Da un’analisi generale del movimento globale di Non Una di Meno, della sua composizione sociale, dalle rivendicazioni di lotta che oggi lo caratterizzano e dalle discussioni politiche di questi mesi all’interno del Tavolo Lavoro e Welfare, alle opzioni teoriche e politiche di cui oggi disponiamo per una sovversione radicale dell’eteronormatività e della sua funzione fondamentale nella costituzione e riproduzione dei rapporti sociali di soggettivazione, sfruttamento e potere nel neoliberismo
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La prospettiva femminista, queer e trans sul genere costituisce oggi un punto di vista privilegiato da cui comprendere e criticare i dispositivi di esercizio del potere e di accumulazione della ricchezza. La svolta neoliberista del mondo occidentale, a partire dagli anni Settanta, ha sancito l’avvio di una crescente terziarizzazione dell’economia reale e lo spostamento di ingenti capitali privati verso i servizi, la cultura, la conoscenza digitale, i territori e l’intera sfera della riproduzione sociale. Dal lato del capitale si verifica un processo di privatizzazione, parziale o totale, dei saperi e della proprietà intellettuale, della mobilità, della sanità e del terzo settore; su questo terreno già si diede uno straordinario ciclo di lotte sociali, in Italia come in altri paesi dell’Europa mediterranea, contro l’austerità e le privatizzazioni. Dal lato del lavoro vivo, assistiamo a una trasformazione radicale della sua composizione, divenuta precaria e altamente cognitiva e cooperativa, su cui la valorizzazione capitalistica agisce, estraendo e sfruttando tutte le potenzialità della vita umana, le capacità comunicative e performative di ciascun individuo, inclusi gli aspetti più intimi, affettivi, relazionali.
Così, il neoliberismo ha comportato una nuova modalità di governo della composizione del lavoro, consistente in una produzione e in un controllo dei processi quotidiani di soggettivazione volti a eroderne ogni forma di conflittualità. In questo senso, la governamentalità neoliberale – intesa come insieme diffuso e reticolare di pratiche discorsive, economiche, istituzionali e religiose – ha scavato nella storia degli ultimi trent’anni con costanza e razionalità: smantellamento progressivo del welfare e della presa in carico collettiva dei bisogni e dei desideri; individualizzazione e spoliticizzazione delle forme di vita; restrizione post-democratica degli spazi di partecipazione; inedita criminalizzazione e repressione delle lotte e di ogni espressione del dissenso. La privatizzazione e la messa a valore della riproduzione sociale si è spinta, nel cuore della controrivoluzione neoliberista, fino alla privatizzazione dell’intera vita degli individui.
Il genere, insieme alla razza, si rivela uno strumento fondamentale del governo e dell’assoggettamento delle vite umane messe a valore in quanto tali. Il binarismo di genere uomo-donna e la norma eterosessuale – così come il feroce controllo odierno della mobilità o la medicalizzazione dei corpi e delle menti a cui sono dedicati una gran varietà di servizi – sono centrali per la produzione biopolitica di soggettività produttive. Non a caso, la governance neoliberale ha prodotto ingenti sforzi ideologici e repressivi per mantenere saldamente egemonico il binarismo di genere, e dunque l’eteronormatività, nei decenni successivi alla rivoluzione sessuale degli anni Settanta. La sussunzione del General Intellect, delle facoltà linguistiche, cognitive e relazionali umane generiche, ha generato un’inedita proliferazione di profonde gerarchie di carattere neofeudale. Sulla pelle del lavoratore precario, o fintamente autonomo, si misurano oggi rapporti di dipendenza personale, di ricattabilità, di intermittenza, di mancanza di diritti e contratti collettivi, finanche di prestazioni gratuite e volontarie, che hanno affinato le modalità di sfruttamento del lavoro al punto da assimilarlo alla condizione del lavoro domestico, sessuale e di cura svolto dalle donne, sia all’interno della famiglia etero-patriarcale e mononucleare, sia al di fuori, del quale la naturalizzazione di genere occulta la produttività di valore – e ciò accade tutt’oggi, in termini percentuali, a livello globale. D’altro canto, è il genere in quanto tale a costituire e sollecitare quegli aspetti relazionali, comunicativi e soggettivi su cui fa oggi perno la produzione sociale. Pertanto, il genere è un luogo privilegiato dell’estrazione di valore. In questo senso si parla di “femminilizzazione” del lavoro: per indicare sia le nuove frontiere dello sfruttamento post-industriale, sia i rapporti economico-sociali di lavoro in cui questo si dà.
