Pubblichiamo il Post scriptum tratto dal libro appena uscito di Cristina Morini, Vite lavorate. Corpi, valore, resistenze al disamore, (Manifestolibri 2022). In queste pagine, scritte il 5 marzo 2022, pochi giorni dopo invasione Russia in Ucraina, si sottolinea come la guerra e la costruzione del nemico che ne scaturisce, rappresenti il più potente dispositivo utilizzato dal capitalismo per frantumare e annichilire ogni forma di solidarietà umana.
Il volume sviluppa una riflessione che ha preso le mosse nell’era precaria della femminilizzazione del lavoro. Dopo una pandemia che ha reso evidente l’incompatibilità tra il capitalismo e il vivente, è necessario un aggiornamento sulla situazione del lavoro contemporaneo delle donne. Da lavoro precario, da lavoro “ombra” a lavoro involontario. Da riproduzione gratuita a produzione sociale gratuita. Da un’economia libidiale a un’economia dell’interiorità, attraverso forme di dipendenza e di rapina dell’attenzione. Mentre aumentano i profitti e la povertà cresce, che fine fanno le vite, le relazioni, l’amore? Possono i nostri corpi indicarci come resistere alla smaterializzazione imposta dalla digitalizzazione, dalla paura, dal narcisismo imperante? [dalla quarta di copertina].
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Mentre consegno questo libro, nel marzo 2022, la guerra si riaffaccia nel cuore dell’Europa. I conflitti non sono mancati, in questi decenni, in tante parti del mondo e anche tra paesi europei, non lo dimentico. Ma questa guerra assilla i miei pensieri per le modalità, per il peso e il numero degli attori in campo, per gli interessi economici che coinvolge, per gli armamenti di cui sono dotati gli schieramenti.
Provo un grande timore di fronte all’affermarsi, sempre più chiaramente privo di limiti, delle ragioni dell’economia e dell’accumulazione che questa guerra rappresenta in modo palese. Dopo due anni di pandemia, con economie nazionali già in grande difficoltà, il conflitto costringe milioni di esseri umani a trasformarsi in profughe e profughi, a lasciare casa e affetti, come sta accadendo in questi giorni agli ucraini e alle ucraine. Essi si sommano ad altri milioni di persone che fuggono da guerre diverse ma dalla stessa paura e dall’identica fame. L’effetto complessivo della dinamica innescata sarà un incremento della povertà, della diseguaglianza, del debito, dei tagli all’assistenza, visti i probabili drenaggi di finanziamenti che verranno destinati all’industria bellica. Saremo, tutte e tutti, ancor più obbligate/i a piegarci a piccoli lavori umilianti che consentono appena di sopravvivere e privano di ogni dignità. La grande guerra all’umanità di cui temo l’arrivo ha anche questo volto. Pavento questi processi di guerra agli uomini e alle donne più ancora della grande bomba, che probabilmente non mancherà a conferma della follia suicidaria di un potere fuori controllo. La nemesi originata dal crollo dell’Urss rischia oggi di generare una sorta di metafisica del capitale, nella sua ubiqua pervasività priva di limiti, che rischia di sovrastare ogni ragione e ogni critica, soffocando la lotta nel bisogno e nella paura.
Fuori dall’orizzonte drammatico di un conflitto da qualche giorno esplicito, ma dentro scenari in parte già preannunciati dalla pandemia, ho toccato questi temi nella stesura di questo testo dove ho cercato di radunare i pensieri di molti anni di ricerca sul tema del lavoro femminile e della soggettività alle prese con modificazioni del capitalismo.
Mi interessa riprendere, in questo post scriptum, la questione preoccupante del continuo ricorso alla costruzione del nemico che ho elencato tra le pulsioni negative cui ci ha esposte/i il connubio precarietà/competizione/paura dell’Altro, che è detonato nei due anni di emergenza sanitaria legata all’epidemia di Covid. Uno schema ciclico, se vogliamo, perché la società contemporanea avvicenda rapidamente idoli e mostri, scovando di volta in volta nuove vittime da buttare in pasto alla rabbia repressa e alienata del “popolo”. La rete, da questo punto di vista, è ormai un formidabile promotore di onde emotive basate su sentimenti negativi e sulla creazione di polarizzazioni che alimentano fratture.
