La lotta delluomo contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio. Milan Kundera

A ventuno mesi dalla morte di Giulio Regeni, e a quaranta giorni dal reinsediamento dell’ambasciatore italiano al Cairo, questo pezzo fa il punto dei processi memoriali messi in atto nel tempo, segnala i rischi di una sanitizzazione della figura di Regeni attraverso un processo di istituzionalizzazione della memoria e continua la riflessione sulla possibilità di una memoria transazionale e radicale. L’articolo è stato anticipato da una Parte I, dove si propone un’analisi strutturale di quanto accaduto negli ultimi mesi. A gennaio 2017 risale invece il nostro primo articolo sul tema.

La parte e il tutto: vicissitudini di un esempio

Il lutto ha le proprie gerarchie ed esiste un circolo vizioso tra il fatto che alcune esistenze non sono propriamente commemorabili in pubblico e la loro iniqua esposizione alla vulnerabilità (cfr. Butler 2004: 33). Se questo è vero, evocare il ricordo di Giulio Regeni può significare, per gli oppositori al regime di al-Sisi, issare la propria battaglia al di sopra di quella soglia di intelligibilità sotto la quale era stata relegata dal potere locale e dalla sfera pubblica occidentale. Già lo scorso gennaio notavamo come il ricordo del ricercatore elaborato dagli attivisti egiziani fosse più fedele e rispettoso della sua figura in confronto alle talora grottesche distorsioni proposte dai media italiani. Proprio in questo elemento si poteva scorgere la possibilità di un uso radicale della memoria – che consentisse cioè di ricordare Giulio senza obliterare la sorte analoga di tante vittime egiziane – attraverso la nozione di esemplarità, secondo la quale l’esempio appartiene sì a una classe, ma mentre la esibisce e delimita si protende oltre i suoi margini, venendo così a confinare con il concetto gemello di eccezione (cfr. Agamben 1995: 26-27). Fuor di metafora: Regeni esemplificava perfettamente la violenza del regime repressivo di al-Sisi, ma allo stesso tempo il suo essere occidentale lo rendeva un’eccezione all’interno dello sterminato elenco delle vittime. Proprio in forza di questa eccezionalità la sua natura esemplare era accresciuta: né il passaporto, né il colore della pelle, né l’essere affiliato a una delle più prestigiose università del mondo hanno impedito all’ordinaria violenza degli apparati di sicurezza egiziani di abbattersi su di lui. Di qui il potenziale evocativo della sua figura per gli attivisti locali, che in essa hanno visto il primo martire non egiziano della rivoluzione egiziana del 2011, e per quelli italiani, per i quali contestualizzare la vicenda di Regeni è imprescindibile per la sua comprensione.

Una conferma dell’effettivo innesco del meccanismo dell’esemplarità nella sfera mediatica occidentale viene dall’eco avuta in Italia dal report di Human Rights Watch sulla tortura in Egitto, intitolato “We do unreasonable things here” e rilanciato da moltissimi giornali e siti con sistematico riferimento a Regeni. Peraltro, lo stesso rapporto, in teoria rivolto a lettori globali ma inserito in pratica nel contesto mediatico occidentale, accenna alla vicenda sottolineando il ruolo di Regeni nell’attirare «attenzione a livello mondiale sulle conseguenze disastrose

[dell’operato] delle forze di sicurezza interna, ormai fuori controllo». Allo stesso modo, a settembre, l’interesse dei media alla storia di Regeni ha svolto una funzione veicolare nella narrazione italiana e occidentale dell’arresto e della tortura dell’avvocato Ibrahim Metwally, cofondatore dell’associazione Famiglie degli scomparsi in Egitto, sempre presentato a mezzo stampa come «il legale della famiglia Regeni nel Paese».

Tuttavia, le reazioni al ritorno dell’ambasciatore italiano rivelano come la vicenda del ricercatore stia progressivamente perdendo la propria eccezionalità: se la copertura mediatica occidentale continua a essere straordinaria quando paragonata al silenzio assordante che si registra per le vittime egiziane, la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Italia ed Egitto sembra al momento consegnare al passato la speranza di ottenere la verità tanto a livello giudiziario quanto politico. «Il governo italiano ha rinunciato al diritto di un suo figlio, ucciso e torturato al Cairo. Come potrà difendere gli egiziani che subiscono torture e uccisioni per mano di al-Sisi?» ha domandato il giornalista Abu al-Maati al-Sandoubi all’indomani della notizia che l’ambasciatore Cantini si sarebbe presto insediato, nonostante lo stallo nelle indagini sulla morte di Regeni. Come rileva lo stesso report di HRW, «al pari delle numerose persone egiziane decedute a causa delle torture perpetrate dalla polizia, nessuno è stato consegnato alla giustizia per la morte [del ricercatore]».

