle entrate fiscali a causa del rallentamento della crescita e del salvataggio delle banche e di altre istituzioni finanziare da parte dello Stato al momento della crisi. La crisi dei debiti sovrani interviene nel contesto di quella che alcuni autori, tra cui James O’Connor e Wolfgang Streeck, hanno chiamato “crisi fiscale dello Stato”. Questa espressione indica il fatto che gli Stati non hanno più i mezzi finanziari per le loro politiche e che si tratta di un dato strutturale, e non solo passeggero, comparso nell’ultimo quarto del xxsecolo. Tale dato strutturale è stato ulteriormente aggravato dalla crisi dei debiti sovrani.

Secondo Streeck, oggi gli Stati sono posti di fronte a due obblighi contrastanti: da un lato, consolidare le loro finanze pubbliche, che dovrebbe consentire loro in particolare di prestare a tassi d’interesse più bassi degli attuali, dato che la riduzione del deficit e del debito è imposta dai mercati. Dall’altro, continuare a fornire alle loro popolazioni elevati livelli d’investimento pubblico nell’istruzione, nella sanità, nelle pensioni…, dato che le aspettative delle popolazioni in termini di benessere, almeno a partire della fine della Seconda Guerra mondiale, non smettono di aumentare[1]. In periodi di tassi di crescita storicamente bassi da diversi decenni, questi due obblighi sono impossibili da conciliare. È quanto porta Streeck, che su questo punto si rifà a O’Connor, ad affermare che il capitalismo e la democrazia non saranno più compatibili per molto tempo.

La crisi fiscale dello Stato è fortemente legata alla crisi ambientale. A causa della crisi fiscale che attraversano, gli Stati sono sempre meno in grado di farsi carico del costo assicurativo delle catastrofi climatiche con mezzi convenzionali, vale a dire principalmente con la tassazione. E lo saranno ancora meno se si considera che il numero e la potenza di queste catastrofi aumenteranno per effetto del cambiamento climatico. Sta qui il punto di fusione tra la crisi ecologica e la crisi finanziaria. Questo vale per tutte le regioni del mondo, ma a maggiore ragione per gli Stati più fragili. I paesi in via di sviluppo sono spesso i più duramente colpiti dalle catastrofi climatiche, non solo perché è qui che avvengono, ma anche perché i mezzi di cui dispongono per farvi fronte sono assai inferiori a quelli di cui dispongono i paesi sviluppati. L’innalzamento del livello dei mari riguarda tanto i Paesi Bassi quanto il Bangladesh, ma evidentemente è preferibile doverlo affrontare nel primo piuttosto che nel secondo dei due paesi. L’isola caraibica di Granada rappresenta un caso istruttivo. Nel 2004 è colpita dall’uragano Ivan, quando il suo debito è pari al 90 per cento del Pil. Incapace di affrontare le spese conseguenti alla catastrofe, visto il livello di indebitamento, Granada è costretta a dichiarare fallimento un anno dopo.

La crisi fiscale spinge gli Stati a una sempre maggiore finanziarizzazione dell’assicurazione dei rischi climatici. La cartolarizzazione è considerata come un’alternativa alla tassazione e alla solidarietà nazionale. La crisi fiscale dello Stato, la crisi ambientale e la finanziarizzazione sono dunque tre fenomeni fortemente connessi. Questa tesi può essere generalizzata. In origine, lo sfruttamento della natura non costava nulla o quasi. Col tempo, l’esaurimento delle risorse porta però al loro rincaro, mentre anche la gestione dei nefasti effetti dello sviluppo – lotta contro l’inquinamento, costi legati alla salute dei lavoratori, incidenti climatici… – è sempre più costosa. Questa tendenza influisce sulla diminuzione del tasso di profitto. Che fa allora il capitalismo? Trasferisce allo Stato l’aumentato costo della riproduzione delle condizioni di produzione. È la logica del sistema: socializzazione dei costi, privatizzazione dei profitti. L’aumento dei costi relativi alle condizioni di produzione determina una crisi fiscale dello Stato. Le entrate fiscali non aumentano con lo stesso ritmo delle spese, anche perché a partire dagli anni Settanta il tasso di crescita dei paesi da tempo sviluppati è negativo. Le finanze pubbliche sono pertanto strutturalmente deficitarie.

La crisi fiscale porta lo Stato a chiedere sempre maggiori prestiti sui mercati finanziari, per poter finanziare le proprie spese e gli investimenti e ristabilire artificiosamente l’equilibrio dei suoi conti. È una delle cause della finanziarizzazione del capitale[2], dovuta soprattutto all’aumento dei costi delle condizioni di produzione e di quelli dello sfruttamento della natura. Il capitalismo sfrutta la natura, e questo comporta spese sempre più consistenti per lo Stato, che si affida ai mercati finanziari per affrontarle.