La guerra non farà che ottimizzare, dunque, la costruzione del nemico sul quale è possibile proiettare ogni nefandezza, senza identificare affatto le responsabilità del potere. Il vero problema attuale è che i meccanismi perversi della politica degli interessi di parte dei poteri esistenti tendono a diventare autonomi rispetto alla propria origine: siamo addirittura noi stesse e noi stessi, inconsapevolmente e paradossalmente, a farcene interpreti e portavoce (vedi alla voce: precario e precaria impresa). Se non ne diveniamo profondamente coscienti, tale processo può davvero portare a un’autodistruzione incontrollabile del genere umano. Se non ritroviamo modo di raccontarci la storia da un punto di vista di differente, se non ricominciamo a riconoscerci come portatori di interessi distinti, meglio ancora opposti; se non ricominciamo a individuare la nostra parte, la parte di oppressi e oppresse, soggiogate da gerarchie; se non riprendiamo a sfidare ogni forma di dominio, di mitizzazione, di legge, di linguaggio, potremmo trovarci a breve in grande pericolo. Per usare le parole di Monique Wittig, dobbiamo riprendere a “studiare politicamente dall’interno la scienza della nostra oppressione”.
Aspettando il dispiegarsi degli eventi, fornisco un ultimo aggiornamento dei dati Istat che mostrano che nel primo mese del 2022 l’occupazione complessiva resta più o meno stabile (-7mila unità), ma tra le donne si contano 77mila occupate in meno in un solo mese, con un aumento delle disoccupate (+4mila) e – tema ancor più particolare – 74mila inattive in più (donne che un lavoro non ce l’hanno e non lo cercano). Perciò, gli andamenti segnalati nel corso di tutto il testo che avete tra le mani per quanto riguarda la dinamica attuale tra donne e mercato del lavoro continuano a trovare conferma. La guerra non potrà che approfondire il problema dell’espulsione femminile che rischia di farsi strutturale. Questo allontanamento potrebbe divenire fuga per andare in cerca di nuove forme sociali, di paradigmi alternativi, di “associazioni volontarie”? È pura utopia o pensiero che cerca di farsi largo tra cupi orizzonti di catastrofe?
In un’Europa in cui il dilemma dei confini torna, in queste ore, a esibirsi in modo drammatico come fonte di divisione e di gravissimo conflitto, in un’Europa di Stati non attraversabili da tutte e tutti e che sopporta con dichiarata ostilità i flussi di esseri umani provenienti da tutte le regioni del pianeta in cui la vita è minacciata, ho fatto ricorso alle parole di Audre Lorde e di bell hooks per ribadire la necessità di rovesciare la nostra visione dei confini e dei margini come linee di separazione o segregazione. Più che mai in questo momento, penso che essi vadano visti non come limite, linea terminale o divisoria (limes) ma come collegamento o centro differente, estranei ai modelli valoriali del potere, luogo cui le differenze possono incontrarsi. Debbo farmi coraggio e riacchiappare un’idea che, pur nella consapevolezza della potenza assunta dal capitalismo contemporaneo e dai rischi letali che stiamo correndo, provi a svincolarsi dalla storia-cronaca, troppo passiva rispetto alla realtà, e a immaginare forme di non-dominio e di giustizia distributiva.
Rimando allora alle mie conclusioni: ritrovare empatia e amore per l’Altro. Ritrovare amore e dunque lotta. L’essere umano è determinato dalle relazioni con altri, da impulsi di reciprocità. La visione claustrofobica e nevrotica del nemico ci porta solo verso la fine. Viceversa, un punto di vista alternativo che ci consenta di sentire gli altri come compagni di lotta schiude la possibile osservazione di un mondo diverso, in cui tutto è finalmente rivoluzionato. In questo momento che rischia di farsi difficile per l’umanità, proviamo ad alzare gli occhi verso il cielo, almeno un po’.
5 marzo 2022
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