Sul terreno della memoria si gioca dunque una partita che eccede il piano simbolico: riconoscere la colpevolezza dei servizi di sicurezza egiziani implicherebbe, dal punto di vista politico se non da quello legale, ammettere ufficialmente che parti dell’apparato statale sono impegnate in attività repressive di intensità inaudita, aprendo potenzialmente la strada a richieste di giustizia simili da parte della popolazione autoctona. In Italia, questo aspetto della vicenda è stato quasi del tutto taciuto, quasi che la storia di un connazionale avesse luogo sullo sfondo di una quinta teatrale irrilevante ai fini del suo svolgimento. Lo sguardo orientalista sul mondo arabo diventa in questo ambito uno strumento di analisi pressoché meccanico, im-mediato: a essere straordinaria è la morte di Giulio, non l’ordinaria efferatezza di regimi supposti immutabili e società ritenute senza speranza di redenzione.

Se appena qualche anno fa si cavalcavano paternalisticamente le Primavere arabe (cfr. Tedesco 2017: 124-135), oggi quell’espressione ha assunto nel dibattito europeo una valenza ossimorica. Sia che vengano declinate con un certo pietismo liberal (“occorre pensare alla verità per Regeni, nulla purtroppo può essere fatto per la popolazione locale, prigioniera di un dittatore spietato”), sia che prendano le mosse da un cinismo pseudo-realista (“l’Egitto è una polveriera senza nessuna possibilità di sviluppare in tempi brevi un governo democratico e laico, e recandosi lì a fare ricerca Regeni se l’è cercata”), l’impotenza e la staticità sono essenzializzate come costitutive della realtà mediorientale (cfr. Kassir 2007 [2006]: 3-6). Eppure, non esistono modi rispettosi per ricordare il ricercatore senza tenere conto del contesto nel quale ha trovato la fine: la sua stessa biografia, d’altronde, assume significato proprio in ragione della propria capacità di superare i confini, tanto geografici quanto metaforici.

In quest’ottica, non possiamo non dichiarare la parzialità della prospettiva da cui noi stesse/i scriviamo: quella, tra le altre cose, di chi ha il privilegio di poter discutere delle misure repressive messe in atto in Egitto senza dover temere per la propria incolumità. Prenderne coscienza non implica alcun gesto moralistico, ma piuttosto una chiara politica della conoscenza: il punto di vista di chi subisce sulla propria pelle forme di oppressione è significativo in modo particolare non perché romanticamente immune da ogni critica, ma alla luce della sua profonda consapevolezza delle molteplici forme in cui l’ingiustizia viene perpetrata (cfr. Haraway 1988: 583-584). Proprio per questo cercheremo, in quanto segue, di mettere all’opera quella relazionalità, quella capacità di costruire significazioni e alleanze inedite che caratterizza la riappropriazione egiziana della memoria di Regeni, indagando i modi attraverso i quali negli ultimi mesi è stata invocata dalle autorità, dai media e della sua famiglia.

Stati di amnesia e diaspore della memoria

Il legame tra potere, memoria e oblio è antichissimo. Quando nel 403 a.C., ad Atene, la fazione democratica rovescia i Trenta Tiranni dopo una sanguinosa guerra civile, eliminate le figure più in vista del gruppo avverso, i democratici approvano un provvedimento che assolve il resto dei loro nemici da ogni accusa. In aggiunta, alla cittadinanza tutta viene imposto un giuramento dinanzi agli dei, nel quale ciascuno si impegna a mantenere l’unità all’interno della città e all’oblio del conflitto. Niente recriminazioni, niente vendette, niente rammarichi eccessivi; l’ideologia della concordia sulla quale la polis è costruita esige un enorme esercizio istituzionale di dimenticanza: quello che sarebbe diventato nei secoli successivi il caso paradigmatico di amnistia è, fin da subito e inscindibilmente, una forma di amnesia (cfr. Loraux 2006 [1997]). Una vera e propria politica della memoria era all’opera anche nell’antica Roma, dove il Senato poteva approvare nei confronti dei nemici la damnatio memoriae, che implicava la distruzione di qualunque traccia della loro esistenza – misura che, nel caso degli imperatori, trovava il suo opposto nell’apoteosi, volta a tramandare il ricordo del proprio predecessore in forma quasi divina.