La crisi fiscale e la crisi ambientale interagiscono anche in altri modi. Una caratteristica dei nuovi rischi, come abbiamo visto, è l’ipercorrelazione, vale a dire il fatto che si ripercuotono su intere regioni. Una catastrofe danneggia per lungo tempo l’attività economica in un luogo. Ciò può portare a un rallentamento della crescita, che determinerà una diminuzione delle entrate fiscali, dato che sono proporzionali alla crescita. Questo rallentamento costringerà inoltre lo Stato a spendere di più per indennità di disoccupazione e altre prestazioni sociali. La crisi ecologica, moltiplicando le catastrofi, può dunque aggravare notevolmente la crisi fiscale dello Stato. Il costo del cambiamento climatico sul sistema di protezione sociale e su quello sanitario può essere ancora più indiretto. A causa del riscaldamento climatico, in alcune regioni che prima ne erano esenti, compariranno degli agenti patogeni[3]. Con l’aumento delle temperature, una parte crescente del territorio statunitense rischia per esempio di trovarsi esposta alla malaria. Questo tipo di rischio non mancherà di creare ulteriori spese sanitarie, rendendo ancora più profonda la crisi fiscale dello Stato.

 

Una natura derivata

[Esiste un’ampia varietà di prodotti finanziari collegati ai processi naturali, tra cui i cat bonde le quote di carbonio scambiate su mercati dedicati (carbon trading)]. I derivati climatici (weather derivatives) sono un altro esempio. Gli swap, i call, e i put sono alcuni esempi di derivati. I derivati climatici riguardano il tempo e non le catastrofi naturali. Riguardano variazioni non catastrofiche, la cui attivazione non implica l’interruzione del corso normale della vita sociale. Da un evento sportivo a un raccolto, passando per la grandine, un concerto rock e le oscillazioni del prezzo del gas, molti aspetti delle società moderne sono condizionati dal tempo. Si calcola che il 25 per cento del Pil dei paesi sviluppati possa subire l’effetto delle variazioni climatiche[4].

Un derivato climatico versa un importo finanziario nel caso in cui le temperature – o un altro parametro climatico – siano superiori o inferiori a una media, per esempio se il freddo, e dunque le spese energetiche, superano certi livelli, o se la pioggia limita l’affluenza in un parco dei divertimenti in estate. Nel settore agricolo, alcuni derivati hanno come riferimento il tempo di germinazione delle piante. Un indice come la “somma termica” (growing degree days) misura lo scarto tra la temperatura di cui mediamente ha bisogno un raccolto per maturare e la temperatura reale, che attiva una erogazione di denaro in caso di superamento di una determinata soglia. Nell’ambito di unoswap, due imprese colpite in modo opposto dalle variazioni climatiche possono decidere di assicurarsi a vicenda. Se un’impresa che opera nel settore dell’energia perde del denaro nel caso di un inverno troppo mite, e un’impresa che organizza eventi sportivi nel caso di un inverno troppo rigido, si verseranno una somma predeterminata a seconda che l’inverno sia mite o rigido[5].

Gli antenati dei derivati climatici sono comparsi nel settore agricolo nel xixsecolo, in particolare negli Stati Uniti, al Chicago Board of Trade, e riguardavano materie prime come il cotone e il grano[6]. Al momento della liberalizzazione e dell’apertura dei mercati finanziari negli anni Settanta e della proliferazione dei prodotti derivati che ne è seguita, i possibili sottostanti si sono moltiplicati. Le multinazionali dell’energia, tra cui la Enron, sono state dei pionieri in questo campo. Nel 1998-1999, negli Stati Uniti, un inverno particolarmente mite a causa del fenomeno di El Niño ha comportato perdite importanti per queste compagnie, il che ha accelerato l’ascesa dei derivati, con i quali esse hanno “spalmato” i loro rischi di perdita[7]. È vero che l’oscillazione di alcuni gradi comporta variazioni finanziare colossali per queste imprese. Dal 1999, i derivati climatici sono scambiati alla Borsa di Chicago, al Chicago Mercantile Exchange, storicamente specializzata in prodotti agricoli. La comparsa dei derivati climatici va di pari passo con una crescente tendenza alla privatizzazione dei servizi meteorologici, in particolare nei paesi anglosassoni[8]. Questi servizi costituiscono un’enorme posta in gioco finanziaria e politica, dato che sono loro, alla fine, che determinano le soglie oltre le quale un derivato si attiva.