Se il lavoro produttivo è stato, in questo duplice senso, femminilizzato, il richiamo a una naturale differenza biologica tra uomo e donna è il dispositivo performativo funzionale, e necessario, alla “naturalizzazione” delle disuguaglianze sociali che derivano da quella stessa produzione. Assistiamo oggi a fenomeni apparentemente differenti, ma fondamentalmente alleati nel conservare l’istituzione binaria dei generi, e dunque l’eterosessualità quale sua condizione necessaria. Da un lato, si sono sviluppati strumenti di “inclusione differenziale” delle donne e delle minoranze LGBT, come il diversity management presso le grandi multinazionali, o l’estensione del welfare aziendale ai/alle partner dei/delle dipendenti omosessuali, o le varie campagne di pinkwashing; o, com’è ancor più noto, sono stati istituiti da alcuni governi autoproclamatisi progressisti, registri separati per le “unioni civili” omosessuali, mantenute distinte dai “matrimoni” eterosessuali e incapaci di attaccare l’impianto familista del welfare (si pensi al caso recente ed eclatante dell’Italia). Dall’altro lato, si sono invece sviluppati movimenti e partiti politici di matrice cattolica integralista, spesso neofascisti e razzisti, che si sono fatti carico di una crociata sessista (in Italia i medici obiettori di coscienza nei confronti della L. 194 sono il 70%) e omo-lesbo-transfobica (dalle Sentinelle in Piedi e Family Day nostrani fino alla Manif pour tous in Francia, dietro alle quali opera il vasto movimento pro life mondiale). Ovviamente, esistono profonde differenze tra il tentativo esplicito di eliminazione e delegittimazione delle donne e delle soggettività non eterosessuali, e invece il tentativo di sussunzione governamentale e del parziale soddisfacimento di alcune delle loro rivendicazioni. Ma quel che è più interessante non è entrare nel merito di queste differenze – che certo devono essere considerate, poiché richiedono pratiche di lotta e di sovversione differenti –, bensì la loro segreta alleanza: si tratta di due espressioni differenti, talvolta in contrasto tra loro, di una rinata egemonia eterosessista, di un blocco storico egemonico che ha l’interesse materiale a conservare e consolidare le differenze di genere a tutto svantaggio delle donne e delle soggettività non eterosessuali. Come ben dimostra, tra le altre cose, il Piano Nazionale di Fertilità varato dal Ministero della Salute italiano, lo scorso autunno, e – benché in sordina – tuttora pienamente operativo, l’autoevidenza della differenza sessuale, la centralità della famiglia procreativa e l’ingiunzione all’eterosessualità rappresentano gli elementi centrali intorno a cui ruotano l’ordine del discorso egemonico e le sue pratiche di assoggettamento.
Ogni giorno, migliaia di persone contrastano quelle pratiche di assoggettamento basate sul genere, mettendo a dura critica la funzione performativa dell’eteronormatività. Negli ultimi anni abbiamo osservato una potente riemersione dei movimenti femministi, trans e queer, dall’Argentina alla Polonia, dalla Spagna agli Stati Uniti, passando per Messico, Cile e Brasile, fino alla manifestazione oceanica di Roma del 26 novembre scorso: la discussione partirà proprio da qui, dalla composizione e dalle rivendicazioni del movimento globale Ni una menos per misurare la tenuta e l’efficacia di alcuni strumenti teorici proposti. Alla denuncia della violenza e dello sfruttamento quotidianamente esercitati dallo stato, dal capitale e dal privilegio maschile-eterosessuale sui corpi delle donne e delle soggettività non eterosessuali, nonché della disparità salariale che si dipana lungo le linee del genere, seguono le rivendicazioni a un welfare universale, alla riduzione dell’orario di lavoro per tutt* e all’erogazione di un reddito di base universale sganciato dal lavoro produttivo – tutto ciò al fine di una abolizione della divisione sessuale (e razziale, e di classe) del lavoro riproduttivo a cui siamo abituati, affinché la riproduzione divenga una “questione sociale” e non “di genere” (né “di razza”, né “di classe”). Solo in questi termini, infatti, le rivendicazioni universali possono trovare legittimazione all’interno di una mobilitazione femminista, trans e queer di questa portata. Solo, cioè, se mirano a “sovvertire l’eterosessualità”, per dirla con le parole di Federico Zappino. Ossia, solo se mirano a sovvertire la matrice da cui dipende l’ordine sociale dei generi e il sistema di dominio, sfruttamento e abiezione da essa regolato Su questi temi si terrà lunedì 6 marzo, alle ore 21, presso il Laboratorio Culturale Autogestito Manituana (Via Sant’Ottavio 19, Torino), un dibattito con Simona de Simoni e Federico Zappino NOTE [1] Federico Zappino, Sovversione dell’eterosessualità, in Id. (a cura di), Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo, ombre corte, Verona 2016.
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