Non si tratta, del resto, di dinamiche limitate al mondo classico: non sarebbe neanche possibile concepire la nascita di quelle comunità immaginate che sono le nazioni senza una serie di meccanismi selettivi di memoria e oblio (Anderson 2006 [1983]: cap. 11; Isnenghi 2011 [1998]). Lo Stato stesso recita un ruolo fondamentale in questo contesto: se una delle sue caratteristiche precipue è stata, sin dalla nascita, un enorme sforzo per rendere leggibili il territorio e la società (come con l’introduzione di registri catastali e censimenti), la strutturazione di una memoria pubblica fatta di specifiche ricorrenze e altrettanto deliberate amnesie – basti pensare al rimosso coloniale italiano – serve a creare un preciso ordine di significazione in una moltitudine di eventi storici apparentemente slegati fra loro.

È alla luce di queste premesse che il tentativo di rielaborazione della vicenda di Giulio Regeni da parte del governo italiano deve essere analizzato. Nell’annunciare il rientro dell’ambasciatore in Egitto, l’esecutivo si è fatto capofila di un processo memoriale riparatorio «contro l’oblio». Come è noto, il ministro Alfano ha annunciato di voler dedicare al ricercatore un’università italo-egiziana, l’auditorium dell’Istituto italiano di cultura al Cairo, delle cerimonie commemorative in tutte le sedi istituzionali italiane in Egitto e, forse, una ai Giochi del Mediterraneo del 2018. Alfano dimostra di credere, almeno strumentalmente, nella funzione mitopoietica delle istituzioni nel produrre memoria su scala nazionale: da un lato, annunciare l’impegno dello Stato nel processo memoriale vorrebbe servire a controbilanciare il disinteresse de facto alla vicenda dal punto di vista politico; dall’altro, l’obiettivo a lungo termine è storicizzare la figura di Regeni e relegarla al passato, annullando così ogni responsabilità politica nel presente e nel futuro.

In sostanza, viene proposto un confinamento spazio-temporale della memoria. Fatto oggetto di specifiche commemorazioni che imbalsamano l’assenza di verità e giustizia per la sua morte, Regeni diventa bidimensionale, iconico, senza profondità e quindi senza specificità – pertanto non in attesa di ricevere una particolare spiegazione per un particolare destino. È una generalizzazione piatta che, innalzandolo addirittura a oggetto di una giornata del ricordo, rende inattuabile ogni comparazione: la generalizzazione a vittima della crudeltà umana ne astrae al massimo la condizione, diminuendo la possibilità per egiziane ed egiziani di identificarsi con lui.

Sul piano temporale, ciò che viene realizzato è una stasi: la memoria è congelata, non è più una risorsa per la creazione di alleanze con le vittime di altri crimini avvenuti in altri momenti. La ritualità, in questo senso, inibisce ogni lettura diacronica che provi a forzare la cronologia imposta dal potere. Come hanno scritto Gribaldo e Zapperi (2012: 36): «corruzione e santificazione appartengono allo stesso ordine simbolico»; entrambe sono, tra l’altro, al di fuori del tempo: nessuna evidenza successiva può intaccare la santità, che appartiene non al tempo storico ma a quello messianico, mentre il mostro come figura della corruzione è irredimibile perché ritenuto tale sin dalla nascita (cfr. Sharpe 2009: 39-41). In tal modo, un’apparente apoteosi viene a coincidere con quella che per un altro verso è una damnatio memoriae: la maniera stessa in cui si consacra la storia di Regeni ne rende incomprensibile la biografia nell’istante nel quale recide il legame con il contesto politico nel  quale si è prematuramente conclusa.

A questo proposito, la data nella quale viene reso noto il rientro dell’ambasciatore si inserisce in una precisa operazione amnestica: il 14 agosto è infatti l’anniversario del massacro di Piazza Rabi’a al-‘Adawiyya, che vide trucidati un migliaio di attivisti accampatisi a difesa del governo dei Fratelli Musulmani, deposto dal colpo di Stato guidato dal generale al-Sisi. Il tentativo di annullamento della memoria di quella strage messo in atto dal silenzio dei media allineati al regime si somma a – e insieme rinnova – la cancellazione immediata dei segni tangibili dell’incendio della moschea che sorgeva nella piazza.

Il regista Omar Robert Hamilton descrive i fatti di quel giorno come la fine dell’onda lunga della rivoluzione egiziana iniziata in un’altra piazza del Cairo il 25 gennaio 2011: mille morti in una sola giornata segnalavano inequivocabilmente l’immane sproporzione delle forze in campo. Se tutto quello che è rimasto a coloro che occuparono piazza Tahrir mettendo in crisi il regime di Mubarak è, nelle parole di Hamilton, «la memoria della possibilità», neutralizzare l’importanza del 14 agosto scegliendo proprio quella data per dichiarare l’Egitto odierno un partner politico degno di stima compromette anche l’essenza del 25 gennaio – lo stesso giorno in cui, nel 2016, Regeni venne rapito dalle forze di sicurezza del regime.