L’apparizione dei derivati climatici deve essere considerata nel contesto più generale della “rivoluzione dei derivati” dell’ultimo terzo del xxsecolo, che è concomitante con la comparsa del neoliberismo[9]. Nella prima metà degli anni Settanta si ha l’abbandono dei tassi di cambio fissi tra valute. Ora che i tassi di cambio sono fluttuanti, i governi e le imprese devono potersi difendere di fronte ai rischi di impreviste oscillazioni monetarie, sulle quali sono direttamente indicizzati il commercio estero o i profitti. È appunto a questo che serviranno i derivati sui derivati, e poi i derivati sui buoni del Tesoro. Ma questa “rivoluzione dei derivati” avviene a Chicago, nello stesso luogo in cui erano stati creati i primi derivati agricoli, al Chicago Board of Trade e al Chicago Mercantile Exchange. Le competenze riguardanti i derivati agricoli sono così riconvertite nella creazione dei derivati sulle monete e altri sottostanti.

In un articolo intitolato Why environment needs high finance? (Perché l’ambiente ha bisogno dell’alta finanza?), tre teorici dell’assicurazione suggeriscono di istituire degli species swap, una forma di derivato riguardante il rischio di scomparsa delle specie[10]. L’intreccio tra finanza e natura assume qui una delle sue forme più radicali. L’idea è semplice: si tratta di rendere la conservazione delle specie redditizia per le imprese, in modo da indurle a prendersi cura di quelle minacciate presenti sul loro territorio. La conservazione delle specie è costosa, ed è per giunta il denaro pubblico a essere utilizzato, che in tempo di crisi tende a scarseggiare. L’argomento della crisi fiscale dello Stato, come si vede, si trova ancora una volta citato come fondamento della finanziarizzazione della natura. Un species swap si colloca tra lo Stato e un’impresa privata. Immaginiamo una varietà di tartarughe minacciata in Florida, che vive nelle vicinanze di un’impresa. Se il numero di esemplari aumenta perché l’impresa se ne prende cura, lo Stato le versa degli interessi. Questo consente di giustificare comunque delle attività di conservazione della natura agli occhi dei suoi azionisti, visto che diventano redditizie. Se al contrario il numero degli esemplari diminuisce, o si approssima all’estinzione, sarà invece l’impresa a versa del denaro allo Stato, affinché questo possa avviare un’operazione di salvataggio. Questo meccanismo dovrebbe incoraggiare i privati a farsi carico della protezione delle specie e consentire allo Stato di dedicare meno denaro a tale attività.

I “mutui ambientali” (environmental mortgages), una sorta di subprime il cui sottostante non è un bene immobiliare ma una porzione d’ambiente, i titoli garantiti dalle foreste (forest-backed securities), o i meccanismi di compensazione delle zone umide (wetlands) liberalizzate negli Stati Uniti dall’amministrazione Bush padre negli anni Novanta[11], sono altri esempi di prodotti finanziari dello stesso tipo.

 

Note

[1] Sul caso tedesco, cfr. Wolfgang Streeck, Endgame? The fiscal crisis of the German state, inAlister Miskimmon, William E. Paterson e James Sloam (a cura di), Germany’s Gathering Crisis. The 2005 Federal Election and the Grand Coalition, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2009.

[2] Cfr. anche Costas Lapavitsas, Financialised capitalism. Crisis and financial expropriation, in “Historical Materialism”, 17, 2, 2009.

[3] Charpentier, Insurability of climate risks, cit., p. 91.

[4] Morlaye, Risk management et assurance, cit., p. 173.

[5] Cooper, Turbulent worlds, cit., p. 177.

[6] Si veda l’affascinante storia di questi prodotti finanziari proposta da William Cronon,Nature’s Metropolis. Chicago and the Great West, WW Norton, New York 1992, cap. 3

[7] John E. Thornes, An introduction to weather and climate derivatives, in “Weather,” 58, maggio 2003; Samuel Randalls, Weather profits. Weather derivatives and the commercialization of meteorology, in “Social Studies of Science, 40, 2010; Michael Pryke, Geomoney. An option on frost, going long on clouds, in “Geoforum”, 38, 2007.

[8] Cfr. John E. Thornes e Samuel Randalls, Commodifying the atmosphere. Pennies from heaven?, in “Geografiska Annaler”, 89, 4, 2007.

[9] Cfr. a questo proposito Donald MacKenzie e Yuval Millo, Constructing a market, performing a theory. The historical sociology of a financial derivatives exchange, in “American Journal of Sociology”, 109, 1, 2003.

[10] Cfr. James T. Mandel, C. Josh Donlan e Jonathan Armstrong, A derivative approach to endangered species conservation, in “Frontiers in Ecology and the Environment”, 8, 2010.

[11] Cfr. Hélène Tordjman e Valérie Boisvert, L’idéologie marchande au service de la biodiversité?, in “Mouvements”, 70, 2012, p. 36.

 

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