Continua la serie dedicata da Effimera alle lotte dei cosiddetti “gilet gialli” in Francia (qui la prima riflessione, di Maurizio Gribaudi). In vista delle manifestazioni di domani, sabato 8 dicembre, e data l’urgenza politica di dare rilievo a queste lotte, proponiamo due ulteriori riflessioni che ci aiutano a comprendere le complessità e le possibilità emancipatorie di questo movimento. Alla luce del contributo pubblicato stamane a proposito delle lotte No TAV, questi testi indicano possibili luoghi di convergenza delle lotte “popolari” contemporanee: l’opportunità che diverse voci minoritarie sistematicamente silenziate dalle politiche neoliberiste convergano nel richiedere un nuovo tipo di potere, di rappresentanza, di gestione della “cosa pubblica”.

La prima pubblicazione, uscita per Mediapart.fr nella versione originale francese, è scritta dal direttore del giornale Edwy Plenel e tradotta per Effimera da Salvatore Palidda.

La seconda consiste in un’intervista al Comitato Adama, impegnato nella lotta antirazzista, da parte di bondyblog.fr. E’ tradotta per noi da Giorgio Griziotti.

 

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La battaglia per l’uguaglianza

di Edwy Plenel (direttore del giornale Mediapart.fr)

Nato nel 1952, giornalista dal 1976 ha lavorato in Rouge (1976-1978), poi al Matin de Parise, soprattutto, a LeMondeper 25 anni (1980-2005). Cofondatore e presidente di Médiapart da dopo la sua creazione nel 2008. È autore di una trentina di libri (bibliografia disponibile sur Wikipedia in français, Englishespañol,  catalan,  bretone). Può essere considerato il più importante leader di un giornalismo assolutamente indipendente, rigorosamente rispettoso dell’etica di una stampa effettivamente dedicata all’informazione, dalla parte di chi lotta per i diritti fondamentali di tutti. Médiapart ha festeggiato i suoi 10 anni di giornale che vive solo di abbonamenti ed è in attivo, senza alcuna pubblicità e pagando con contratto regolare oltre 80 giornalisti professionisti. Su Médiapart scrivono con i loro blog centinaia di persone. Buona parte degli articoli e tutti i blog di Médiapart sono leggibili anche senza abbonamento. Médiapart ha anche una TV che manda online sia dibattiti e reportage sia film.

 

La rivolta dei “gilet gialli” è contro l’ingiustizia fiscale e l’arbitrarietà dello stato. Il suo motore è il cuore delle lotte per l’emancipazione: il requisito dell’uguaglianza. Dalla sua apertura alle cause comuni di uguaglianza per tutti dipenderà il suo futuro politico.

NB: i cosiddetti scontri fra gilets gialli e polizia soprattutto a Parigi – ma non solo – sabato 1 dicembre hanno mostrato che una parte della polizia francese aveva tanta paura di affrontare una sorta di non-manifestazione di massa, cioè una grande quantità di manifestanti dispersi un po’ dappertutto senza cortei, senza servizi d’ordine, una sorta di pullulare di persone di diversa età, anche tante donne, di diversa estrazione sociale, buona parte proveniente dalla provincia e senza precedenti esperienze di proteste e tanto meno di confronti con la polizia. Mentre al 1 maggio la polizia era stata particolarmente aggressiva e ben predisposta alla gestione violenta, il 1 dicembre lo è stata meno perché appunto aveva paura, dal momento che non sapeva chi aveva di fronte e lo stesso governo e i vertici avevano dato la direttiva di evitare di eccedere nella gestione violenta e di privilegiare soprattutto il presidio totale dell’area attorno ai palazzi del potere (l’Eliseo, la sede del governo e del parlamento). La polizia ha sparato migliaia di lacrimogeni e bombe di dispersione e arrestato 700 persone di cui almeno 400 sono finite in carcere e hanno subito severe condanne in direttissima da parte di giudici palesemente intenzionati a somministrare pene pesanti a incensurati e persone evidentemente assai ingenue. Il governo ha deciso di fare delle concessioni ma a sera tardi del 4 dicembre sembra che i gilet gialli non siano per nulla soddisfatti e intendono rilanciare la protesta.