Le autorità italiane, quindi, propongono una messa in sicurezza della memoria, un processo di sanitizzazione che non fa del ricordo l’avamposto per una rivendicazione politica, ma un approdo pilatesco. Questo stesso tentativo di processo memoriale nazionale imposto dall’alto riapre tuttavia la questione di come debba agire una memoria transnazionale radicale. Per esempio, nel momento stesso nel quale invochiamo lo sviluppo di una memoria transnazionale, dobbiamo prendere atto della parziale incomunicabilità tra le sfere mediatiche di Italia ed Egitto. Alle difficoltà di dialogo legate all’assenza di una tradizione di inter-traduzione e alla scarsa diffusione del bilinguismo italiano-arabo, si aggiunge l’oscuramento di moltissimi siti di informazione in Egitto. Questa censura, che rinnova sulla rete la violenza fisica delle frontiere, riguarda moltissimi siti in lingua inglese (come Al Jazeera e Mada Masr), che avevano una funzione veicolare nella diffusione transnazionale delle informazioni e dei saperi. In questo senso, la comunità diasporica egiziana in Italia e quella italiana in Egitto avrebbero potuto svolgere una funzione di interconnessione, che però è stata impedita da un’autocensura indotta dalla paura del regime.

La stasi parrebbe completa. Per tentare di immaginare dei modi per uscirne, potrà allora essere utile partire da un’ambiguità semantica che ci riporta dove abbiamo iniziato: l’amnistia/amnesia di Atene altro non era che un modo per espungere dalla città lo scontro interno alle sue fazioni, che in greco era definito come stasis. Lo stesso termine che indica l’immobilità, nomina al tempo stesso il più profondo dei conflitti, con un paradosso apparente che si spiega sul piano politico: portando la divisione nel cuore di Atene, la stasis di configura come una ferma presa di posizione, il rifiuto di retrocedere al livello di un compromesso al ribasso (cfr. Castelli 2016: 134). Soltanto criticando le griglie di leggibilità della memoria imposte dallo Stato e ponendo in dubbio la presunta neutralità di quest’ultimo nel farsi «punto di vista dei punti di vista» (Bourdieu 2014[1990]: 5), un uso radicale del ricordo potrà essere recuperato.

L’idea di portare l’eco del conflitto nel cuore delle istituzioni può risultare astratta o generica, ma qualcosa di simile è ravvisabile dietro al mutare dell’atteggiamento della famiglia del ricercatore nel corso dei mesi. Prima di approfondire questo aspetto occorrerà però confrontarci con le modalità con le quali la sfera pubblica italiana ha ritratto Regeni, condizionandone l’immagine nella memoria della collettività.

Uno, nessuno, centomila: peripezie della rappresentazione

A venti mesi di distanza dalla morte di Regeni, è possibile tracciare l’evolversi della narrazione della sua biografia e dei processi di significazione della sua fine. Abbiamo già sottolineato come lo stesso essere liminale e poliedrica rendesse la persona del ricercatore ostile ad adattamenti narrativi univoci e ad appropriazioni illegittime. Per esempio, non poteva darsi una riduzione nazionalista perché ostacolata da un generico collocamento di Regeni stesso «a sinistra» che ne ha impedito quell’appropriazione reazionaria che ha interessato invece, per esempio, i due fucilieri di marina della Enrica Lexie. Allo stesso modo, l’elaborazione nazional-popolare – che era stata inizialmente tentata – non si è attuata completamente perché in parziale contraddizione con la retorica della «brillante carriera internazionale» di Regeni, che facendone risaltare l’eccezionalità ne rendeva forzata l’identificazione come «figlio di tutti». Infine, l’appropriazione «da sinistra» è stata impedita da un lato dalla frammentazione della sinistra istituzionale (e dal rinnegamento de facto da parte del Partito Democratico) e dall’altro dall’assenza dalla biografia di Regeni di una militanza in Italia nella “sinistra di movimento”, che non avrebbe comunque potuto ereditarne coerentemente la memoria, considerata la comprensibile vicinanza iniziale della famiglia Regeni alle istituzioni. Il successo dell’appropriazione locale, che avevamo segnalato già a gennaio, è continuato nei mesi, toccando tuttavia punte di provincialismo quasi grottesco (si veda qui) che hanno denunciato i limiti sostanziali di un esercizio forzatamente campanilistico di fronte a una storia intrinsecamente transnazionale.

A questa difficoltà di appropriazione se ne accompagna una di significazione. La morte di Regeni, infatti, non avviene all’interno di un contesto di guerra o di lotta nel quale sarebbe previsto il sacrificio per una causa o parte: non esiste quindi un orizzonte di senso di riferimento sullo sfondo del quale significare quella scomparsa per chi si trova – a vario titolo – a piangerla o cercare di capirla. Tuttavia, bisogna evidenziare che tale difficoltà viene dall’ignoranza storicopolitica del contesto: è quindi un fenomeno tutto interno alla sfera mediatica italiana e occidentale, dove la narrazione già sedimentata di al-Sisi come «il più stabile partner occidentale nell’area» impedisce di collocare il corpo di Regeni tra quelli delle vittime di un regime ingiustificabilmente violento, proprio perché quelle vittime in Italia e in Occidente non esistono a livello mediatico. Al contrario, non si riscontra una difficoltà analoga da parte degli attivisti egiziani, i quali da subito tracciano il profilo dei colpevoli e si appropriano di quella morte come quella di «uno di noi».

Nondimeno, quando la consapevolezza di una qualche forma di responsabilità del governo egiziano diventa vulgata in Italia, si innescano presto due processi di significazione paralleli, adottati in modo trasversale: Regeni diventa eroe o vittima, mimando così la coppia di apoteosi e damnatio memoriae già vista all’opera a livello istituzionale (eroe: qui, qui, qui; vittima: qui, qui, qui).

Il primo è un procedimento più debole: prevede una celebrazione della persona del ricercatore per i meriti accademici e «di carriera», riecheggiando alla lontana il topos del self-made man, e per una generica incorruttibilità legata al desiderio di conoscenza per se. Su questa linea, si situa l’intervista fatta in prima serata il 15 ottobre da Fabio Fazio a Paola Deffendi e Claudio Regeni: il rischio di questo procedimento è la costruzione di un «eroe» astratto dal contesto. Il secondo procedimento – la costruzione di Regeni come vittima – ha grandissimo successo, in quanto può essere adottato sia da chi si oppone al regime di al-Sisi e denuncia gli interessi strategici ed economici dell’Italia sia da chi, disordinatamente, accusa Regeni in quanto impiccione, al-Sisi in quanto arabo e musulmano e gli Egiziani in quanto orientali e quindi per natura governabili con la sola forza bruta.

Rispetto alla narrazione del «Regeni eroe», quella del «Regeni vittima» trova maggiore spazio: quest’ultima narrazione, che non è sbagliata in sé, presenta però delle implicazioni pericolose. Mette in atto infatti un processo di slittamento semantico per il quale il ricercatore non è più vittima solo in quanto torturato e ucciso senza colpa (come è), ma anche in quanto «incapace di salvarsi» e a quel punto il suo riconoscimento come tale non riguarda solo il modo in cui è stato torturato e ucciso, ma ingloba retrospettivamente la sua vita, sia che venga proposta la teoria falsa e infamante di Regeni come agente inconsapevole dei servizi segreti, sia che venga presentato per quello che era: studente, precario, «di sinistra».

Se inizialmente era stata elaborata la teoria di Regeni come spia britannica, questa ipotesi – tanto offensiva da risultare poi insostenibile agli stessi promotori – è stata ri-declinata nella versione della «spia inconsapevole», svenduta da Cambridge ai servizi britannici. Questa seconda ipotesi – che pur contiene l’accusa falsa di spionaggio – si modella perfettamente sul processo di vittimizzazione che descriviamo: una vera spia non può essere una vittima, una spia inconsapevole (e quindi incolpevole) sì. A riassumere una tale posizione interviene il deputato leghista Gianluca Pini in risposta all’informativa del ministro Alfano: «non consideriamo Regeni un eroe, lo consideriamo una vittima di un gioco probabilmente molto più grande di quello che poteva reggere».

Questo processo narrativo (Regeni vittima di un «gioco più grande», al quale partecipano in vario modo l’università, i servizi segreti, le forze di sicurezza israeliane, in una confusione colpevole delle responsabilità) si accompagna a un processo di femminilizzazione – o per lo meno de-virilizzazione – della figura del ricercatore. A renderlo possibile sono una serie di tratti che possono rientrare nella sfera culturale della «debolezza»: il suo essere giovane, intellettuale, ricercatore precario (quindi povero), tradito (dal sindacalista doppiogiochista Mohammed Abdallah), di sinistra; a ciò si aggiunga che questa narrazione proviene da soggettività che ne sono sotto vari aspetti l’antitesi, e che lo osservano con compatimento paternalista, soprattutto nella sfera mediatica italiana, dove il ruolo di primo piano dei genitori implica per molti la presentazione di Regeni sempre come «figlio» e non come soggetto autonomo – «il dottorino ha sbagliato meta» è riuscito a scrivere Vittorio Feltri. La presenza nella vulgata della persona-Regeni di alcune retoriche tipiche della narrazione maschilista sulle donne (specie se «vittime» di violenze) viene rielaborata magistralmente dalla satira di spinoza.it, che scrive: «Il governo egiziano accusa Regeni: “Quello che è successo è colpa sua”. Indossava la minigonna». La descrizione di una presunta debolezza intrinseca, in questo caso e sempre, permette da un lato quasi di giustificare fatalisticamente la morte e depotenziarne la gravità e dall’altro di ridimensionare la responsabilità dei colpevoli.