La rivolta dei “gilet gialli” è un puro evento: nuovo, inventivo e incontrollabile. Come tutte le insorgenze spontanee popolari, trabocca le organizzazioni stabilite, sconvolge i commentatori professionisti, agita i governanti al potere. Come ogni lotta sociale collettiva, si inventa giorno dopo giorno, in una creazione politica senza un programma prestabilito, in cui l’auto-organizzazione è l’unico padrone del gioco. Come tutte le mobilitazioni popolari, mescola la Francia così com’è nella sua diversità e pluralità, con le sue miserie e grandezze, le sue solidarietà e i suoi pregiudizi, le sue speranze e le sue acidità.

Di fronte all’ignoto, la prima responsabilità del giornalismo è, prima di giudicare, dare da capire per cercare di comprendere. Questo è ciò che Mediapart ha cercato di fare fin dall’inizio, prendendo il tempo di andare lì, il più vicino al terreno, incontrando la varietà di motivazioni, generazioni e background, mostrando il coinvolgimento senza precedenti dei pensionati e la forte presenza delle donne (leggi in particolare le relazioni di Mathilde Goanec e François Bonnet). Non limitandosi alla cronaca dei fatti fuorvianti degli incidenti razzisti, anti-migranti e anti-giornalisti, che a volte hanno segnato e screditato la mobilitazione, i nostri reportage hanno mostrato la coscienza politica genuina che attraversa questa rivolta spontanea: da un lato, la percezione acuta dell’ingiustizia sociale; dall’altro, la forte richiesta di una democrazia radicale.

La questione fiscale è servita da rivelatore sociale. Tutto un popolo ha capito che il potere uscito dalle urne nel 2017 assume senza vergogna la politica a vantaggio degli interessi economici socialmente minoritari. Emmanuel Macron scientemente ha impoverito lo stato a beneficio degli ultra-ricchi, mentre fa pesare sui redditi della maggioranza le conseguenze di una politica di classe che rovina tre volte la solidarietà: indebolendo i servizi pubblici per tutti, alleggerendo le tasse di pochi e aumentando quelli di tutti gli altri. Ampiamente documentato su Mediapart (leggi particolare gli articoli Romaric Godin), la freddezza delle cifre s’è improvvisamente trasformata nel caldo dell’indignazione.

Il 2 agosto scorso, prima ancora della rivolta dei “gilet gialli” contro la carbon tax, il Ministero dei Conti pubblici pubblicava la situazione del bilancio dello Stato a fine giugno 2018, a metà dell’anno. Come ha segnalato subito Alternatives économiques, era già chiaro che a portata costante, le entrate fiscali erano diminuite del 2,4% rispetto al primo trimestre 2017, calo che in volume, è in realtà del 4,5%, tenendo conto dell’inflazione, ossia un enorme buco di 14 miliardi di euro nel corso dell’anno. Ma questo declino è dovuto solo e soltanto all’ingiustizia fiscale della politica del governo: mentre le imposte che pesano sul maggior numero dei contribuenti ha continuato a crescere, il calo delle entrate fiscali deriva dai regali alle imprese e ai ricchi. A parità di perimetro, tra la prima metà del 2017 e la prima metà del 2018, la diminuzione è del 10,5% per le imposte sul reddito delle società e del 39% per la tassa di solidarietà sulla ricchezza, eliminata per una tassa sul patrimonio immobiliare, i diritti di successione e l’imposta sul capitale!

I «gilets gialli» non si rivoltano contro le tasse ma contro la loro ingiusta ripartizione. La migliore prova ne è che essi chiedono dei servizi pubblici ben dotati e accessibili, difendono ciò che fa tenere insieme una società – le scuole, gli ospedali, i commissariati, i trasporti, ecc. Sanno che questi servizi pubblici sono finanziati dalle tasse, questo «contributo comune indispensabile» di cui la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 richiamava già, nell’articolo 13, che «esso deve essere ugualmente ripartito tra tutti i cittadini, in base alle loro possibilità». Ciò che non è più sopportabile, è che esso sia, tutto al contrario, inegualmente ripartito.

Ciò che non è ammissibile, è che il popolo versi sempre più tasse, mentre anche lo stato riduce i servizi che gli sono dati, a causa dell’ampiezza considerevole dei regali fiscali alle imprese e ai molto ricchi.

L’altra lucidità politica di questa rivolta riguarda la negazione della democrazia (da parte del governo). L’uso ugualitario dei social network, il rifiuto di essere recuperati da partiti, la volontà di filmare gli incontri con le autorità, l’elaborazione collettiva del carnet di rivendicazioni, l’invenzione spontanea di nuovi modi d’azione, ecc.: tanti simboli di una esigenza democratica nuova, qualsiasi siano le tensioni o le contraddizioni che l’attraversano. Di colpo, il popolo si impadronisce della questione istituzionale che, allora, prende vita e corpo al di là dei programmi politici e dei convegni degli esperti. Attraverso i referendum, l’esigenza di concertazione, la domanda di deliberazione, i «gilets gialli» dicono che la democrazia non si riduce al diritto di voto. E che una democrazia in cui il popolo sovrano perde ogni potere una volta che ha votato, congedato dal dibattito politico e invitato a fare silenzio, non è più tale.