I portatori sani della memoria: cronaca familiare

Nella sfera mediatica italiana, si diceva, il ruolo di portatori e indirizzatori della memoria di Regeni è stato da subito assunto dai genitori. La storia repubblicana recente ha conosciuto moltissimi genitori che, nel chiedere giustizia per i/le loro figli/e, sono diventati figure pubbliche e sono entrati così a far parte della coscienza civica collettiva. Questo avviene indipendentemente da chi abbia l’effettiva responsabilità sull’accaduto, che si tratti dello Stato in modo diretto (Haidi Giuliani, Patrizia Moretti e Lino Aldrovandi) o indiretto (Beppino Englaro), di ignoti (Luciana Alpi) e così via. Un discorso simile potrebbe farsi, ovviamente, anche quando ad assumere l’onere della testimonianza non sono i genitori, ma i fratelli o le sorelle (Stefania Cucchi, Lucia Uva), figli/e (Domenica Ferrulli) o i/le partner (Mina Welby), con una presenza maggiore delle familiari donne. In tutti questi casi, c’è all’opera, a livelli e con intensità diverse, una dinamica quantomeno prossima all’esemplarità, per richiamare a una mancanza del legislatore, alle responsabilità dirette dei funzionari di Stato o a iniziative appropriate da parte della magistratura. Questo è particolarmente evidente quando Patrizia Moretti, Ilaria Cucchi e Lucia Uva partecipano insieme a iniziative pubbliche, esemplificando così tutte le vittime della violenza poliziesca.

Nel caso dei genitori di Regeni si assiste a un’evoluzione della funzione pubblica all’interno di questo quadro. Inizialmente la famiglia Regeni (dapprima nella persona della madre Paola e progressivamente con un ribilanciamento dei ruoli con il padre Claudio) si assume quasi completamente l’onere pubblico della memoria, peraltro proponendo il proprio diritto di veto sulle narrazioni della vita e della morte del figlio. Questa rivendicazione dell’esclusività dell’esercizio del ricordo e del diritto al vaglio di ogni narrazione si manifesta quando la famiglia diffida il manifesto dal pubblicare postumo un articolo che Regeni aveva inviato al quotidiano e che era stato rifiutato. Al di là dell’episodio, il rischio di un esercizio della memoria controllato è sempre quello di esaurirsi quando lo sforzo dei portatori non è più sufficiente a reggere il peso della continua riattivazione che una memoria necessita per non spegnersi. In realtà, il tentativo di monitoraggio dei processi memoriali messo in atto inizialmente dai genitori – e dettato dal desiderio legittimo di arginare narrazioni distorte – si è subito scontrato con il moltiplicarsi prolifico delle produzioni giornalistiche, documentarie, d’inchiesta e delle attivazioni memoriali delle quali nessuno poteva avere il controllo.

La scelta dei genitori di Regeni di diventare persone pubbliche ha comunque fatto sì che l’esercizio della memoria proposto mediaticamente si modellasse più su loro stessi che su loro figlio: inizialmente, hanno veicolato una memoria nazionale, istituzionale e «umanitaria» cioè non conflittuale, all’interno della quale hanno sempre comunque ribadito la dimensione transazionale della vicenda e la presenza di migliaia di vittime egiziane. Tuttavia, negli ultimi mesi, e soprattutto dopo la decisione di rinviare l’ambasciatore in Egitto, l’atteggiamento dei genitori verso le istituzioni (ma non verso la procura italiana) è cambiato radicalmente: la sfiducia nei confronti delle autorità politiche, il senso di tradimento da parte del primo ministro e del ministro degli esteri e la presa di coscienza del rischio di insabbiamento hanno determinato una svolta nel loro agire politico, nel linguaggio e anche nelle pratiche di memoria. La strada che i Regeni hanno imboccato è quella della ricerca indipendente della verità, che – dopo la parentesi filo-istituzionale – li ricolloca sulla stessa linea delle famiglie che abbiamo ricordato prima: Cucchi, Aldrovandi, Alpi, e così via.

Se già il contesto della morte di Regeni si prestava in qualche modo a una dinamica di esemplarità, la decisione di recarsi di persona al Cairo con la propria avvocata e una «scorta mediatica» è un salto di qualità. Si tratta di una scelta che mobilita il privilegio di chi è chiamato a essere esempio per sfidare coloro che detengono il potere. Al tempo stesso, la sproporzione delle forze in gioco circoscrive il potenziale radicale del gesto: se ci può essere la speranza di fare un passo avanti con il viaggio in Egitto, questo potrà avvenire solo focalizzandosi sulla verità in merito alla vicenda singola, senza provocare il regime sulle altre. Tornando al Cairo, i genitori di Regeni valicano quindi una frontiera fisica che è anche mnemonica e aprono una possibile strada di ri-significazione (opponendosi tra l’altro alla riappropriazione amnestica e nazionalistica della memoria del figlio), ma sarebbe errato, oltre che ingiusto, chiedere a loro il passo successivo, l’attivazione compiuta della memoria radicale, che spetta ad attiviste e attivisti.

Conclusione: il dovere di raccontare

«Ogni dolore può essere sopportato se lo si rende parte di una storia o si racconta una storia su di esso» recita una frase di Isak Dinesen che Hannah Arendt amava ripetere. Narrare della sofferenza che scaturisce dall’esperienza dell’ingiustizia non implica, in questa chiave di lettura, sminuirne la gravità o tentare di razionalizzarla con il ricorso a teleologie più o meno sconsiderate ma, al contrario, implica riconoscere il giusto peso a ciò che è stato, dischiudendo la possibilità di pensare altrimenti, di concepire un futuro diverso proprio nell’atto di grattare via dal passato la sua patina di apparente inevitabilità. Non è un caso che alla caduta dei regimi vengano alle volte istituite delle “Commissioni per la verità” il cui scopo non è primariamente giuridico, ma mnemonico e poetico: dare la possibilità alle vittime di raccontare pubblicamente la propria storia affinché nessuno possa dimenticarla e altre, diverse, diventino possibili (cfr. Stauffer 2015: cap. 3).

L’idea di memoria radicale che abbiamo proposto nel confrontarci con la vicenda di Regeni è quindi intrinsecamente narrativa, in una accezione polemica del termine. Se una delle forme più frequenti dell’oppressione prevede infatti il relegamento forzato di intere categorie di persone in una dimensione privata, extra-politica, dalla quale potranno provenire magari lamentele o piagnistei ma mai discorsi propriamente intelligibili, una narrazione politica è anzitutto un intervento su ciò che può essere visto e detto, l’inserimento di un conflitto all’interno dell’illusione consensualistica dello status quo (cfr. Rancière 2001: §§7-8).

Resta centrale da questo punto di vista la nozione di esemplarità nella sua essenza relazionale. Essa è attivata, come si è accennato, dalla propria posizione retoricamente ambigua tra la parte e il tutto, tra eccezione e inclusione. Questa collocazione enfatizza, da un lato, la comune vulnerabilità umana di fronte alla violenza e il nucleo esistenziale dell’esperienza della perdita (Butler 2004: 20) – si pensi al richiamo di Paola Deffendi alle madri egiziane che si trovano in una situazione in qualche modo analoga alla sua. D’altro canto, consente di non elidere la distribuzione assai iniqua che tale vulnerabilità assume per persone differenti (Butler 2009: 3; 43) – volendo fare un passo ulteriore, ci impone di non essenzializzare il dolore derivante dal subire ingiustizia, che può risultare in esperienze qualitativamente diverse per soggetti con diversi gradi di subalternità (cfr. Honig 2010: 8-9; Thobani 2007: 176-177). L’esempio, in altre parole, rende una serie di significanti (o di storie) identificabili in quanto provenienti dalla stessa classe senza per questo farli diventare identici.

Le scelte del governo italiano e della sua controparte egiziana hanno certamente attentato, negli ultimi mesi, alla possibilità che la memoria per la sorte di Regeni possa veicolare quella per migliaia di vittime egiziane. Se non si può negare che questo in parte disinneschi la dinamica dell’esemplarità, è però al tempo stesso la conferma della sua rilevanza, della sua capacità di destabilizzare tramite la creazione di alleanze inedite chi detiene il potere. A fronte dello stallo politico sulla vicenda, l’attenzione della società civile e quella mediatica continuano a essere relativamente alte, ma in assenza di passi in avanti di rilievo l’interesse andrà probabilmente incontro a un logoramento se lo si continuerà a percepire come rivolto a una singola vicenda, destinata a essere scavalcata da altre più recenti nella gerarchia sensazionalistica delle tragedie. Ora più che mai non esistono perciò modi di reclamare giustizia per Regeni che possano prescindere dai contorni più ampi nei quali il suo omicidio si inserisce.