Questa esigenza radicalmente democratica ha affrontato con forza l’accecamento monarchico della presidenza Macron (leggi l’analisi di Ellen Salvi). Dopo aver fatto la promessa di una «rivoluzione democratica profonda» (sic), l’elezione improbabile di un estraneo alla politica professionale ha comportato un’accentuazione delle peggiori traversie della Quinta Repubblica: il potere di uno solo che si comporta come il proprietario della volontà di tutti; personalizzazione autoritaria della decisione politica attorno al “me” presidenziale; maggioranza soggetta ai desideri, agli errori e agli erramenti del monarca eletto, fino al punto di tollerare l’affare di Benalla

[1]; clientela di interessi privati ​​largamente premiata da una presidenza assolutista che se ne fa la base del potere a scapito dell’interesse comune.
Emmanuel Macron non è ovviamente il primo presidente a illustrare questa regressione democratica. Ma due caratteristiche della sua presidenza peggiorano il suo caso, fino al punto di alimentare un rigetto appassionato e virulento che evoca, mentre è ancora all’inizio del suo quinquennio, la fine della presidenza di Valéry Giscard d’Estaing (1974-1981). In primo luogo ci sono le circostanze della sua elezione di fronte all’estrema destra: invece di prendere in considerazione il senso di tale voto (glielo avevamo ricordato prima della sua elezione), che non era un’adesione massiccia, ma di obbligo forzato, invece di tener conto della sua diversità e dei suoi contrasti attraverso una pratica partecipativa e deliberativa del potere, si è comportato come se la sua base del 18% degli elettori al primo turno gli avesse dato un assegno in bianco per agire, anche a spese del restante 82% (glielo abbiamo ricordato di nuovo un anno dopo).

A tale incoscienza irresponsabile, per il gioco dell’estrema destra che fa ancora una volta per il futuro, ha aggiunto un esercizio personale del potere tessuto da arroganza e disprezzo. Quando vuole interloquire non fa altro che tenere una conferenza. Pretende di conoscere in anticipo, e meglio dei più coinvolti, ciò che è buono per il popolo, che spesso evoca mostrando di esserne al di fuori, un’entità a lui sconosciuta – ah, questi «Galli refrattari»! Sommando il disprezzo di classe – dei più ricchi – e di casta – dei più istruiti – che egli incarna, con il suo comportamento nell’esercizio del potere, una politica di disuguaglianza in cui vi sono superiori e inferiori, le menti forti e le volontà dei deboli, degli inclusi e degli esclusi, della gente aitante e degli sfortunati. L’ideologia del successo individuale a scapito della solidarietà collettiva, sposa l’ibrido di un’avventura personale con una smisura che si auto-autorizza. Dal campo fiscale – la questione sociale; dal dibattito politico – la questione della democrazia – il movimento dei “gilet gialli” rinnova la domanda di uguaglianza che è sempre stata la ragione delle lotte di emancipazione. Il 10 dicembre celebreremo l’adozione a Parigi, 70 anni fa, della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la cui prima frase dice «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti» si traduce in esigenze democratiche e sociali in 30 articoli. Questo diritto ad avere diritti, di difenderli, di rivendicarli e di inventarli, spalanca le possibili politiche, spostando montagne di conservatorismo, ribaltando secoli di pregiudizi, rovesciando delle dominazioni che si credevano incrollabili. È un enunciato senza frontiere che si erige di fronte a tutti i tribuni delle diseguaglianze naturali: senza distinzione d’origine, di condizione, d’apparenza, di credenza, di sesso o di genere, noi siamo uguali in diritto e in dignità.

Secondo la sua traduzione politica, questo «qualsiasi» democratico è al cuore dell’avvenire del movimento dei «gilets gialli». La simpatia attiva che gli dichiarano destre e estreme destre intende trascinarli verso una uguaglianza tradita, quella in cui non sono concessi diritti che a quelle e a quelli che ci assomigliano, nel tra sé delle identità chiuse, ripiegate su sé stesse, escludendo le altre nella diversità dei pregiudizi – xenofobi, razzisti, sessisti, omofobi ecc.