In questo senso, se la determinazione della famiglia nel chiedere verità per Giulio tenta di mobilitarne nuovamente la carica esemplare contro i tentativi di narcotizzazione delle autorità sia egiziane sia italiane, compito delle e degli attivisti su entrambe le sponde del Mediterraneo è far sì che la miriade di altre vicende che questa può richiamare non svaniscano, né perdano la propria specificità.

Occorrerà quindi far uscire queste storie da un plurale generico che le rende mera controparte collettiva di un vissuto singolare, contrapponendo alla retorica bi-dimensionale dell’eroismo analizzata in precedenza un tipo di eroicità differente e relazionale. In Vita activa, Arendt ricordava che nell’originario uso omerico l’eroe non è colui che si distingue per una particolare qualità, ma semplicemente «un uomo libero che partecipava all’impresa di Troia, e sul quale si poteva raccontare una storia», la misura del cui coraggio è già tutta nella scelta stessa di agire, nel diventare potenzialmente soggetto di un racconto successivo del quale non potrà controllare i margini ([1958] 1991: 193-194). Similmente, potremmo dire che l’eroismo di quanti hanno preso parte alla rivoluzione egiziana del 2011 non ha a che fare con la misura in cui quegli eventi siano o meno stati ispirati da idee politiche ritenute di stampo occidentale, ma nel gesto politico in sé, nel reclamare collettivamente un potere contro delle autorità illegittime, al di là delle complesse motivazioni che possono aver spinto le varie componenti della società a manifestare (cfr. Kandil 2012).

Si rende a questo punto necessaria una riflessione di metodo. Il nostro porre l’accento su una declinazione conflittuale della memoria non intende in alcun modo minimizzare le condizioni di pericolo materiale nelle quali versano coloro che oggi si oppongono al regime di al-Sisi. Nell’Egitto odierno la paura assurge ormai a tecnica panottica tramite la quale anche le persone che non sono effettivamente sotto la lente del capillare apparato di sicurezza si sentono costantemente osservate e limitano i propri comportamenti di conseguenza. Al tempo stesso, considerazioni di questo tipo non devono sfociare in una messa tra parentesi paternalistica delle voci di opposizione che pure da quel Paese continuano a levarsi. È certamente vero che il clima di terrore creato dal regime inquina il tessuto stesso della società, permeandone in modo strisciante financo le dinamiche quotidiane, ma, come ha notato Helena Nassif scrivendo della ricerca sul campo in Egitto dopo la morte di Regeni, l’esperienza psicofisica della paura può diventare uno strumento etnografico potente, tale da rendere la prospettiva del testimone più acuta di quella del mero osservatore. In altre parole, le e gli attiviste/i egiziani non hanno bisogno di portavoce, ma di alleati critici – che sono cioè tali proprio in virtù di una solidarietà che non estetizza, con un orientalismo aggiornato, la loro disobbedienza alle autorità.

Che si sia testimoni o osservatrici/ori, la memoria resta un fenomeno plurale. Innanzitutto perché non esisterà mai qualcosa che possa essere definito come Memoria, il grado zero del ricordo, che riesca a ovviare del tutto alla inevitabile polifonia dei racconti sul passato – e anzi proprio distinguere tra voci più o meno acute corrisponde a un’operazione politica fondamentale. In secondo luogo, perché le memorie non esistono mai separate le une dalle altre, ma stanno fra loro in un continuo rapporto di mutua implicazione, il loro peso non può essere sostenuto singolarmente.

Quasi un anno fa scrivevamo del bisogno di creare «un’infrastruttura del ricordo da attivare come strumento per l’articolazione del dissenso politico» e ora la metafora architettonica ci sembra più che mai appropriata: respingere i tentativi di neutralizzazione del passato richiede tanto dei canali di comunicazione che evitino di rendere statico ciò che è per sua natura dinamico quanto un architrave collettivo che consenta di non restare schiacciati sotto il peso del lutto, replicato indefinitamente proprio da chi lo vorrebbe rimuovere senza passare per l’ottenimento di verità e giustizia.

 

Ci dichiariamo parte della scorta mediatica di Giulio Regeni, costituita su iniziativa di Amnesty International (sezione italiana), Fnsi e Articolo21.

 

Fonte immagine: https://suzeeinthecity.wordpress.com/2012/12/29/return-to-tahrir-two-years-and-graffiti-of-the-martyrs/.

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