Al contrario, le convergenze rivendicate dai movimenti sociali nella loro pluralità perorano un sorgere delle cause comuni dell’uguaglianza: salariati in lotta, come sono oggi le infermiere e i lavoratori delle raffinerie; studenti e liceali contro l’aumento dei costi universitari; donne di #NousToutes contro le violenze sessiste e sessuali; popolazioni discriminate per la loro origine, la loro apparenza o la loro credenza, così come il movimento #RosaPark; gay e lesbiche per l’apertura della PMA a tutti (Procreazione Medicalmente Assistita); solidali e ospedalieri in difesa dell’accoglienza dei migranti; ecc.

L’avvenire non è scritto, sin quando qui l’evento è padrone, senza avanguardia autoproclamata né apparato dominante. Ma, piuttosto che tenere a distanza questo inedito che li travolge, tutti quelli che tengano a una Repubblica democratica e sociale dovrebbero condurre questa battaglia dell’uguaglianza presso i «gilets gialli» et avec eux. Astenersi, restare spettatori o dubbiosi, in disparte o con riserva, aprirebbe ancor più la via alle forze dell’ombra che, oggi, in Francia e in Europa, come su scala mondiale, vogliono rimpiazzare l’uguaglianza con l’identità, il diritto di tutti con il privilegio di alcuni.

 

Note

[1]È il nome della guardia privata di Macron che s’era arrogata poteri e libertà d’agire del tutto illeciti compresa la sua occupazione di una dependance all’Eliseo (Quirinale francese): questa storia fu scoperta perché questa sorta di pretoriano fu fotografato mentre manganellava dei semplici astanti in una piazza durante cariche della polizia al corteo che era passato accanto; da lì lo scandalo non ha ancora finito di spegnersi.

 

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Il comitato Adama si unisce ai gilet gialli: “Non è una alleanza fatta al costo di una rinuncia politica”

 

Il Comitato Adama invita a manifestare, a partire da sabato 1 dicembre, a fianco dei gilet gialli, nella protesta popolare contro la politica di Emmanuel Macron. Una decisione che ha un peso particolare. Youcef Brakni, uno dei portavoce del Comitato Adama, spiega al Bondy Blog le ragioni di questa alleanza con un movimento in cui c’era stata qualche deriva razzista.

 

Intervista.

 

Il Bondy Blog: Qual’è stata la motivazione principale per sostenere la mobilitazione dei gilet gialli?

Youcef Brakni: Anche se questo movimento sta protestando contro l’aumento delle tasse, si tratta in realtà di un risentimento generale da parte della cosiddetta Francia “rurale”, abbandonata e che sta subendo in pieno il peso delle politiche neoliberali. Spontaneamente ha deciso di esprimere la propria frustrazione scendendo in strada come abbiamo fatto noi nell’anniversario della morte di Adama Traoré. Vi sono analogie nei modi di formazione di questi movimenti: come noi, anche loro vengono dalla base, da persone che non fanno necessariamente parte di partiti politici o sindacati.
Un altro punto: le stesse problematiche sociali sono condivise da gilet gialli e quartieri popolari. Anche i quartieri infatti sono isolati, anche quando si trovano in vicinanza dei grandi centri urbani, come, per esempio i quartieri nord di Marsiglia. Anche loro hanno problemi di trasporti e di mobilità. Noi sappiamo bene quanto tempo ci vuole per arrivare al lavoro, a svolgere i compiti più ingrati del capitalismo, per uno stipendio miserabile che finirà principalmente in benzina.

 

Il Bondy Blog: Di fronte all’urgenza della mobilitazione, non hai paura di stringere alleanze politiche con un movimento che può essere disparato ma che include persone all’estrema destra?

Youcef Brakni: Non credo che l’estrema destra sia alla testa di questo movimento, anche se, per ragioni opportunistiche, cerca di recuperare questa contestazione. So di gilet gialli che, sostenuti dal comitato Adama Traoré, guidano alcune mobilitazioni. Ci sono gilet gialli completamente diversi; ci sono state a volte reazioni razziste che sono state immediatamente denunciate a livello di nazionale. La maggior parte di queste persone sono schiacciate dal sistema, lasciate in stato di abbandono. Da vent’anni la destra e la sinistra si prestano come cinghie di trasmissione del discorso del Front National, è quindi normale che la classe popolare sia influenzata dal discorso razzista.

Nel complesso, i gilet gialli sono scesi in piazza per vivere con dignità e non a caccia di arabi o neri. Come emerge nelle discussioni concrete, loro  sanno benissimo che non siamo nemici; non si tratta di un razzismo sofisticato, come quello delle élite che, per opportunismo politico, vogliono fare leva sulle paure per evitare la questione sociale. Non dobbiamo gettare pietre ai gilet gialli, sono convinto che con il dialogo, il razzismo si dissolve.

 

Il Bondy Blog: Come vedi questa alleanza tra certi movimenti nei quartieri popolari e i gilet gialli?

Youcef Brakni: In realtà, questo tipo di approccio non è nuovo. Il Mouvement de l’Immigration et des Banlieues (MIB), attraverso Tarek Kawtari, aveva già avviato tentativi di alleanza con il mondo rurale, facendo una critica dei due pesi e misure nelle manifestazioni politiche: è facile andare a manifestare nel lontano Larzac mentre, nello stesso tempo, è difficile attraversare la tangenziale per sostenere i quartieri popolari. La sfida del Comitato Adama è quella di spostare il baricentro politico verso i quartieri emarginati. Altrimenti, non ha senso affermare di essere di sinistra, progressisti o addirittura di lottare per l’uguaglianza e la giustizia.

 

Il Bondy Blog: Questi tentativi di far convergere le lotte non sono durati a lungo. Perché? Quali sono le differenze con i gilet gialli?

Youcef Brakni: Finora, ciò [la convergenza delle lotte, ndr] è fallito perché ci iscriviamo nell’eredità delle lotte degli anni ’70 e ’80 che partivano dalle fabbriche. Ma oggi non c’è più uno spazio di socializzazione dove si possano creare movimenti di massa. Da notare che il Movimento dei Lavoratori Arabi di Marsiglia ha organizzato contro le spedizioni punitive ed i crimini razzisti uno sciopero di 24 ore seguito da 20.000 lavoratori. La sfida ora è ricostruire gli spazi e, attraverso il comitato Adama, stiamo creando uno zoccolo duro nei quartieri popolari. A partire da solide basi, possiamo andare a discutere con i movimenti sociali, il mondo rurale, facendo loro una proposta chiara per stabilire cause comuni: per esempio contro le violenze della polizia che colpisce i movimenti ambientalisti contro il nucleare come a Bure [laboratorio per stoccare le scorie radioattive in profondità, NdT], per la mobilitazione contro le nuove leggi che indeboliscono il diritto del lavoro, o, adesso con i gilet gialli sapendo che gli anziani nelle loro manifestazioni vengono gasati [ed anche uccisi come nel caso dell’anziana morta a Marsiglia dopo essere stata colpita al viso da un lacrimogeno, NdT]  pur non rappresentando  una minaccia. Oggi, si tratta di rendere consapevoli le classi sociali più svantaggiate che hanno sofferto a causa della deindustrializzazione, che la loro situazione non è dovuta all’immigrazione, ma al liberalismo, che vuole sempre di più e continua a delocalizzare. Tuttavia, per fare causa comune, essi devono capire che se il razzismo penetra questa lotta, questo ha conseguenze distruttive sulle nostre vite.

 

Il Bondy Blog: Qual è l’equilibrio da rispettare in questa alleanza politica con il movimento dei gilet gialli?

Youcef Brakni: Questa non è un’alleanza a scapito di una rinuncia politica. Noi non facciamo alleanze con persone apertamente razziste. Sono persuaso che facendo l’esperienza della lotta comune riusciremo a cambiare mentalità, per cambiare lo stato del presente. Questo passaggio non lo faremo con testi di 50 pagine di teoria o sui social network, ma grazie ad una lotta accanita contro questo trattamento razzista riservato ai quartieri popolari.

 

Il Bondy Blog:Nel tuo comunicato stampa, menzioni il movimento dei gilet gialli dell’isola della Riunione. Sono un esempio per te?

Youcef Brakni: Abbiamo molto in comune con la Riunione; si tratta di popolazioni nere, che sono oggetto di razzismo. Siamo solidali con loro e crediamo che siano all’avanguardia perché hanno ottenuto il blocco delle imposte per un periodo di tre anni; ciò rispecchia i rapporti di forza ma anche il livello di organizzazione. Mostra anche il nervosismo dello Stato di fronte ad una popolazione mobilitata nonostante la marginalizzazione e il razzismo.

 

Il 27/11/2018

Intervista di Yassine BNOU MARZOUK

Traduzione italiana Giorgio Griziotti

 

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